Si può perdere la sensibilità dei mezzi espressivi che il cinema offre. Ecco allora che Avatar appare, più che un film, una concatenazione di immagini singolarmente meravigliose ma giustapposte.
del 11 marzo 2010
 
          È un bel giorno per lo sparuto club anti-Avatar. Per coloro che a dispetto dello stupore generale - peraltro giustificatissimo - per questo prodotto di alta ingegneria, già da qualche settimana sussurravano a mezza bocca che quello di James Cameron era un gigante d'argilla, apparentemente inattaccabile e invece potenzialmente suscettibile di venire sgretolato in pochi attimi dal Davide della rediviva Kathryn Bigelow e dalla sua relativamente piccola macchina produttiva, provvista però di un montaggio che da sempre costituisce la sua fenomenale e precisissima fionda.
          A Cameron va il grande merito di un fiuto che ormai ha davvero del geniale. Sono più di vent'anni che il regista-produttore canadese ci stupisce sfoderando la tecnologia giusta al momento giusto: negli anni Ottanta era stato lo sconcertante scenario cyberpunk del primo Terminator, promosso di lì a poco a parabola apocalittica con l'obbligatorio sequel; negli anni Novanta era stato il gigantismo calligrafico di Titanic, banalissimo nei contenuti ma importante per il fatto stesso di catturare un evento epocale dagli abissi della storia per portarlo sulla superficie del grande schermo; ora era la volta di un universo completamente digitale, del tentativo di estromettere del tutto l'elemento umano dal risultato finale di un processo produttivo in cui l'intervento umano era al contrario maniacale e negli esiti persino soffocante.
          A lui va anche il merito di aver coniugato lo sforzo finanziario con un racconto dal messaggio semplice ma edificante, piacevole rivelazione per uno che ai tempi di Aliens sembrava nutrire simpatie militariste. Se però si decide di abbandonare del tutto la cinepresa per affidarsi al monitor degli effetti speciali, si rischia grosso. Si può perdere la sensibilità dei mezzi espressivi che il cinema offre.
          Ecco allora che Avatar appare, più che un film, una concatenazione di immagini singolarmente meravigliose ma giustapposte. Senza un'idea forte che dia loro organicità - termine davvero emblematico da contrapporre all'artificiosità del prodotto -, senza insomma l'impressione di uno sguardo autorevole che tenga tutto insieme e gli dia un'anima: se durante i titoli di coda invece del nome di Cameron fosse comparso quello di uno qualsiasi delle centinaia di bravissimi mestieranti del cinema americano, non ci saremmo di certo stupiti, al di là di chiedersi come questo sconosciuto sia venuto in possesso di cotanta tecnologia.
          È davvero significativo e simbolico che a sconfiggere questo gigante alla fine buono ma tanto ingenuo da scoprire il fianco, sia una regista che, al contrario, fa dei mezzi precipui del cinema la sua arma migliore. Già moglie proprio di Cameron, la Bigelow è infatti sempre stata un vero asso nell'arte mai abbastanza considerata e invece cruciale del montaggio. Il suo Point Break, thriller dalle velleità vagamente filosofiche dei primi anni Novanta, è un capolavoro di cinetica in senso stretto. Attenzione, anche in questo caso non stiamo parlando di una grande poetica personale, di un mondo interiore chissà quanto vasto, di Kurosawa o di Bergman.
          Anche la sua, come quella dell'ex coniuge, è un'ispirazione attratta dal lato più epidermico della settima arte. Ma mentre Cameron continua a baloccarsi coi suoi pupazzi blu da milioni di dollari, la Bigelow è una che in tempi di cinema sempre più commerciale e ormai preda della chimera del 3D - pacchianata che riemerge ogni tanto a Hollywood per risollevare crisi economiche o creative gettando fumo negli occhi dello spettatore meno pretenzioso - ha il coraggio e la forza di volontà di sporcarsi le mani con ciò che questa antica invenzione le avrebbe offerto anche ai suoi albori: una striscia di stoffa di celluloide e un paio di forbici che lei usa davvero come nessun altro.
          In più, stavolta ha avuto l'intelligenza di optare per un argomento da instant-movie come il conflitto in Iraq, capace di conferire un senso forte al suo sguardo poco partecipato: qualcuno ha parlato di cinema guerrafondaio, altri hanno osservato come al contrario il film denunci gli orrori della guerra, probabilmente non c'è niente di tutto questo, ma una sospensione di giudizio che non ha affatto il sapore del qualunquismo, bensì di un occhio attonito sul mondo che riverbera addirittura echi neorealisti, confermati dal pedinamento da 'Zavattini futurista' con cui la regista bracca nervosamente i suoi personaggi.
          Dando un'occhiata agli altri premi assegnati stanotte, fa piacere quello a Jeff Bridges, attore pigro come il suo Grande Lebowski di qualche anno fa ma dalle molte vite. Mentre fra i delusi il discorso si spacca: dispiace per Tra le Nuvole, commedia meno scontata delle apparenze che si concede un finale più agro che dolce e persino un excursus in territori alla Frank Capra aggiornati con dovizia di dettagli credibili alla recente crisi economica statunitense. Dispiace molto meno per l'ormai sopravvalutato Tarantino e per il suo tentativo - per la verità coraggioso - di riscrivere la storia con le cadenze del cinema di genere: la sua scorta di cinefilia è finita da tempo, è ora che torni a sporcarsi le mani sull'esempio davvero prezioso della prima donna regista ad aggiudicarsi la famosa statuetta nel mondo artistico più maschilista che c'è.
Emilio Ranzato
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