Lettere dal carcere

Autobiografia di un uomo. Un libro di poesie. Lo ha scritto Alfredo in carcere da molti anni. Per mesi, è rimasto in un cassetto. L'avevo scorso in modo superficiale ed affrettato. Forse per non rimanerne coinvolto. Forse perché lo ritenevo uno dei tanti libri di poesia, che escono dal carcere: nella solitudine di una cella, si diventa un po' tutti poeti.

Lettere dal carcere

da L'autore

del 30 gennaio 2008

Autobiografia di un uomo. Un libro di poesie. Lo ha scritto Alfredo in carcere da molti anni. Per mesi, è rimasto in un cassetto. L’avevo scorso in modo superficiale ed affrettato. Forse per non rimanerne coinvolto. Forse perché lo ritenevo uno dei tanti libri di poesia, che escono dal carcere: nella solitudine di una cella, si diventa un po’ tutti poeti.

L’ho ripreso nelle mani questa sera di Pasqua. Con senso di rimorso, mi sono rimesso a rileggerlo, appuntando quello che mi ha maggiormente colpito. Alfredo l’avevo conosciuto adolescente: un ragazzo biondo, magro, nervoso, con una grande dose di simpatia, quand’era in forma; chiuso a riccio nei momenti no, che corrispondevano a quelli di crisi nei rapporti con gli amici, con la famiglia. Un ragazzo certamente non nato «fra zucchero e carezze», che canta nelle sue poesie «una strana canzone», fatta di momenti felici e di tanta disperazione; che ha delineato il suo destino nei vari collegi; che ha avuto come «prima alcova lo scompartimento di un treno», perché non aveva «alcuna casa che gli desse pace».

«Parevo matto... spacco il mondo e perdo tutto». Così iniziò «una vita sbandata, ma colma di valori: facevano parte di me ma quanti dolori. Spesso per dignità ho dovuto lottare a muso duro. Difficile dire come finirà, non sono un indovino... per ora spengo la luce, sono già le tre del mattino ». Non è per una recensione, che ho ripreso in mano le poesie, ma per dare voce ai suoi sentimenti, per invitare i lettori a entrare nel cuore di chi vede il suo tempo trascorrere lentamente, sempre lo stesso, tra le mura di un edificio, chiamato carcere.

L’amico è per Alfredo un fratello: «Colui che felicemente divide con te l’abbondanza del pane e, se necessario, dignitosamente anche la fame... Colui che senza pensarci, andrebbe alla morte e per te accetta anche questo dalla sorte». Da lui non ti aspetti mai il tradimento: «Una cosa è certa, perché la sai: campasse cent’anni non ti tradirebbe mai!».

E il male del carcere si chiama «Catena». Per guarirlo Alfredo sogna «un soffio di vento di libertà», un sorriso: «Non vi chiedo carità, mi basta un vostro sorriso»; una speranza: «Ne ho fatte parecchie di mattate, ma non devo nulla a nessuno: le ho pagate! Il mio ieri è pieno di dolore; nel mio oggi trovo del chiarore. Vorrei un domani colmo d’Amore».

Quando poi Alfredo si domanda il perché di quello che ha fatto, appare incerto: «Ho rischiato spesso la vita, saltando i banconi, poi facevo il «benefattore» dei barboni. Allora chi sono precisamente? Mi si potrebbe definire «un rapinatore», ma «sono un ragazzo in cerca di Amore. Fra poco più di un mese avrò 29 anni. Mi ci vorrà del tempo per farmi dimenticare, sono certo di poter ancora sorridere ed amare».

Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano

don Vittorio Chiari

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