Lei, creatura. E l'evidenza della sua vitalità.

Che fosse viva ‚Äì risponde la suora ‚Äì era un'evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capisce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è una persona? E quel solo suo essere vivo, non dà gioia?

Lei, creatura. E l’evidenza della sua vitalità.

da Quaderni Cannibali

del 09 febbraio 2010

 

          Nevica in questo inizio di febbraio, e il lago è cancellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano della clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla notte del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella notte pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai.

 

          In clinica, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso. «Sì, è un anno», dice, come chi ricorda qualcosa che ha costantemente nei pensieri. Poi, cambiando impercettibilmente il tono della voce: «Sa, l’altro giorno una dipendente è venuta ad annunciarmi che aspetta un bambino.

          Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li affronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allora, istintivamente ho pensato a Eluana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una creatura» . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni.

          Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a questo colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrinatura, l’affiorare di una sofferenza profonda.

          Madre, «se per qualcuno è morta, lasciatela a noi che la sentiamo viva» : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti Eluana era solo un corpo vegetante. In quale modo voi la sentivate viva?

          «Che fosse viva – risponde la suora – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capisce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è una persona? E quel solo suo essere vivo, non dà gioia?»

          Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vita, Eluana era lì da tanti anni immobile, assente…

          «Non era così totalmente inerte e assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accanto, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un miglioramento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglioramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal New England Journal of Medicine su quei pazienti in stato vegetativo in cui alcune aree cerebrali reagiscono agli stimoli, mi sono chiesta se anche lei non poteva essere in simili condizioni» .

          Com’era concretamente la giornata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?

          «Molti si immaginano una camera di rianimazione, un corpo attaccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al mattino veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un parrucchiere. Era una donna fisicamente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle rosea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chiesa con noi» .

          È la vita che fa oggi in una di queste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua camera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tempi il padre aveva ristretto la cerchia delle persone ammesse a vedere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre accanto. Suor Rosangela, soprattutto. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. «Quel giorno che è stato annunciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guardarci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo.

          Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomeriggio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne andava. L’ho pregato: ci ripensi, per favore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è andato. Mi è sembrato in quel momento un uomo pietrificato dalla sua stessa scelta» . E in quella notte di pioggia, ricorda la suora, «Eluana sembrava all’improvviso agitata. Sono arrivati gli infermieri. Noi le parlavamo, le ripetevamo di stare tranquilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano bene» ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via» .

          L’assedio dei giornalisti, il lampeggiare dei flash, l’Italia ammutolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotografie e i quadri alle pareti, i due peluches sul letto (il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Misericordine di Lecco a aspettare, insieme a tutta la loro congregazione: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare. Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pensando all’ultimo saluto: «Ho pensato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel giorno, si è trovato solo» . Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospedale quieto e affaccendato: carrelli che passano, telefoni che suonano, voci.

          (Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quanti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, alimentati come Eluana? Non in stato vegetativo magari, ma semplicemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambini? Li curano, li accudiscono nell’antica certezza quasi tacitamente tramandata dal cristianesimo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza dimentico, che rivendicando libertà, diritti e 'dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta 'per morte naturale').

          Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immobile e incosciente in un letto, fatemi morire?

          «Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astrattamente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno» .

          Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere energia e speranza – certi pazienti come Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è così inerme e bisognoso di noi, anche se non capisce e non risponde? Come si può non amare un bambino?» .

          E c’è in questa domanda la chiave della dedizione delle Misericordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più grande di quella carnale. Dove un padre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comunque di quel respiro. Come due diversi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tranquilla clinica di Lecco. Poi, quella notte, l’ambulanza è partita e Eluana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Albina e le sue sorelle e le infermiere li cureranno. Serene, certe. Come dicendo, nella forza pacata delle loro facce: «Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi».

Marina Corradi

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