«La parola poetica dà vita a un mondo». Intervista al gesuita, critico letterario de "La Civiltà Cattolica", sui consigli di lettura per l'estate.
del 15 luglio 2009
L’estate, si sa, è la stagione dei libri, il momento in cui il lettore può «scatenarsi», appagando una sete sana e profonda che viene come rivelata dall’esperienza stessa della lettura. Padre Antonio Spadaro, gesuita messinese, critico letterario della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica, è acuto osservatore di questa esperienza così significativa, quasi «costitutiva» dell’essere umano, e alla lettura ha dedicato i suoi ultimi due saggi pubblicati da Jaca Book: “Abitare nella possibilità” e “L’altro fuoco”.
 
Per lei, dunque, padre Spadaro, la letteratura è innanzitutto «fuoco».
L’immagine del fuoco mi sembra che riassuma il senso dell’esperienza della letteratura. Chi di noi, leggendo la pagina di un romanzo o i versi di una poesia, non ha sentito, almeno una volta nella vita, una forma di coinvolgimento 'ardente', diciamo così. Fare esperienza della parola letteraria significa venire a contatto con la fiamma. La parola 'poetica', cioè creativa, brucia ma non si consuma, rivelando una presenza permanente che la abita: dà vita a un mondo. Quando la parola è davvero creativa diviene come un biblico roveto ardente. Quando è letta, diventa attiva nel lettore, comunica la sua potenza espressiva, ma non si disperde, non si infiacchisce nella lettura: è un fuoco che il suo ardore rigenera, come ci ricorda Mario Luzi. E soprattutto non 'divora' il lettore annullandolo, assimilandolo in se stessa, come invece fanno le ideologie e le mistificazioni. Ogni lettore, a mio avviso, è alla ricerca di una letteratura che non sia fuoco pirotecnico di pura e fredda tecnica narrativa, ma vuole leggere pagine che abbiano davvero vento di fuoco, come direbbe Alda Merini.
 
Che cosa, padre Spadaro, il lettore chiede a un libro?
Io chiedo pagine libere dalla stanchezza del rancore e del fallimento necessario, dal torpore del sentimentalismo, dalla banalità del puro gioco delle forme; pagine che conoscono la perdizione del naufragio, ma anche la grazia della salvezza; pagine che sappiano guardare alla realtà così com’è, senza rimedi e senza l’airbag della militanza indignata o colta. La tragedia, così com’è descritta da alcune narrazioni d’oggi, purtroppo, non fa male per niente: fa riflettere e basta. Per far provare la puntura del dolore, per farne fare esperienza al lettore, è necessario che lo scrittore abbia uno sguardo da bambino, nudo, privo di difese. Se è l’occhio stupito del fanciullino ad essere l’unico testimone dello stupore, è lo stesso occhio ad essere anche l’unico testimone credibile della tragedia.
 
A questo punto si può chiedere al critico letterario di dare qualche consiglio di lettura, spaziando tra i classici, ma anche tra i contemporanei, con una particolare attenzione alla poesia, forse l’ala più «infuocata» di tutta la letteratura.
Riproporrei l’itinerario che offro nel mio “L’altro fuoco”. Comincerei, dunque, col rileggere Cesare Pavese, quello dei primi racconti e delle prime poesie, che poi finisce per «ridurre», se così possiamo dire, lo stupore dell’intuizione in ricordo di immagini passate, di «seconda mano». E lo accosterei al grandissimo poeta inglese Gerard Manley Hopkins, lo scrittore della freschezza più cara colta di prima mano, «deep down things», in fondo alle cose. Stig Dagerman, grande scrittore svedese sebbene scomparso prematuramente, esprime in maniera ardente un essenziale «bisogno di consolazione» che egli però non riesce mai ad avvertire soddisfatto. Dagerman ha uno sguardo ustionante sul reale, che sembra essere condiviso dal gallese Rowan Williams, del quale Ancora ha tradotto una raccolta di poesie dal titolo “La dodicesima notte”. Williams, più noto come primate della Comunione Anglicana, è autore di versi ispidi, duri come pietre, ma proprio per questo capaci di sprigionare fuoco. Rileggerei la “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde, dove lo scrittore avverte il proprio cuore spezzato e in cerca di una verità. Ed è questa ricerca appassionata fino a vette erotiche e mistiche che caratterizza anche i versi di Alda Merini: la sua poesia è alacre come il fuoco nel desiderio e nell’attesa di una sorta di «terra promessa» che dia senso all’esistere. Bartolo Cattafi, poeta messinese sempre più rivalutato, raccoglie tutte le esigenze più ardenti del Novecento italiano. Ed è in Mario Luzi che l’esigenza sofferta di un nuovo canto, quello dell’«abbagliante aurora umana, dell’ultraterrena / ardenza», si fa verso tra i più acuti della più recente poesia italiana, assolutamente da rimeditare. Infine un classico di sempre: Walt Whitman, talmente classico da essere sempre moderno. Tra i narratori contemporanei è sempre da tenere d’occhio tra gli italiani Eraldo Affinati, autore di razza. A chi vuole avventurarsi nella letteratura mondiale suggerirei la lettura degli statunitensi Leif Enger e Tony Earley, l’olandese Tommy Wieringa, il rumeno Petru Cimpoesu, e il giovane scrittore gesuita nigeriano Uwem Akpan, il cui “Di’ che sei una di loro” è pubblicato da Mondadori. E, infine, un classico contemporaneo: Cormac McCarthy.
Andrea Monda
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