Non si può tacere che l'attenzione oggi prestata all'“io” e alle istanza della soggettività presenta molte ambiguità: il narcisismo culturale, la pornografia dell'anima, la compressione dell'individualità da parte della cultura tecnologica che provoca l'ipertrofia dell'io negli altri ambiti esistenziali, sono tutti elementi che rendono, da un lato, prudente, dall'altro, urgente, un discorso sulla ricerca la conseguente cura e sollecitudine del sé autentico.
del 05 luglio 2010
 
               Un elemento della spiritualità cristiana che da sempre ha maggiori valenze anche per chi non condivide questa fede è l’attenzione alla dimensione dell’interiorità: l’essere discepoli di Cristo esige infatti che l’umano non sia mai disgiunto dallo spirituale e che al movimento di conoscenza del Signore si accompagni sempre il parallelo movimento di conoscenza di sé.
 
               Per questo la tradizione cristiana non ha esitato a riprendere e riformulare in termini propri l’iscrizione posta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi “Conosci te stesso”. Così, da Origene fino a Bernardo, molti padri della chiesa e autori cristiani hanno ripreso e approfondito il senso di questo interrogativo essenziale per l’umanizzazione, che Platone così sintetizzava: “Non conduce vita umana chi non si interroga su se stesso”.
               Non si può tacere che l’attenzione oggi prestata all’“io” e alle istanza della soggettività presenta molte ambiguità: il narcisismo culturale (“Quando la ricchezza occupa un posto più alto della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità e quando il successo è più importante del rispetto di sé, vuol dire che la cultura stessa sopravvaluta l'immagine, e deve essere considerata narcisistica”, ammonisce A. Lowen), la pornografia dell’anima (l’esibizione dell’intimo, la scomparsa del pudore nel dare in pasto a milioni di telespettatori le confessioni personali o i problemi familiari), la compressione dell’individualità da parte della cultura tecnologica (a cui interessa un esecutore funzionale di un lavoro già programmato) che provoca l’ipertrofia dell'io negli altri ambiti esistenziali, sono tutti elementi che rendono, da un lato, prudente, dall’altro, urgente, un discorso sulla ricerca la conseguente cura e sollecitudine del sé autentico.
               Ne va infatti della libertà della persona! È veramente libero chi conosce se stesso, perché questi può nutrire un rapporto equilibrato con la realtà e con gli altri e scoprire motivi di speranza e di fiducia nel futuro.
               Il processo della conoscenza di sé consiste nella risposta a un appello che si fa sentire in noi, per esempio, quando proviamo il bisogno di trascorre un po’ di tempo da soli per riflettere e pensare, per “tirarci fuori” dal quotidiano che rischia di intontirci con la sua ripetitività o di travolgerci con i suoi ritmi esasperati. Si tratta della chiamata a compiere un cammino verso l’interiorità, un viaggio all’interno di se stessi che si svolge ponendosi domande, interrogando se stessi, riflettendo, pensando, elaborando interiormente ciò che si vive di fuori. Solo così, attraverso l’interiorizzazione, si diviene soggetti della propria vita e non ci si lascia vivere.
               Certo, questo cammino nella propria interiorità, questa discesa nel proprio cuore è molto faticosa e dolorosa: normalmente noi la respingiamo, ne abbiamo paura, perché temiamo ciò che di noi può emergere, ciò che di noi può esserci svelato. Nietzsche ha parlato del grande dolore di cui fa uso la verità quando vuole svelarsi all’uomo. La conoscenza di sé esige cura costante, attenzione e vigilanza interiore, quella capacità di concentrazione e di ascolto del silenzio che aiuta l’uomo a ritrovare l’essenziale grazie anche alla solitudine. Allora si perviene a habitare secum, ad abitare la propria vita interiore e si consente alla propria verità interiore di dispiegarsi in noi: è anche allora che la conoscenza di noi stessi diviene conoscenza dei limiti, delle negatività, delle lacune che fan parte di noi e che normalmente tendiamo a rimuovere pur di non doverle riconoscere.
Enzo Bianchi
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