Può apparire inopportuno porre tra i verbi della relazione il «sopportare» l'altro. In realtà nell'incontro interpersonale profondo, ognuno è debole ed ognuno è forte allo stesso tempo.
del 09 luglio 2007
Anche a Gesù capitò un giorno di sbuffare: «O generazione incredula, fino a quando dovrò sopportarvi?» (Mc 9,19). La reazione sembra proprio uno sfogo con cui ci si libera dal peso derivato da un rapporto più frustrante che gratificante. La parola può sorprendere in bocca a Gesù. Infatti per noi il termine «sopportare» ha connotazioni di fatica, di fastidio, di sforzo a senso unico, di prezzo da pagare senza alcun apparente guadagno. Quando il termine comincia ad apparire troppo spesso nel contesto di un rapporto tra persone, si ha d’istinto la non tanto vaga sensazione che quel rapporto stia entrando in uno stadio pre-agonico, se pure non ci è già arrivato. Può dunque causare una qualche meraviglia che nella citazione di Giuliana di Norwich, scelta come punto di partenza di queste riflessioni, ove sono condensate in quattro verbi le operazioni che reggono la relazione sotto il segno della misericordia e della tenerezza, il verbo «sopportare» appaia al secondo posto, immediatamente dopo il verbo «custodire». Evidentemente ci deve essere nella parola un senso più profondo di quello che appare a prima vista, anche se tale significato, nelle sue connotazioni di pesantezza e fatica, non può essere cancellato.
 
 
Prendere sulle spalle un peso
 
Torniamo dunque alle radici della parola, che nel caso non sono neanche difficili da scoprire. Il latino sub-portare indica il prendere sulle proprie spalle un peso e, con questo, avanzare insieme. Ovvio che chi porta è più forte di chi è portato. E dunque è chiaro che il sopportare entra nella dinamica forza-debolezza che sta nel cuore di ogni relazione, insieme a polarità analoghe quali sintonia-alterità, prossimità-distanza, passione-rispetto, ecc. Se la relazione nasce da un bisogno reciproco, e dalla capacità di rispondere a questo bisogno, è naturale che nel rapporto ci sia una situazione di disparità, che nel caso crea un rapporto di forza-debolezza. La disparità e l’oscillare delle due posizioni crea una «dinamica». Questo significa che la relazione è un processo aperto, una situazione di perenni lavori in corso, dove la possibilità di conflitti e la necessità di relativi riaggiustamenti fa parte della natura stessa dell’entrare e del vivere in un rapporto tra persone.
Ma torniamo al senso della parola. Una scorsa veloce a qualche passo della Scrittura in cui appare il verbo «sopportare» nella forma greca bastázo permette di fare subito osservazioni suggestive. Scrive san Paolo ai Romani: «Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (Rm 15,1). Il messaggio è trasparente e nel caso riguarda strategie relazionali all’interno della comunità cristiana. Qui il «sopportare» è una necessità verso i deboli, ed è insieme la conseguenza di una visione della vita in cui non si può fare di se stessi l’unico centro di interesse. Ivi la «forza» sarebbe un bene da sfruttare solo a proprio uso e consumo. Il verbo riappare in un altro passo, ed è nel grido di gioia della donna che esalta colei che ha «portato» Gesù nel suo grembo (Lc 11,27). Il passo è cruciale, perché meglio di ogni altro fa capire che nel «portare/sopportare» è in gioco la stessa vita: senza un grembo che lo porti un bimbo non può maturare e venire alla luce. Senza la disponibilità a sopportare l’altro, una relazione semplicemente non può vivere, non può durare. Che questo non sia facile appare chiaro poco più in là nello stesso vangelo di Luca, dove il verbo è usato nella frase «portare la croce» (Lc 14,27). Questo atteggiamento trova poi un’applicazione molto pratica nell’invito a «portare i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2), azione riconosciuta come condizione necessaria per «adempiere la legge di Cristo». Ecco qui delineata in sintesi una «teologia della sopportazione» come cuore e sostanza stessa della vita di relazione, come modalità di mutuo sostegno, in cui i bisogni generati dalla nostra fragilità strutturale trovano la risposta che ci permette di superarli.
 
 
Sopportare e supportare
 
Si capisce dunque che ci sono almeno due aspetti del sopportare che sono complementari e che la stessa lingua ha precisato con due verbi che hanno la medesima origine e una diversa storia. Il primo è il ben noto sopportare, di cui si è detto. Il secondo è supportare, adottato dall’inglese support, che, a sua volta, l’aveva preso dal francese supporter, derivato, come l’analogo italiano, dal latino sub-portare. La forma supportare è dunque, almeno teoricamente, un inutile doppione, anche se il suo ingresso nella nostra lingua può essere stato favorito dalla presenza del sostantivo supporto. Quello che è interessante, però, è che i due verbi hanno preso, ciascuno per conto suo, un aspetto del significato complesso dell’originale latino: potremmo dire che in sopportare c’è più un aspetto passivo e una dimensione di fatica (che può arrivare fino a un senso di dolorosa rassegnazione di fronte all’ineluttabile), mentre in supportare prevale l’azione generosa, volontaria e volonterosa, e alla fine gioiosa, di chi si mette a disposizione per soccorrere e aiutare chi è debole. Che il secondo verbo sia di più raro uso rispetto al primo è forse solo un caso, ma potrebbe anche indicare che nel sopportare si percepisce più la sensazione di sofferenza, probabilmente primaria e maggioritaria, che tale atteggiamento ha in una relazione, rispetto al suo risvolto positivo, più evidente nel verbo parente supportare. Ma è comunque importante non disgiungere i due significati. Vale qui quanto si dice del sacrificio, che costa, e che uno fa perché vi intravede un effetto positivo, perché solo così quella che è e rimane una sofferenza può essere deglutita: se diventa un atto di amore.
 
 
La tenace perseveranza dell’amore
 
E la sopportazione ha esattamente a che fare con l’amore, come dice, in modo del tutto esplicito, Paolo, quando scrive che «la carità tutto sopporta» (1Cor 13,7). Il verbo usato in questo caso non è bastázo, ma ha una valenza figurativa se possibile ancora più affascinante: ypo-méno, infatti, vuol dire letteralmente «rimanere sotto», e in subordine «resistere, perseverare, tollerare, sopportare». Il sostantivo che ne deriva, ypomoné, è normalmente tradotto con «pazienza, sopportazione, costanza, perseveranza». Non è un caso che tutti questi verbi possano essere collocati sotto l’asse del «rimanere», venendo così a costituire la garanzia della durata nella relazione.
Forse a questo punto si è capito perché Giuliana di Norwich abbia collocato il sopportare subito dopo il custodire. Ambedue questi verbi sono una messa in guardia contro quella che è la minaccia più grave di una sana relazione: l’istinto fusionale, che nasce dall’illusione che l’altro sia la risposta totale e immediata al nostro bisogno di affetto, di senso, di amore. Ma non si dà né totalità né immediatezza. È bene abituarsi a guarire (non è una cosa né facile né rapida) da questa illusione. Essa è fonte di tante fragilità e fallimenti nella vita di relazione. Dalla «totalità» si guarisce con la custodia, che chiede di rispettare la diversità dell’altro; dalla «immediatezza» si guarisce con la sopportazione, che chiede di aspettare l’altro quando questi non gratifica, anzi chiede, magari senza dare. Nella doppia dinamica del rispettare/aspettare si può costruire un rapporto arioso, gioioso, vivace.
I modi con cui si esercita la sopportazione possono essere tanti. Tra questi, vorrei mettere al centro il silenzio discreto, la rinuncia a voler sapere tutto, a voler capire tutto dell’altro. E ancor più quello che è il vertice della delicatezza: portare chi è diventato un peso senza farglielo pesare! Al momento ci si guadagna poco, certo, ma accade che persone fragili (e tutti possiamo esserlo, in ogni momento) ritrovino in questo sentirsi sopportati/supportati il benessere, la felicità, la gioia di esistere di quando erano semplicemente portati nel grembo della madre.
Domenico Pezzini
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