Leggere o lasciarsi leggere?

Protagonisti della preghiera non siamo noi, ma Dio. È lui che desidera l'incontro con noi, e lui che, ci ha messo in cuore il desiderio di stare con lui, è' lui che ci parla e interpella come nessuno potrebbe. Imparare a legger così la Parola vuol dire davvero quel "farsi leggere" che rigenera la mente e apre vie nuove.

Leggere o lasciarsi leggere?

da Teologo Borèl

del 13 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

 

          La preghiera ci educa in quanto scava e fa emergere in noi la verità di noi stessi, ma come permettere che ciò avvenga? Come verificare la qualità veritativa del proprio stare dinanzi a Dio? Perché la preghiera quotidiana spesso non svela all’orante la sua propria identità e verità?

          È lecito pensare che tali interrogativi esprimano dubbi un po' di tutti e segnalino una fatica altrettanto universale. Chi prega è sempre un apprendista della preghiera, che imparerà a pregare pregando. Soprattutto se viene aiutato a porsi in un certo atteggiamento nei confronti del Dio ed evitare alcuni equivoci.

          Noi spesso pensiamo alla preghiera come a un’operazione mentale-verbale o immaginativo- contemplativa sostanzialmente nostra, che ci vede attivi e tutt'intenti a riversare parole o riflessioni, o proteste e lamentazioni su una superficie muta o passiva che sarebbe Dio. Così pure ci viene spontaneo pensare che la preghiera e il tempo che le dedichiamo sia ancora un attività strettamente dell'orante, una scelta soggettiva e naturalmente meritoria. Con la conseguenza, tipica delle operazioni un po' troppo personalizzate e magari po' narcisiste, che sperimentiamo molto più facilmente la fatica che non il gusto dello stare di fronte a Dio, l’obbligo delle pratiche di pietà più che la bellezza “degli atri dei Signore'.

          C'è insomma un certo protagonismo orante in tutti noi che diventa come una caricatura della preghiera, la quale non s'addice proprio a chi vuol far da protagonista. Perché il protagonista della preghiera è Dio, è lui che desidera l'incontro con me, è lui che mi ha messo in cuore il desiderio di stare con lui, è lui che mi parla e interpella e m'accusa e illumina..., con quella sua parola che mi scruta dentro come nessuno potrebbe, dolcissima e amarissima.

          È il caso, allora di chiederci se davvero, in questi tempi di grande familiarità con la parola di Dio, stiamo imparando a farne un uso intelligente. Non basta aver cambiato i termini e parlare di lectio se poi noi, splendidi analfabeti del nostro mondo interiore, pretendiamo leggere la Parola e dimentichiamo le due premesse fondamentali d’ogni lettura della Parola: la convinzione cioè, che è essa che ... ci legge, non siamo noi a interpretarla: e che la parola di Dio non ci parla solo di Dio. ma anche di noi, di ciascuno di noi.

          Le potenzialità educativo-formative di questa Parola sono impensate per quel che ci dice del mistero del nostro io, ma raramente le sappiamo interpretare e sfruttare adeguatamente.spesso ancora ci difendiamo dalla Parola per quel che ci svela di noi. o preferiamo contemplare più pacificamente, e un po' presuntuosamente, quel che ci dice di Dio, senza cogliere. all'interno della teofania, anche la nostra storia, con le sue luci e le sue ombre.

          Propongo allora tre vie aperte dalla parola di Dio al lettore fedele e accorto, che non pretende esser lui a leggere e interpretare la Parola, ma che si lascia da essa leggere e interpretare.

La vita relativo-penitenziale

          È la via che si apre a chi niella Parola impara a scrutare e riconoscere se stesso, oltre quel che egli già sa di sé o presume sapere, oltre il suo positivo e l'apparente. Ogni testo biblico, almeno idealmente, è capace di evidenziare dinamiche e aspetti particolari del soggetto a lui fino a quel momento sconosciuti. La Parola qui è intesa come mezzo esplorativo del mondo interiore della persona, e particolarmente di quel mondo un po' oscuro che vive ancora lontano dalla luce dell'evangelo ed è dunque ancora non evangelizzato, ma che da tale luce può esser illuminato.

          Esemplare, a tal riguardo, il brano di 2Sam 12, ove il profeta, attraverso una storia abilmente costruita (il ricco che toglie al povero la sua unica pecorella), mette Davide dinanzi alle sue responsabilità: 'Tu sei quell'uomo' (2Sam 12,7). Il brano biblico, e sostanzialmente ogni brano biblico, è in grado di evocare la verità dell'io e puntare il dito sulla persona; come per contrasto fa emergere i nostri demoni, quel che siamo senza saperlo, il nostro io attuale (“Tu mi scruti e mi conosci. tu sai quando seggo e quando mi alzo...', Sal 138,1).

          In tal senso la parola di Dio ha una specifica funzione e-ducativa (sempre nel senso di e-ducere=tirar fuori): proprio perché racconta l'amore di Dio finisce per indicare anche le strategie umane per difendersi da quest'amore, e dunque 'tira fuori' la verità del singolo, financo quella più penosa e nascosta, andando ben oltre la sua sincerità o quel che lui avverte come sensazioni immediate. La Bibbia parla della nostra vita, in realtà, e del nostro cuore, delle sue mura e dei suoi sotterranei, ne descrive in particolare certi dinamismi obliqui e che ogni individuo soggettivizza in modo originale. Anzi, nulla come la parola di Dio ha tale funzione e-ducativa; proprio in tal senso è spada a doppio taglio, che penetra nel punto più recondito della psiche (cf. Eb 4,12), ovvero nell'inconscio. E fa anche male ('e si sentirono trafiggere il cuore', Atti 2,37). Se non fa male, vuol dire che ne abbiamo fatto una lettura superficiale e difensiva; e ci stiamo disponendo a fornire la stessa innocua lettura agli altri, oppure, per una stranissima contraddizione o grottesca compensazione, mentre disarmiamo la Parola rivolta a noi, diventiamo dei fustigatori incontenibili quando la porgiamo agli altri.

          In pratica si tratta, allora, d'imparare a leggere la Parola in prima persona, proiettandosi nei personaggi, scrutando quanto essa dice della verità della propria vita, ponendosi dinanzi ad essa senza difese. Oppure, si tratta d'imparare a lasciare che la luce della Parola faccia emergere per contrasto le mie tenebre, ovvero, che i valori e ideali da essa proposti mi facciano toccare con mano la mia povertà, i miei gusti e desideri opposti, la mia logica alternativa, le mie pagane paure e fissazioni, infantili illusioni e pretese. Tanto meglio se ho pure l'umiltà e l'intelligenza di scrivere queste cose che progressivamente scopro, come reazioni quotidiane alla lettura della Parola. D'altronde, questa è anche l'esperienza tipica dell'autentico lettore della Parola, come ricorda a tutti Kierkegaard: «Si esige, quando tu leggi la parola di Dio, che tu ricordi a te stesso di continuo: è a me che si parla, è di me che si parla». (1)

          Tale lettura è un cammino di rigenerazione del pensiero circa la conoscenza di sé, dettato dal confronto con la Parola. La conoscenza di sé nasce dal di fuori e dall'alto, dall’ascolto di Dio che parla.

La via rivelativo-illuminativa

          È sempre una rivelazione, ma questa volta su versante dell'io ideale, ovvero di quel che l'uomo è chiamato a essere, dei suoi desideri o del suo desiderio radicale, di ciò che l'uomo si porta in cuore, ma che spesso rischia di non considerare, quasi mettendolo da parte e dandolo per scontato, non apprezzandolo sufficientemente e non godendone.

          In tal senso chi meglio della Parola rivelata, 'lampada ai miei occhi e luce sul mio cammino' (SaI 118,105), può far luce sul mio venire da Dio, sul mio esser radicalmente proteso verso di lui, su quella naturale ancorché misteriosa attrazione per l'amore manifestato in Cristo e nella sua croce. Come non leggere, ad es., nelle parole e nella richiesta di Filippo ('Signore, mostraci il Padre e ci basta') quell'unico desiderio che abita le profondità del cuore umano? O nelle espressioni del profeta (es. Ger 1,4-10) o del salmista (es. Sal 70,138) la verità così toccante della tenerezza dell'Eterno verso la creatura, e dunque la sua radicale dignità e misteriosa grandezza?

          In tal caso viene sottolineata la forza illuminante della Parola, capace di rivelare ciò che il soggetto è veramente ma ancora non sa, capace di additare le risorse e potenzialità che egli possiede senza sospettarlo, capace di svelargli, soprattutto, la sua vocazione.

          E continua, in tal modo, il cammino di rigenerazione del pensiero alla luce della Parola. Anzi, in tal modo il credente costruisce sempre più la sua identità e la sua vita sul fondamento della Parola, e diviene come il monte Sion che 'non vacilla, è stabile per sempre' (Sal 124,1).

La via pedagogica-salvifica

          Questa via è quella che si apre dinanzi a chi legge e scopre nella Parola modi migliori di gestire dinamiche personali che l'individuo conosce, ma che non sa bene come tenere sotto controllo. Qui la Parola assume una funzione non più solo esplorativa, ma risolutiva in funzione della salvezza e della libertà. È il metodo della parabola, che unisce stupendamente, e spesso inconfondibilmente, le due componenti, teologica e pedagogica; basti pensare alla ricchezza non solo di teologia, ma pure di pedagogia, di parabole come quella del padre misericordioso o del seminatore, con indicazione di tappe, passi progressivi, distinzioni sottili, sfumature emotive, attenzione alle motivazioni profonde...

          D'altro canto, ciò che il singolo ha sperimentato finora come solo suo unico e forse strano è un dinamismo del cuore umano, qualcosa di universale e dunque già previsto e considerato in quel testo ove questo cuore è scandagliato in tutti i suoi recessi.

          È il caso del conflitto di Paolo col suo limite e della sua supplica accorata a Dio perché lo liberi (cf. 2Cor 12,7-10), in cui ognuno può riconoscere una via d'integrazione della propria debolezza; o l'invito preciso e inequivocabile di Gesù: 'Vai e anche tu fa lo stesso' (Lc 10,37); o le stesse beatitudini intese come via per convertire il proprio modo di desiderare e di godere; o la logica della kenosi del Figlio (Fil 2,5-11) proposta come itinerario di autorealizzazione autentica, pure con l'indicazione metodologica di due fasi, tra loro connesse da quel 'per questo...'.

          Imparare a legger così la Parola vuol dire davvero quel 'farsi leggere' che rigenera la mente e apre vie nuove. Anzi, tale lettura non solo ci fa scoprire la verità, ma ci consente lentamente di fare la verità di noi stessi.

Amedeo Cencini

http://www.dimensionesperanza.it

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