Quello che è successo nel triennio 2016-2019 non può e non deve passare come se niente fosse. Che cosa ci ha insegnato questo cammino? “Insegnare” significa “lasciare il segno”: se davvero al Sinodo è successo qualcosa di significativo deve lasciare il segno. E se un Sinodo non lascia il segno e non ci segna, significa che è stato insignificante.
[...]Di certo, dai vari segnali che ci sono giunti nel decennio precedente, l’appello verso la comunione, la condivisione e la corresponsabilità da tutti i punti di vista è stata chiaro. Il mondo è sempre di più un piccolo villaggio dove tutto è connesso e raggiungibile. La Chiesa, vivendo in questo mondo, non può fare a meno di entrare in queste condizioni di esercizio della sua missione. Nel decennio scorso tanti ponti sono stati abbattuti e altrettanti muri sono stati costruiti. Ci sembra arrivata l’ora almeno di provare ad invertire la tendenza, almeno partendo da quello che dipende da noi: bisogna abbattere muri e costruire ponti!
I giovani ci chiedono a tutti i livelli di essere o divenire al più presto “profeti di fraternità”. Se questo non avverrà, la Chiesa nel suo insieme sarà sempre più insignificante per loro e per tutti. È questo il motivo profondo per cui il decennio NPG 2020-2030 si apre con questo Dossier sulla “sinodalità missionaria”. Si tratta di un’espressione maturata durante il Sinodo dei giovani e ben esplicitata nel Documento finale: la dobbiamo prendere sul serio se vogliamo veramente essere fedeli alla nostra vocazione comune, fraterna e missionaria. Siamo Chiesa in quanto abbiamo un solo Maestro che ci rende tutti fratelli (cfr. Mt 23,8) e ci invia insieme in missione (cfr. Mt 28,16-20).
La sinodalità missionaria segna un approccio sistemico alla realtà pastorale: non siamo invitati semplicemente a prendere in mano qualche aspetto della nostra esistenza e della nostra missione, ma siamo chiamati ad assumere un modo alternativo e profetico di abitare il mondo e di procedere insieme come Chiesa. I giovani ci hanno chiesto a gran forza questa conversione fraterna e missionaria, dove il procedere insieme è già segno della presenza del Regno di Dio in mezzo a noi. Perché è proprio nel cammino fatto insieme che si guarisce, che ci si converte, come ha ben affermato papa Francesco nell’omelia dello scorso 13 ottobre 2019, commentando il brano evangelico della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc 17,11-19):
Nel breve Vangelo di oggi compaiono una decina di verbi di movimento. Ma a colpire è soprattutto il fatto che i lebbrosi non vengono guariti quando stanno fermi davanti a Gesù, ma dopo, mentre camminano: “Mentre essi andavano furono purificati”, dice il Vangelo (v. 14). Vengono guariti andando a Gerusalemme, cioè mentre affrontano un cammino in salita. È nel cammino della vita che si viene purificati, un cammino che è spesso in salita, perché conduce verso l’alto. La fede richiede un cammino, un’uscita, fa miracoli se usciamo dalle nostre certezze accomodanti, se lasciamo i nostri porti rassicuranti, i nostri nidi confortevoli. La fede aumenta col dono e cresce col rischio. La fede procede quando andiamo avanti equipaggiati di fiducia in Dio. La fede si fa strada attraverso passi umili e concreti, come umili e concreti furono il cammino dei lebbrosi e il bagno nel fiume Giordano di Naaman (cfr 2 Re 5,14-17). È così anche per noi: avanziamo nella fede con l’amore umile e concreto, con la pazienza quotidiana, invocando Gesù e andando avanti. C’è un altro aspetto interessante nel cammino dei lebbrosi: si muovono insieme. “Andavano” e “furono purificati”, dice il Vangelo (v. 14), sempre al plurale: la fede è anche camminare insieme, mai da soli.
È il cammino condiviso che ci converte, ci fa cambiare il nostro punto di vista, e ci invita ad assumere con forza la dimensione comunitaria della fede come fonte di vita e criterio di verità. Al Sinodo ci siamo accompagnati vicendevolmente, giovani e adulti, chiese particolari e chiesa universale. E questo ci ha portato a vedere le cose in un modo nuovo. A mio parere bisogna ripartire da qui.
Ci vorrà pazienza, coraggio e prudenza per essere e divenire davvero una Chiesa sinodale per la missione. Per questo il sottotitolo del presente Dossier parla di “cammini di conversione spirituali, formativi e pastorali”. L’ordine non è casuale: si parte dal nostro cuore, dalla nostra interiorità, perché è lì – nel nostro spirito – che si gioca la vera conversione. Se non si arriva alla coscienza e alla libertà non si tocca veramente l’umano nel suo punto proprio. Quindi si parte dalla conversione spirituale. E poi si arriva alla formazione, perché dobbiamo formarci per la sinodalità missionaria, che non si può improvvisare: imparare a lavorare ordinariamente in équipe; esercitare quella capacità empatica di ascolto oggi tanto necessaria; vivere la disciplina del vivere e lavorare insieme; ripensare alla Chiesa come al luogo di un fecondo scambio di doni; entrare nella logica del perdono e della correzione reciproca; mettere al centro la vita fraterna. La pastorale nel suo insieme è quindi chiamata a divenire un’espressione concreta di un modo di “essere con” i giovani piuttosto che di “fare per” i giovani.
Seguono ora alcune idee di fondo che ci potranno accompagnare e preparare alla lettura della parte centrale di questo Dossier – l’articolo di Nathalie Becquart, già responsabile del servizio di evangelizzazione e di animazione vocazionale della Conferenza Episcopale Francese, uditrice al Sinodo e consultore della Segreteria del Sinodo –, che ci aiuta ad entrare in quel modo di vivere e camminare insieme che ha caratterizzato tutto il processo sinodale.
L’insegnamento del cammino sinodale
Quello che è successo nel triennio 2016-2019 non può e non deve passare come se niente fosse. Che cosa ci ha insegnato questo cammino? “Insegnare” significa “lasciare il segno”: se davvero al Sinodo è successo qualcosa di significativo deve lasciare il segno. E se un Sinodo non lascia il segno e non ci segna, significa che è stato insignificante. Ogni Sinodo dovrebbe essere un appello e un aiuto alla conversione della Chiesa alla sua identità e alla sua missione propria.
Da quello che ho potuto sperimentare, per noi impegnati nella pastorale giovanile mi pare che l’insegnamento di fondo di questo Sinodo ordinario sui giovani sia stato questo: la questione dei giovani non è un affare della pastorale giovanile ma della Chiesa in quanto tale. I giovani ci hanno sfidato sul volto della Chiesa nel suo insieme. In questo senso la pastorale dei giovani – sia a livello di pratiche che di riflessioni – non può che essere un laboratorio permanente della pastorale della Chiesa e per la Chiesa. Ne va del suo presente e del suo futuro. Perché, in questo cambio d’epoca, fare pastorale giovanile significa più che mai frequentare il futuro della Chiesa, oltre che della società. Proprio come ci suggeriva papa Francesco in un passaggio pregnante del suo discorso il 3 ottobre 2018, primo giorno dell’Assemblea sinodale:
Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo.
Questo desiderio di frequentare il futuro lo abbiamo respirato nei tre anni di lavoro sinodale. Non si può parlare di questo Sinodo senza parlare di adulti, di liturgia, di catechesi e di carità; non si può prendere sul serio quello che è accaduto senza mettere in discussione il lavoro per uffici che tante volte caratterizza la frammentazione della pastorale; non si può non pensare criticamente il rapporto tra vita quotidiana ed eventi isolati di pastorale; non è possibile immaginare una pastorale giovanile che non assuma la chiave vocazionale come suo centro prospettico, senza dimenticare la sua indole popolare; soprattutto non si far tacere le richieste dei giovani circa la trasparenza ecclesiale in fatto di abusi di ogni tipo e la conseguente chiamata alla santità che deve essere riscoperta in tutta la sua forza propulsiva.
Non so quanto la pastorale giovanile nel suo assetto attuale sia pronta a mettersi in gioco in una pastorale d’insieme, uscendo da un certo isolamento e specializzazione che ha vissuto in decenni precedenti e che rischia anche di vivere in questi decenni di inizio del nuovo Millennio. È forte per noi la chiamata ad uscire da uno stile un po’ troppo accondiscendente di tipo “postmoderno” che ricerca un evento dopo l’altro e ad assumere con convinzione una pastorale dell’accompagnamento educativo, che in fondo è l’unico presupposto adeguato ad un annuncio cristiano che si radichi nella quotidianità.
Non so nemmeno quanto la Chiesa in quanto tale sia pronta a lasciarsi sfidare dalla pastorale giovanile e soprattutto dai giovani stessi, che in questi ultimi tre anni sono stati tanto rispettosi quanto chiari nel provocare tutti a ripensare la pastorale della Chiesa in modo nuovo, entrando nel cambio d’epoca che siamo vivendo con il cuore e la mente rinnovati.
Le radici e il traguardo della sinodalità missionaria
Da dove nasce il tema della sinodalità per la missione? La risposta è chiara e univoca: è il frutto maturo dell’Assemblea sinodale. Effettivamente, se si riprende l’Instrumentum laboris del Sinodo, lì era posta la domanda sulla forma della Chiesa più adeguata non solo per i giovani del III millennio, ma anche per il mondo in cui viviamo. La risposta a questo appello ha fatto emergere questa idea sull’essere della Chiesa, prima ancora sul suo fare. Riguarda il suo volto, i suoi meccanismi di funzionamento interni ed esterni.
È interessante che al Sinodo, con l’aiuto dei giovani, si è passati dalla prospettiva dell’“opzione preferenziale per i giovani” – sponsorizzata soprattutto dalla Chiesa latino americana – a quella della “sinodalità missionaria” – non sponsorizzata da nessuno in particolare ed emersa come novità dello Spirito che parla alla Chiesa. Se ci pensiamo bene la prima prospettiva non mette in discussione il soggetto Chiesa, mentre la seconda pone la sua attenzione esattamente sul volto della Chiesa. Se davvero la “pastoralità” è dettata da tre dinamiche che devono interagire in forma sempre nuova – il Vangelo del Regno, i destinatari dell’annuncio e la forma della Chiesa – il Sinodo ha voluto premere il suo acceleratore proprio su quest’ultimo aspetto, che fa da unità tra il primo e il secondo. Effettivamente è questo l’anello debole su cui il Concilio Vaticano II deve ancora trovare la sua realizzazione specifica. Se ci guardiamo intorno, sulla forma della Chiesa nel mondo contemporaneo le discussioni a livello intra ecclesiale sono vive e vivaci, oltre che francamente a volte poco rispettose e in chiaro debito di ascolto delle rispettive ragioni che si portano a sostegno della propria visione.
Quindi è chiaro: la “sinodalità missionaria” viene da un’Assemblea sinodale in ascolto dello Spirito che ha messo a fuoco che i giovani – destinatari e protagonisti dell’annuncio – e il Vangelo – il Regno misteriosamente presente nelle pieghe di questa umanità – non sono la questione numero uno. Essa resta, all’inizio del III millennio, la chiamata ad essere una Chiesa sinodale per la missione.
Qual è il traguardo di questa “sinodalità missionaria”? Lascio la parola a papa Francesco che, in maniera molto lucida tirava le somme di un mese intenso di lavoro. Il giorno conclusivo dell’Assemblea sinodale, il 28 ottobre 2018, durante l’Angelus che ha seguito la splendida celebrazione di chiusura del Sinodo, così si è espresso:
I frutti di questo lavoro stanno già “fermentando”, come fa il succo dell’uva nelle botti dopo la vendemmia. Il Sinodo dei giovani è stato una buona vendemmia, e promette del buon vino. Ma vorrei dire che il primo frutto di questa Assemblea sinodale dovrebbe stare proprio nell’esempio di un metodo che si è cercato di seguire, fin dalla fase preparatoria. Uno stile sinodale che non ha come obiettivo principale la stesura di un documento, che pure è prezioso e utile. Più del documento però è importante che si diffonda un modo di essere e lavorare insieme, giovani e anziani, nell’ascolto e nel discernimento, per giungere a scelte pastorali rispondenti alla realtà (FRANCESCO, 28 ottobre 2018, Angelus).
Un modo di vivere e lavorare insieme che fa la differenza. Ecco il traguardo da raggiungere: quella profezia di fraternità che segna la differenza tra il mondo e i discepoli del Signore. E se questa differenza non si nota, significa che siamo Chiesa annacquata, Chiesa mondanizzata, Chiesa che ha perso la sua essenza propria.
La trasformazione della domanda sinodale
Durante il percorso sinodale abbiamo vissuto una vera e propria conversione circa la domanda a cui dovevamo rispondere. Nelle prime battute del cammino avevamo tutti nel cuore più o meno questa prospettiva di pensiero e di azione, legata a ciò che dobbiamo fare: la domanda era “Che cosa dobbiamo fare per i giovani?”. Era la domanda di chi vede i giovani smarriti, confusi, frammentati, trascinati e manipolati. Era la domanda di chi con onestà e dedizione vuole davvero darsi da fare per loro: educarli con pazienza, aiutarli a discernere, non abbandonarli nei pericoli, spingerli a fare scelte coraggiose, sostenerli nella lotta per un mondo diverso. Tutto vero e buono evidentemente, ma forse la prospettiva d’insieme non era del tutto corretta. Questa domanda tradiva un “fare per” che ci metteva in una certa posizione di superiorità unilaterale. “Noi abbiamo qualcosa che loro non hanno e che siamo chiamati a dare loro”, questa era un po’ la premessa.
Pian piano la domanda si è trasformata. Passo dopo passo siamo arrivati a quest’altra domanda: “Chi siamo chiamati ad essere con i giovani?”. Non è un affare da poco, se ci pensiamo bene. Prima di tutto è un passaggio dal fare all’essere. Si tratta di essere discepoli del Signore, e non di giocare a fare i profeti senza pagare in prima persona: l’essere rimanda ad una testimonianza prima che a una parola, a una sostanza vissuta prima che a una prassi pastorale da mettere in campo, ad una vita buona prima a parole buone. Si tratta di essere, come Chiesa, la “giovinezza del mondo”, e non di giocare al triste gioco del “giovanilismo”, che fa mancare ai giovani la terra sotto i piedi; si tratta di essere adulti come si deve, e non persone adulterate, incapaci di tenere ai giovani in modo maturo.
Poi c’è il passaggio decisivo dal “per i giovani” al “con i giovani”. Capisco il desiderio di aiutare i giovani, la passione per loro e l’onesto dispiegamento di tempo ed energie ecclesiali e civili per loro. Ma senza un loro intimo coinvolgimento e la necessaria fiducia che va a loro accordata non andremo molto lontano. Non è un banale “protagonismo” che i giovani ci hanno chiesto e, mi pare, non si sono messi al centro della scena. È invece un dovere ecclesiale quello di rendere i giovani corresponsabili della missione insieme con tutti noi. I grandi dello Spirito che hanno lavorato per i giovani sono partiti avendo fiducia in loro: li hanno considerati compagni di viaggio, e non passivi destinatari da portare da qualche parte. Hanno insegnato ai giovani a prendere coscienza dei loro talenti e a rischiare con coraggio nell’impiegarli per il bene di altri. Li hanno invitati a prendere in mano la loro esistenza, a pensarsi come libertà viventi che devono decidersi per il bene e farlo, costi quel che costi. Li hanno trattati come autentici soggetti: amati da Dio e quindi chiamati ad entrare in alleanza con Lui per un servizio e una generosità verso coloro che hanno ricevuto meno dalla vita.
Questo cambio di prospettiva ci invita ad entrare nella dimensione vocazionale dell’esistenza, a pensare la pastorale giovanile in chiave vocazionale. I giovani, in quanto creature e in quanto battezzati, hanno una dignità che non si può mettere da parte, ma va riconosciuta, apprezzata e valorizzata. Il tema del discernimento vocazionale, che nelle prime battute sinodali rischiava una deriva individualistica, si è allargato riconoscendo nella comunità ecclesiale l’ambito proprio del discernimento e dell’impegno dei giovani per un mondo migliore.
In questa trasformazione della domanda – resa possibile nel momento in cui ci siamo lasciati condurre dallo Spirito – siamo stati invitati ad essere meno una Chiesa che fa tante cose per gli altri talvolta in forma ossessivo-compulsiva, e più Chiesa capace di essere con le persone, felice di perdere tempo e di crescere camminando insieme. Anche, perché no, di stare in compagnia semplice, gioiosa e serena di Dio, godendo di quella fruitio Dei che può ringiovanire la Chiesa e farle gustare di nuovo la gioia del Vangelo.
La necessità di entrare nel ritmo della “sinodalità missionaria”
I giovani, insomma, ci hanno aiutato a riaprire il fascicolo della sinodalità, che per tanti aspetti non è altro che la presa in carico della profezia del Concilio Vaticano II. La sinodalità, se ci pensiamo bene, è un gioco a tre. Lo dice molto bene la nota esplicativa sulla “sinodalità missionaria” – si tratta dell’unica nota di tutto il Documento finale –, inserita esattamente per chiarire che quando si parla di sinodalità non stiamo inseguendo una versione democratica della Chiesa e nemmeno stiamo cedendo sul tema dell’autorità nella Chiesa. È invece vero, in positivo, che la sinodalità mette in campo una visione autentica di Chiesa come “popolo di Dio” chiamato ad una “comunione in chiave missionaria”. La nota al testo approfondisce la citazione di un recentissimo Documento sulla sinodalità (COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 2 marzo 2018, n. 9) contenuta nel n. 118 del Documento finale («La messa in atto di una Chiesa sinodale è presupposto indispensabile per un nuovo slancio missionario che coinvolga l’intero Popolo di Dio»). Ecco il testo completo di quella nota:
Il documento illustra inoltre la natura della sinodalità in questi termini: «La dimensione sinodale della Chiesa esprime il carattere di soggetto attivo di tutti i Battezzati e insieme lo specifico ruolo del ministero episcopale in comunione collegiale e gerarchica con il Vescovo di Roma. Questa visione ecclesiologica invita a promuovere il dispiegarsi della comunione sinodale tra “tutti”, “alcuni” e “uno”. A diversi livelli e in diverse forme, sul piano delle Chiese particolari, su quello dei loro raggruppamenti a livello regionale e su quello della Chiesa universale, la sinodalità implica l’esercizio del sensus fidei della universitas fidelium (tutti), il ministero di guida del collegio dei Vescovi, ciascuno con il suo presbiterio (alcuni), e il ministero di unità del Vescovo e del Papa (uno). Risultano così coniugati, nella dinamica sinodale, l’aspetto comunitario che include tutto il Popolo di Dio, la dimensione collegiale relativa all’esercizio del ministero episcopale e il ministero primaziale del Vescovo di Roma. Questa correlazione promuove quella singularis conspiratio tra i fedeli e i Pastori che è icona della eterna conspiratio vissuta nella Santa Trinità» (COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 2 marzo 2018, n. 64).
Ecco il gioco a tre: i tutti, cioè i membri del popolo di Dio che hanno ricevuto il dono dello Spirito; gli alcuni, ovvero la collegialità episcopale, coloro che sono chiamati al servizio dell’autorità nella Chiesa particolare; e l’uno, il successore di Pietro, chiamato ad esercitare una presidenza nella carità per il bene di tutti e di ciascuno. Se osserviamo i tre soggetti interessati, possiamo con chiarezza evidenziare come i tre Documenti principali prodotti durante il cammino sinodale ci restituiscono tre punti di vista diversi che rimandano ad un’unità superiore non riducibile alla loro somma.
È evidente che l’Instrumentum laboris, frutto di un ascolto biennale del popolo di Dio – con una particolare e logica preminenza del mondo giovanile – ci consegna una piattaforma ampia e articolata di una Chiesa che ha cercato non solo di mettersi in ascolto, ma soprattutto di dare la parola a tutti. In questo modo l’intero popolo di Dio, nessuno escluso, ha fatto sentire la sua voce.
È altrettanto evidente che il Documento finale ha come primi attori gli alcuni, cioè il Collegio Episcopale. Certo c’erano giovani uditori e altri rappresentanti, ma il Sinodo – coerentemente con la sua istituzione nel 1965 – è prima di tutto un “Sinodo dei Vescovi”, dove gli alcuni sono stati protagonisti e hanno offerto il loro specifico punto di vista di pastori.
Non si può infine negare la singolarità dell’Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit, frutto della sensibilità propria di papa Francesco, che giustamente tira le fila ed esorta la Chiesa universale a camminare, indicando cammini ed esortando a non stancarci di fare il bene. È l’uno, un uomo in carne e ossa, con la sua provenienza culturale ed ecclesiale, che ha rivisto il cammino compiuto e lo ha riletto e rilanciato in modo personale.
Questi tre punti di vista devono mantenersi in una tensione feconda e fruttuosa. Tenere conto di queste diversità nell’ottica dello scambio dei doni significa appropriarsi della “sinodalità missionaria” in modo cosciente e responsabile. Ognuno di questi tre testi non è riducibile né assimilabile all’altro: è invece un vagone di un treno che, per essere tale, ha bisogno di altri vagoni.
Andiamo avanti con coraggio e convinzione
È noto che uno dei grandi discorsi programmatici di papa Francesco che ha trovato spazio nel Documento finale del Sinodo è il Discorso per la Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi del 17 ottobre 2015. Sono poche pagine che converrebbe avere ogni tanto sott’occhio, perché lì ci sono indicazioni di futuro che appaiono come un piccolo timone che ci orienta non solo per i prossimi anni, ma per un intero millennio:
Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. […] Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio.
Discorso programmatico, dicevo, da cui ripartire. Lì viene detto che la sinodalità è elemento costitutivo della Chiesa e che la forma di quest’ultima deve essere quella di una “piramide capovolta”. Lì viene detto che l’autorità deve essere condizione e spazio per l’ascolto e l’espressione di tutti – in primis ascolto dello Spirito Santo! –, cioè garanzia di libertà per tutti. Almeno qualche passaggio deve essere risentito per intero, perché ogni commento rischierebbe di diminuirne la freschezza e la propositività:
Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2,7).
[…] La sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Se capiamo che, come dice san Giovanni Crisostomo, “Chiesa e Sinodo sono sinonimi” – perché la Chiesa non è altro che il “camminare insieme” del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore – capiamo pure che al suo interno nessuno può essere “elevato” al di sopra degli altri. Al contrario, nella Chiesa è necessario che qualcuno “si abbassi” per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino.
Gesù ha costituito la Chiesa ponendo al suo vertice il Collegio apostolico, nel quale l’apostolo Pietro è la “roccia” (cfr Mt 16,18), colui che deve “confermare” i fratelli nella fede (cfr Lc 22,32). Ma in questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base. Per questo coloro che esercitano l’autorità si chiamano “ministri”: perché, secondo il significato originario della parola, sono i più piccoli tra tutti. È servendo il Popolo di Dio che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli (cfr Gv 13,1-15). E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei.
La direzione non può essere che questa, perché proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del III millennio! Così dice questo discorso programmatico di papa Francesco, ripreso nel Documento finale al n. 118. Siamo solo all’inizio, non spaventiamoci, abbiamo ancora circa 980 anni davanti a noi per diventare una Chiesa davvero sinodale per la missione! Ci vorrà “conversione spirituale, pastorale e missionaria”, come ben recita il titolo di quel numero 118 del Documento finale. Ci vorrà pazienza e prudenza, determinazione e coraggio. Si potrà avanzare e indietreggiare, cadere e rialzarsi, ma l’orientamento rimane chiaro, perché è una richiesta di Dio che non possiamo più nascondere.
Una conversione che riguarda tutti e ciascuno
Vedendo il percorso a cui siamo chiamati, viene spontanea la domanda: “Siamo pronti per la svolta sinodale nella Chiesa?”. Non è evidentemente facile rispondere, ma si può abbozzare qualcosa e soprattutto lasciare aperta questa domanda, che è rivolta a tutti noi perché ci procuri quella “sana inquietudine” che ci mantiene sensibili allo Spirito e attenti al nostro tempo. Faccio riferimento sia all’esperienza personale che all’oggettività della votazione del Documento finaledel 27 ottobre 2018.
Prima di tutto la mia esperienza personale al Sinodo a cui ho avuto il dono partecipare come Segretario Speciale. Nel discernimento sinodale del mese di ottobre 2018 la “sinodalità missionaria” non è andata da sé. Non è stato immediato ritrovarla come chiave di volta da parte del gruppo degli esperti, che hanno avuto il difficile incarico di fare sintesi degli interventi in aula di tutti i Padri sinodali e di tutti gli uditori (in tutto circa 350 persone), dei 14 circoli minori che hanno lavorato per tre volte (in tutto hanno prodotto 42 contributi di varia entità) e delle discussione libere al termine di ogni giornata di lavoro. Stava chiaramente presente un po’ dappertutto ed era anche mimetizzata. Aveva una presenza forte e discreta, e abbiamo dovuto farla uscire allo scoperto per individuarla con chiarezza. È stato un vero e proprio lavoro di discernimento nello Spirito.
Quando è stata presentata nella prima versione del Documento finale, la “sinodalità missionaria” ha avuto interventi pro e contro, anche se alla fine ha resistito adeguatamente agli attacchi e si è rafforzata lungo il cammino dell’Assemblea sinodale. Su questo tema abbiamo assistito – proprio negli ultimi giorni – agli interventi più illuminati, applauditi, emozionanti e appassionanti. Abbiamo visto l’Assemblea dei Vescovi in piedi commossa rispetto ad alcune parole profetiche, che hanno davvero anticipato e frequentato il futuro che tutti sogniamo. Abbiamo anche assistito ad alcune chiusure e critiche. A volte dovute ad incomprensioni terminologiche e a differenze culturali e contestuali più che comprensibili, altre volte ad autentiche resistenze allo Spirito.
Comunque sia – e arrivo all’oggettività dei numeri – rispetto al tema della “sinodalità” il semaforo non è stato un verde pieno. Come dire, non siamo ancora davvero pronti a prenderci in carico il cammino della sinodalità. Se si osserva la votazione finale, tutti i numeri che parlano o citano direttamente la sinodalità – cfr. almeno i nn. 55.118-127.148.163-164 – hanno avuto una media di una trentina di “non placet” su circa 260 aventi diritto al voto, con la punta negativa dei 51 “non placet” al numero 121, non per nulla intitolato “La forma sinodale della Chiesa”. Di certo questi numeri ci devono far pensare che la Chiesa universale nel suo insieme – e l’episcopato in maniera specifica – non è ancora del tutto pronta e desiderosa di intraprendere la strada della sinodalità. Paura per una possibile “perdita di potere”? Segno di un “clericalismo” duro a morire? Lecita domanda di chiarimento sul significato e sui contenuti propri della “sinodalità” e del suo esercizio nella vota ordinaria della Chiesa? Mancanza di maturità rispetto ai tempi che stiamo vivendo? Difficile dire con certezza cosa ci sta dietro, ma le resistenze non mancano.
Di certo non è solo questione degli “alcuni”, cioè della collegialità episcopale e dei ministri ordinati loro collaboratori. Ci dobbiamo chiedere quanto il popolo di Dio nel suo insieme, cioè i “tutti”, nella figura dei laici – e anche dei giovani – non siano nella medesima situazione di perplessità e disimpegno circa la “sinodalità”, proprio perché lo stesso clericalismo è un gioco di squadra, dove alcuni si sentono padroni di tutto e altri per comodità o irresponsabilità lasciano fare ad altri come se niente fosse.
Infine è anche questione dell’“uno”, cioè del successore di Pietro. E anche della sua Curia, ovvero di coloro che sono i suoi primi e più vicini collaboratori e che lo accompagnano nel suo non semplice ministero. Anche un eccessivo centralismo può essere un impedimento e un freno allo sviluppo di una vera cultura sinodale.
Forse due categorie ecclesiali sono più favorevoli e preparate alla sinodalità. Certamente le donne, che hanno dimostrato una particolare attenzione ai temi della comunione, della condivisione e della corresponsabilità, e si sono distinte nel percorso sinodale per questa sensibilità. E poi i consacrati e le consacrate, che per loro indole propria vivono e lavorano in comunità, cioè insieme, cercando – con tutte le chiare fatiche e i fallimenti che vivono – di brillare come “profeti di fraternità” nella Chiesa e nel mondo.
Certamente ci vuole maturità di fede nell’intero popolo di Dio, in tutti i suoi ministri, nel collegio episcopale e nella curia romana, e anche nel successore di Pietro. Non siamo ancora nelle condizioni ideali per sviluppare una “sinodalità missionaria” nella Chiesa, ma di certo il cammino sinodale con e per i giovani che abbiamo vissuto negli ultimi tre anni ci aiuta a sciogliere qualche nodo, ad assumere le condizioni spirituali e pastorali per un cambio di passo a tutti i livelli e a intravedere qualche luce feconda di rinnovamento. Certamente ci ha aiutato a comprendere che questa è la strada che dobbiamo seguire insieme.
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