Le ostie della Misericordia fatte in carcere

Da mesi tre uomini fanno ogni giorno gli stessi gesti...

Le ostie della Misericordia fatte in carcere

 

Opera, carcere di massima sicurezza. Qui scontano la pena i detenuti pericolosi, gli assassini, i mafiosi, gli evasi. Ma un lungo corridoio conduce a una porta che è diversa dalle altre: 'Il senso del pane', è scritto fuori.

 

Dentro, da mesi tre uomini fanno ogni giorno gli stessi gesti: spalmano farina e amido sulla piastra calda, pressano, ricavano una grande ostia rotonda da cui ne ritagliano dieci più piccole, su ognuna l’impronta del Crocefisso. Un lavoro di pazienza, «a macchina sarebbe più rapido», dicono, ma la fierezza deriva proprio dal farlo a mano. Anzi, con quelle mani. Come hanno scritto al papa qualche settimana fa: «Santo Padre, in passato ci siamo macchiati della più atroce violazione dei dieci comandamenti impartitici da nostro Signore, l’omicidio. Oggi produciamo con le nostre mani ostie che vengono consacrate in varie chiese. Così possiamo far arrivare il frutto della nostra volontà di redenzione ai cuori delle persone, soprattutto di quelle la cui sofferenza è dovuta ai crimini da noi commessi...». Infine una preghiera, «avere un giorno la possibilità di essere noi stessi, con le nostre mani un tempo sporche di sangue, a consegnare nelle vostre mani benedette le nostre ostie, in occasione del Giubileo della Misericordia... ». Firmato Giuseppe, Ciro, Cristiano: due ergastolani («fine pena mai»), il terzo condannato a 23 anni.  A sceglierli tra i 1.300 detenuti è stato il giovane direttore, Giacinto Siciliano, convinto che «la vera sfida è scatenare il cambiamento dove nessuno se lo aspetterebbe» e pronto a puntare sul cammino interiore già intrapreso dai tre uomini. Il progetto invece nasce dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti fondata da Arnoldo Mosca Mondadori, famosa per saper trarre il bene dal male, come fece costruendo con il legno dei barconi la Croce di Lampedusa baciata da Francesco e da allora in viaggio per l’Italia.

 

«Ciò che teniamo a dire è che, se la redenzione è stata possibile per noi che siamo grandissimi peccatori, allora è possibile per tutti», dice Giuseppe Ferlito, catanese, 46 anni, in carcere da 19. In Sicilia ha tre figli, sei nipotini e l’anziana madre, mentre il padre è morto un mese fa e al funerale lui ha potuto partecipare con la scorta in chiesa, «ma nessun imbarazzo: oggi per me sono persone delle istituzioni che mi stanno vicino», sorride con intenzione. Sulle sue colpe non cerca sconti, «sarei bugiardo se dicessi che ero incosciente. Avevo già tre figli e un ottimo lavoro, non avevo mai fatto nulla di male... Purtroppo un mio amico fu ucciso e io ebbi l’arroganza di pensare che la giustizia dobbiamo farcela noi...».  Il pentimento, nato sotto lo sguardo dei suoi figli destinati a crescere senza padre, si è rafforzato nel carcere di Bergamo, dove il cappellano don Fausto ha risvegliato in lui la nostalgia di un Cristo conosciuto da bambino. «Nel 2010 ho scritto una lettera ai parenti delle mie vittime per chiedere perdono, forse non risponderanno mai, ma l’importante è stato scriverla. Quanto al resto, ho solo il rimpianto di dover restare qui fino all’ultimo dei miei giorni per una mia follia», scuote la testa. Il suo foglio di detenzione non lascia dubbi, Fine pena 10 dicembre 9999 vi si legge, un modo come un altro per dire mai. Sembra uno scherzo di cattivo gusto, ma Ciro D’Amora ride con sguardo buono e mostra anche il suo, Fine pena 11 novembre 3333: «A me va meglio, lui esce tra settemila anni!». Mentre parla non smette di pressare le ostie e Cristiano le taglia. Ciro ha 52 anni ed è di Napoli. È in carcere da 34 anni ma è sempre allegro, come solari sono i suoi affreschi lungo i corridoi. «Da ridere ci sarebbe poco – osserva – ma io mi affido a Lui e da qui al 3333 ne ho di tempo per aprirgli il cuore... Sono entrato in carcere a 18 anni e mi sono fatto tutti i passaggi, 41 bis (carcere duro), Eiv (elevato indice di vigilanza), As (alta sicurezza), ora finalmente non sono nessuno», sorride. La cosa più insensata che ha fatto, nel 1992, ricadere nel reato durante il primo e ultimo mese di semilibertà. La più sensata, in quello stesso mese, sposare l’amore di sempre e concepire una figlia: «Anche se sono finito dentro quando aveva 12 giorni, siamo legatissimi. È la vita mia, ancora sette esami e si laurea, il mio cambiamento lo devo a lei...», gli brillano gli occhi.  A sua moglie allora consigliò di rifarsi una vita, ma lei fu coerente, «cosa ci siamo detti all’altare?». Con i parenti delle sue vittime non ha mai parlato, ma grazie al progetto 'Sicomoro', che mette in contatto i detenuti con vittime di reati analoghi a quelli compiuti da loro, ha ridato speranza alla mamma di Andrea, un ragazzo ucciso: «Era disperata perché atea, oggi dice che le ho insegnato a credere. Senza la fede in cosa si può sperare?».

 

Ogni giorno i tre uomini producono 1.200 ostie che, donate a parrocchie e monasteri di tutta Italia, diventano il corpo di Cristo. «Nel Giubileo della Misericordia vorremmo consegnarle personalemente a Francesco», racconta Cristiano Vallanzano, 29 anni soltanto, arrestato a venti e già passato per dieci carceri diverse. «Avevo un lavoro, ma con due amici volemmo fare una bravata, non avevo alcun bisogno di fare rapine...». Ma la bravata impiega un istante per virare in tragedia e indietro non si torna... «Dal primo giorno qui a Opera ho preso una decisione, di affrontare questo percorso con volontà e approfittarne per migliorarmi. Ho fatto quel che ho fatto, ma io so di non essere quello – cerca di spiegare –, di pagare per una colpa terribile che però non descrive chi sono davvero. Dio lo sa se nel suo cuore una persona è buona o cattiva e questo mi dà forza». È deluso da se stesso, «non usavo droghe, non avevo vizi, una sola fesseria e ti rovini tutta la vita», ma sa anche di essere fortunato, «non è scontato che qualcuno creda in te. Ogni ostia che faccio è il grano di un Rosario, mi induce a meditare, a pregare...».  Lo fanno spesso, pregano prima di iniziare il lavoro e durante la giornata, per se stessi e per le loro vittime, per i malati e i sofferenti. «Grazie a chi ci ha dato questa possibilità ci troviamo a convivere ogni giorno con il mistero dell’Eucarestia e a riflettere su come questo sacramento porti un messaggio di salvezza a tutti gli uomini, anche a noi», aggiunge Giuseppe. Di nuovo corridoi e chiavistelli. L’uscita, aria aperta, libertà. Ma anche un disagio amaro che resterà senza risposta: dei vecchi Ciro, Cristiano e Giuseppe resta solo il nome, gli uomini che ho incontrato sono nuovi, hanno risalito l’abisso e scalato una montagna. Io però esco, loro restano. Mi strappano una promessa: tornerai?   

 

ECCO COME POSSONO RICHIEDERLE LE PARROCCHIE DI TUTTA ITALIA.

 

Grazie al progetto 'Il senso del pane', le ostie prodotte nel carcere di Opera vengono donate alle parrocchie di tutta Italia che ne facciano richiesta, in qualsiasi quantità (casaspiritoarti@gmail.com). In cambio – spiega Arnoldo Mosca Mondadori, ideatore del primo progetto del genere – i detenuti chiedono «umilmente » che i sacerdoti comunichino il senso della cosa ai parrocchiani e che una sola volta in tutto l’anno le offerte della Messa siano devolute per il proseguimento dell’iniziativa.

«Non importa quanto verrà raccolto, ma che gli aiuti siano donati con la consapevolezza che attraverso questo lavoro recuperiamo la nostra dignità. Un euro dato col cuore vale più di migliaia dati con indifferenza», chiedono i tre detenuti. Anche nella Messa di Natale celebrata l’altroieri nella redazione di Avvenirele ostie consacrate erano quelle di Giuseppe, Ciro e Cristiano, come succede da mesi in tante parrocchie. Lo racconterà un documentario presto prodotto dalla Poetic Film Arts, con la regia di Daniele Pignatelli, girato nel penitenziario e via via nelle molte realtà in cui le ostie approdano, tra le claustrali del-l’Isola di San Giulio sul Lago d’Orta, al convegno nazionale del Rinnovamento dello Spirito che ha distribuito 5.000 ostie a Lampedusa, tra i migranti.

 

 

Lucia Bellaspiga

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