L'infinito siamo proprio noi. In un'epoca in cui si fa un gran parlare di identità, proprio perché non ne sappiamo più niente, è importante volgere lo sguardo di nuovo a una pietra miliare del nostro essere...
del 25 giugno 2018
L'infinito siamo proprio noi. In un'epoca in cui si fa un gran parlare di identità, proprio perché non ne sappiamo più niente, è importante volgere lo sguardo di nuovo a una pietra miliare del nostro essere...
Il 2019 sarà un anniversario letterario particolare: duecento anni prima, nel 1819, Giacomo Leopardi ha finito di comporre la poesia L'infinito. Il piccolo idillio, come lo definisce la critica, fu pubblicato nel 1826 e non nella prima edizione dei Canti di Leopardi, segno che persino il poeta non ne era immediatamente convinto. Eppure oggi è una delle poesie più lette, commentate, persino imparate a memoria della letteratura italiana: forse, se avesse senso una classifica del genere, la "più" conosciuta e studiata di tutte. C'è da sperare che l'anniversario muova qualcosa che in Italia non si muove più da tempo: una grande riflessione comune, un lavoro di rilettura e riappropriazione che coinvolga tutti di questo testo cardine della nostra storia. Quanto sarebbe utile che nelle università, nei licei e fino alle elementari gli insegnanti si accostassero e facessero accostare gli studenti all'Infinito con inedito stupore per questo piccolo miracolo di parole; che un po' si dimenticassero gli schemi e persino i pregiudizi dentro cui si sono negli anni rinchiusi questo testo e il suo autore e se ne riascoltasse la voce come la prima volta, come lui stesso sembra ascoltare lo stormire delle piante del suo giardino con un orecchio nuovo e giovane.
Lo dico perché ancora adesso non sono sicuro di aver capito questa poesia, anzi sono sicuro di averla capita solo un po', e forse neppure quel po'. Quante volte sono andato a Recanati, a casa del conte Leopardi e, nel giardino del monte cosiddetto Tabor, come lo chiamavano, seduto insieme a decine di ragazzi del liceo sull'erba, abbiamo letto la poesia, ascoltando lo stesso vento e guardando la stessa immensità che Leopardi vedeva! Quante conversazioni, quanti commenti, quante letture delle stesse, poche parole! Niente, sono ancora qui, a stupirmi di quello che in uno spazio minimo, di quindici versi appena, succede mirabilmente. Come sarebbe proficuo se ci aiutassimo: se la tivù, qualche volta, desse spazio almeno nel 2019 a qualcuno che dicesse qualcosa di utile su questa poesia; se giungesse notizia di un'idea geniale, di una scoperta improvvisa, magari compiuta da un ragazzo, sul segreto del testo.
Perché L'infinito siamo proprio noi. In un'epoca in cui si fa un gran parlare di identità, proprio perché non ne sappiamo più niente, è importante volgere lo sguardo di nuovo a una pietra miliare del nostro essere. Cosa stanno facendo, a questo proposito, i poeti italiani? Come sta la nostra poesia? Che dice di noi? Se una cosa si può dire dell'Infinito, infatti, è che nasce dall'incontro tra l'eterno e il tempo, come dovrebbe nascere ogni poesia: "E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando".
La storia della letteratura, dell'arte, della cultura e dell'identità dell'occidente, di noi, rivela proprio questa costante nei secoli, a raccontare quegli istanti di intersezione tra storia e infinità. Il teatro greco, come la sua filosofia, ad esempio, racconta incessantemente la relazione tra mortali e immortali, tra uomini e dèi; si passa per il logos che si fa uomo del cristianesimo e il geniale rovesciamento di Dante, per cui un frammento di tempo — Dante stesso — si inoltra nell'eternità dei regni ultramondani, facendo affondare col suo peso concreto la barca su cui le anime non gravano in una mirabile immagine, poi per la lotta tragica o poetica di Shakespeare, autore per il quale il tempo è il tema sotteso a ogni opera (rileggiamo il suo straordinario sonetto 116: "amor non cambia in ore o settimane/ ma regge fino al Giorno del Giudizio"…), al perdono concesso a Jean Valjean nei Miserabili di Hugo che, ancora una volta, come frammento di eterno si inserisce nella sua vita balorda e gliela salva, e centinaia di altri esempi, per dirci ciò che appunto siamo: uomini che cercano con lo sguardo, che "mirano" con gli occhi, per usare un verbo caro a Leopardi, cosa nel presente del tempo si scorge di ciò che non ha tempo. Staremo per un anno, dunque, su questa sintetica poesia, sintesi del nucleo stesso di ciò che siamo e ci interessa. Potrebbe essere un bell'anno.
Gianfranco Lauretano
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