Movimento essenziale della vita spirituale cristiana è la lotta spirituale. Paolo parla della vita cristiana come di uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo...Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev'essere curata quando è minacciata nella sua integrità...
del 01 gennaio 2002
Movimento essenziale della vita spirituale cristiana è la lotta spirituale. Già la Scrittura esige dal credente tale atteggiamento: chiamato a «dominare» all’interno del creato, l’uomo deve esercitare tale dominio anche su di sé, sul peccato che lo minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,7). Si tratta dunque di una lotta interiore, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla consumazione del male. Paolo, servendosi di immagini belli che e sportive (la corsa, il pugilato), parla della vita cristiana come di uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore dell’uomo per poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall’antropologia biblica, dell’organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell’intelligenza è della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l’unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento.
La lotta spirituale mira, secondo la tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Se il suo fine è l’apatheia, questa va intesa non nel senso dell’impassibilità, ma dell’assenza di patologie. Così la lotta spirituale mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev’essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Sia l’Occidente che l’Oriente cristiano hanno codificato gli ambiti, gli spazi, in cui va esercitata tale lotta per mantenere il credente in un atteggiamento sano, cioè di comunione e non di consumo. La tradizione monastica ha sempre affermato con grande forza che la vita di fede assume la forma di un’incessante lotta contro le tentazioni. Antonio, il «padre dei monaci», ha detto: «Questa è la grande opera dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio, e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro». Ma che significa «tentazione»?
Con questa espressione si indica un pensiero (i Padri greci parlano di loghismoi), una suggestione, uno stimolo che muove dall’esterno dell’uomo (ciò che si vede, che si ascolta, che ci sta intorno ecc.) oppure dal suo stesso interno, dalla sua struttura personale, dalla sua storia, dalle sue peculiari fragilità, e che insinua nell’uomo la possibilità di un’azione malvagia, contraria all’Evangelo. Dal catechismo frequentato in fanciullezza molti ricorderanno la lista dei «sette peccati capitali», diffusasi nel mondo cattolico soprattutto nell’epoca della Contro riforma, ma risalente a Gregorio Magno, il quale parlava di vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria. A sua volta questa lista di sette era un rifacimento dell’elenco degli otto pensieri malvagi formulato da Evagrio Pontico nel IV secolo e volgarizzato in Occidente da Giovanni Cassiano. Rileggere oggi questi «peccati» uscendo dalla griglia moralistica e dalla casistica con cui sono giunti fino a noi e interpretarli come «rapporti» può mostrare la loro sconcertante modernità (molti vi hanno visto una forma di psicoanalisi ante litteram) e aiutarci a raggiungere il nucleo profondo ed estremamente semplice da cui sgorgavano al di là delle forme più o meno maldestre con cui ci sono stati fatti conoscere.
Evagrio parlava anzitutto di gastrimarghía, la quale non investe solo il rapporto con il cibo (né va banalizzata nel «peccato di gola»), ma ogni forma di patologia orale (si pensi alle articolate implicazioni della bulimia e dell’anoressia). La porneía designa poi gli squilibri nel rapporto con la sessualità, soprattutto la tendenza a cosificare il corpo proprio e dell’altro, ad assolutizzare le pulsioni e a ridurre a oggetto di desiderio chi è chiamato a essere soggetto di amore. La philarghyria designa sì l’avarizia, ma più profondamente ci rinvia al rapporto con le cose e denuncia la tendenza dell’uomo a lasciarsi definire da ciò che possiede. L’orghé (ira) indica il rapporto con gli altri, che può essere stravolto fino alla violenza con la collera, e in cui il credente è chiamato al paziente e faticoso esercizio (cioè, etimologicamente, all’ascesi) dell’accettazione dell’alterità. La lype indica la tristezza, ma anche la frustrazione di chi non vive in modo equilibrato il rapporto con il tempo e resta incapace di arrivare all’unificazione del tempo della propria vita. Lacerato tra nostalgia del passato e fughe irreali in avanti, l’uomo preda dello spiritus tristitiae è incapace di aderire all’oggi, al presente. L’akedia (acedia; scomparso nella lista occidentale di Gregorio Magno probabilmente perché fatto confluire nella tristezza) designa una pigrizia, un taedium vitae, una demotivazione radicale che diviene pulsione di morte e financo tendenza suicidaria. Si manifesta come instabilità radicale, disgusto di ciò che si vive, volontà di azzeramento della propria esistenza, e rivela l’incapacità di vivere armonicamente il rapporto con lo spazio. La kenodoxia, vanagloria, è la tentazione di definirsi a partire da ciò che si fa, dal proprio lavoro, dalla propria opera: essa investe dunque l’ambito del rapporto con il fare, con l’operare. Infine, la yperephania (superbia) designa la hybris nel rapporto con Dio. È l’orgoglio, l’affermazione dell’ego, la sostituzione di «io» a «Dio».
Non è difficile vedere come il combattimento spirituale, che individua questi ambiti – riassuntivi di tutti i rapporti costitutivi della vita – come «campi di battaglia», voglia guidare il credente alla maturità personale e al dispiegamento della piena libertà. Vigilanza e attenzione sono la «fatica del cuore» (Barsanufio) che consente al credente di operarne la purificazione: è dal cuore infatti che escono le intenzioni malvagie ed è il cuore che deve divenire dimora del Cristo grazie alla fede. In questo senso la «custodia del cuore» (phylakè tes kardias) è l’opera per eccellenza dell’uomo spirituale, la sola veramente essenziale. Ma come avviene tale lotta? La sconfinata letteratura ascetica sull’argomento, dal De agone christiano di Agostino alle opere di Evagrio Pontico e di Giovanni Cassiano fino al celebre trattato Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli (1530-1610), consente di individuare un itinerario preciso, un dinamismo attraverso cui si sviluppa la tentazione nel cuore umano e che occorre disarticolare con la lotta interiore. È un dinamismo in quattro momenti fondamentali: la suggestione, il dialogo, l’acconsentimento, la passione (o vizio).
La suggestione è l’insorgere nel cuore dell’uomo della possibilità di un’azione malvagia, peccaminosa. Questo carattere negativo del pensiero è discernibile dal fatto che provoca turbamento nel cuore, toglie la pace e la serenità. Questo momento è assolutamente universale: nessuno ne è esente. Se con questo pensiero ci si intrattiene e si dialoga, se si neutralizza, ricorrendo a espedienti autogiustificatori, il disagio e il turbamento che esso ingenera nel profondo dell’uomo, allora esso diviene, pian piano, una presenza prepotente nel cuore, presenza non più dominabile, ma che domina l’uomo. E allora che avviene l’acconsentimento, cioè una presa di posizione personale che contraddice la volontà di Dio. Se gli acconsentimenti si ripetono perché non si mostra alcuna capacità di lotta, allora si diventa schiavi di una passione, di un vizio. Questo processo elementare può invece essere spezzato da una lotta che si eserciti subito, alloro nascere, contro i pensieri e le suggestioni.‚Ä®Ma di nuovo: quali sono, molto concretamente, le modalità di tale lotta? Anzitutto l’apertura del cuore all’interno di una relazione con un padre spirituale; quindi la preghiera e l’invocazione del Signore; l’ascolto e l’interiorizzazione della Parola di Dio; una vita di relazione, di carità, intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, cioè la possibilità dell’idolatria. Le forme che la tentazione può rivestire sono molteplici e abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici fondamentali. li rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose (in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l’operare e, infine, con Dio. Tutti questi ambiti del nostro vivere, che definiscono la nostra identità umana e spirituale, devono essere ordinati e disciplinati attraverso una lotta. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. E per questo la lotta contro la tentazione trova il suo magistero eminente nell’eucaristia, che appunto è celebrazione della vita come comunione con Dio e con gli uomini.
A questa lotta occorre esercitarsi: bisogna anzitutto saper discernere le proprie tendenze di peccato, le proprie fragilità, le negatività che ci segnano in modo particolare, quindi chiamarle per nome, assumerle e non rimuoverle, e infine immettersi nella lunga e faticosa lotta volta a far regnare in sé la Parola e la volontà di Dio!
Organo di questa lotta è infatti il cuore, inteso biblicamente come organo della decisione e della volontà, non tanto dei sentimenti. La capacità di lotta spirituale, l’apprendimento dell’«arte della lotta» (Salmo 144,1; 18,35) è essenziale per l’accoglienza della Parola di Dio nel cuore umano. Se essa manca, allora «le preoccupazioni mondane, l’inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie soffocano la Parola» nel cuore dell’uomo e questa «rimane senza frutto» (Marco 4,19). Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne, ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa produce. È grazie ad essa che la fede diviene fede che rimane, perseveranza. È grazie ad essa che l’amore viene purificato e ordinato. Ha testimoniato il Patriarca ecumenico Atenagora: «Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. lo questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”. Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”». Sì, la tentazione, come ha scritto Origene, «fa del credente un martire o un idolatra».
Enzo Bianchi
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