Può uno Stato, che si dice laico, usare simboli della fede per suggellare scelte non coerenti con il Vangelo (aborto, guerra) in nome di un'identità culturale?
del 03 maggio 2010
 
          Per fare chiarezza, forse è bene distinguere due problemi: se uno Stato laico possa utilizzare segni religiosi, e quanto siano credibili persone che parlano di un’identità culturale fondata sul cattolicesimo, e poi condividono scelte poco coerenti con il Vangelo, e in alcuni casi si autodefiniscono atei, ma cristiani.
Non è facile dare un senso preciso alla laicità e ai suoi contenuti.
          Non pochi pensano che esista una definizione di laicità applicabile a tutti i Paesi europei, dimenticando che ogni Paese ha una sua storia e una sua cultura.
          In teoria, uno Stato laico non dovrebbe utilizzare, all’interno delle sue strutture, segni religiosi. In pratica, spesso questi sono giustificati da lunghi processi storici, che non si possono modificare in tempi brevi. Questo significa che uno Stato laico può anche ammettere che vengano accettati segni religiosi, senza pretendere di regolamentare tutto.
          Il secondo problema è più chiaro: sono troppi coloro che utilizzano la religione in funzione dei loro interessi, svuotandola dei suoi significati più importanti. Non si tratta solo, da parte dei legislatori, di ammettere, nelle leggi, scelte non sempre coerenti con il Vangelo, come l’aborto, il divorzio ecc.
          Vi sono casi in cui si è costretti a scegliere il male minore, e proprio perché uno Stato è laico, non si può chiedere ai legislatori, anche se cristiani, di trasformare in leggi dello Stato certi valori evangelici.
          Ciò che invece è più discutibile è che molti uomini politici rivendichino un’identità cristiana la cui definizione è inaccettabile, dal momento che sta a indicare un semplice riferimento storico e culturale, prescindendo da quei valori evangelici che dovrebbero essere il fondamento di ogni forma di cristianesimo. Si tratta in altri termini di un cristianesimo funzionale alla conservazione del potere, e che prescinde dal Vangelo: al punto che, come ricordavo, alcuni non esitano a definirsi atei cristiani, cioè inseriti in una storia e in una cultura considerata cristiana ma che prescinde dall’esistenza di Dio.
          I sociologi inglesi definiscono tale situazione con dei termini significativi: una volta molti si dichiaravano credenti senza appartenenza (credo in Dio ma non mi dichiaro appartenente alla Chiesa), oggi molti si dichiarano appartenenti senza credenza (mi sento cristiano e appartenente alla Chiesa che mi fonda la mia identità, ma non credo in Dio). Si tratta di un fenomeno in parte nuovo, diffuso nella nostra classe dirigente. Mi pare quindi che il problema, e l’inaccettabile anomalia, sia questa seconda, più che l’esposizione di simboli cristiani da parte di uno Stato laico.
          Nessuno di noi si sente un bravo cristiano, tutti annunciamo la parola di Dio, non la nostra. Vi è quindi qualcosa che vale per tutti nella parola del Vangelo: «Fate quello che dicono e non quello che fanno». Di fronte a certi comportamenti “privati” non molto esemplari, qualche cattolico ha ricordato, per giustificarli, proprio quella frase di Gesù. Ma forse sarà il caso di ricordarci che Gesù la utilizza parlando dei farisei.
Maurilio Guasco
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