Ieri è morto padre Bossi, il missionario del Pime rapito nel 2007 nelle Filippine. Lo ricordiamo con la testimonianza che pronunciò a Loreto davanti al Papa e a migliaia di giovani.
Cinque anni fa - nel settembre 2007 - i giovani italiani facevano tappa sulla collina di Montorso, a Loreto, per l'incontro con il Papa, momento culminante di un triennio dedicato alla pastorale giovanile. Ma non c'erano solo il Papa e i giovani quella sera: uno dei momenti più forti di quell'evento fu la testimonianza di un missionario del Pime, padre Giancarlo Bossi, appena reintrato in Italia dopo aver trascorso quaranta giorni ostaggio di un gruppo di duerriglieri islamici a Midanao, nelle Filippine. Un uomo di poche parole che racconta che cos'erano per lui la vita e la missione.
Ieri padre Bossi è morto a Rozzano (Milano) a causa di una grave malattia. E oggi vogliamo ricordarlo riproponendo quella sua testimonianza così piena di passione per il Vangelo e per l'uomo.
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Mai avrei pensato nella mia vita di trovarmi di fronte a tanti giovani. Chiedo scusa se mi vedete impacciato. La parola non è il mio forte. Sono convinto che ciascuno di noi ha un sogno da realizzare. Ciascuno di noi ha qualche cosa da dire. Non solo con le parole, c'è anche chi si esprime con gesti, chi nel silenzio solidale, chi con un sorriso. L'importante è mantenere vivo il sogno della vita. L'importante è volare: ragazzi, fatevi rapire dai vostri ideali.
Io ho iniziato a sognare quando ho deciso di entrare in seminario, ho continuato il mio sogno durante la mia ordinazione sacerdotale, l'ho vissuto nelle Filippine per tanti anni. L'ho toccato con mano durante i giorni del mio rapimento. Sono un missionario, uno dei migliaia di preti impegnati in tutti i Paesi poveri del mondo. Vivo nelle Filippine da 27 anni. Continuerò a farlo. Spero. Questa storia non cambia, non mi cambierà. Anzi, no, qualcosa di diverso c'è: non fumo dal 27 giugno. Spero di non riprendere. È iniziato tutto il 10 giugno. Era il giorno del Corpus Domini. Una festa a me cara perché mi ricorda il Cristo pane spezzato per l'umanità, agnello immolato per la speranza dell'uomo; innocente vittima che accumula su di sé la sete di giustizia di tutte le donne e gli uomini che nel mondo soffrono. Avevo detto Messa alle 7 nella chiesa di Payao, poi ero salito sulla moto per andare a un'altra celebrazione.
Ho visto questi uomini in divisa, con i mitra. Pensavo fossero dell'esercito. Poi ho capito, ma la frittata ormai era fatta. Mi avevano preso. Ricordo che quando stavo salendo sulla barca con loro il mio primo pensiero è andato alla gente della mia parrocchia in Payao. Durante il lungo viaggio in mare, coperto da un telone, mi sono chiesto che cosa il Padre mi chiedeva. È così che sono iniziati i quaranta giorni di prigionia. Ho patito la fame, tantissimo, e la fatica. Ma non ho mai avuto paura di morire.
Cercavo di parlare con i miei rapitori. Ho chiesto loro: "Voi pregate come me il Dio della Pace. Com'è che lo fate con il mitra alla sinistra e un sequestrato alla destra?". Mi hanno risposto che Allah è nel loro cuore. Il rapimento è lavoro. Pagati per eseguire un rapimento, l'hanno fatto. Sono stato per quaranta giorni sulle montagne. Mi ci hanno portato con la forza. ho visto attorno a me persone povere, spaventate. Persone che volevano farsi forza tenendo tra le mani un fucile. Per loro ho provato compassione. Ho cercato anche di mettermi nei loro panni. Anche in loro ho visto la bontà di Dio. Quel Dio che ti prende per mano e che non ti lascia solo. Quel Dio che ti fa superare le paure e che entra in rapporto con te chiedendoti la totale disponibilità. Durante i quaranta giorni del mio deserto nella foresta mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera è diventata più essenziale e forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva. Nelle difficoltà con forza si sperimenta la tenerezza di Dio. Ti fa recuperare la dimensione del tuo essere dono. In quel momento ho chiesto al Padre di mandare un prete a Payao. Un altro prete che continuasse ad annunciare il Vangelo alla mia gente. I miei rapitori erano tutti giovanissimi, intorno ai vent'anni. Ho capito che avevano già ucciso. Cercavo di capire con le mie domande, di fissare un dialogo con i rapitori. Mi sono reso conto che anche loro sono dei poveri diavoli, abbrutiti più dalla povertà che dalla volontà di fare del male. Dall'esterno non arrivava nessuna notizia. I giorni passavano e mi sentivo scoraggiato. Col Rosario mi tenevo aggiornato sulle date, ma la conta è stata estenuante. Temevo che il rapimento sarebbe durato tre, quattro mesi, così quando mi hanno detto che mi avrebbero lasciato andare non ci ho creduto. Pensavo mi prendessero in giro. Invece, mi hanno liberato, il 19 luglio. Ho voluto telefonare subito a casa, per rassicurare la mia mamma, Amalia, che proprio quel giorno ha compiuto 87 anni. È stata una telefonata d'istinto, di pancia. Sono in Italia da qualche settimana ormai, ma voglio tornare il prima possibile dalla mia parrocchia di Payao, dai miei bambini. I poveri hanno bisogno di persone capaci di amare senza limiti o condizioni, e a Payao la gente è povera. Io sono stato sequestrato fisicamente, ma sono troppi coloro che sono sotto sequestro della povertà. La loro prigionia può durare una vita. Qui, in Italia, mi capita di sentire dei bambini che, di fronte al cibo, dicono: "Che schifo!". Nelle Filippine vedo i loro coetanei frugare nella spazzatura e ringraziare Dio se trovano qualcosa. C'è una distorsione profonda in tutto questo. Qui c'è bisogno di recuperare i valori, là delle condizioni di vita più umane. Mi sono chiesto tante volte perchè mi hanno rapito. A me non piace essere in prima fila. Ma ho capito. È perché fra di noi ci sono tante persone che nel silenzio si prendono cura del loro fratello, dei genitori, dell'handicappato... Io sono qui a nome loro, di tutti quelli che agiscono nel silenzio. La loro testimonianza dovrebbe diventare la forza del nostro agire, la forza del nostro sogno.
Giancarlo Bossi
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