Al fondo della nostra vita c'è questa cosa, questo vuoto costante...
Andrew Sullivan ha raccontato in un articolo scritto per il New York Magazine il motivo per cui l’anno scorso ha deciso di “scollegarsi” da internet, social network, smartphone e altre tecnologie tipiche della nostra «era di distrazione di massa». All’epoca la sua scelta radicale ha fatto scalpore perché Sullivan non è un qualunque ex profilo su Facebook. Giornalista inglese trapiantato negli Stati Uniti, conservatore, cattolico e omosessuale dichiarato, celebre per il suo pensiero non conformista (vedi il caso Mozilla) e anche per la sua capacità di cambiare idea, Sullivan è il simbolo del “blogger che c’è l’ha fatta”. Il suo The Dish, tuttora online ma “congelato” al 2015, è stato uno dei primi e più famosi esempi di giornalismo su web capace di stare in piedi economicamente senza l’appoggio di un editore. E questo grazie alle sottoscrizioni dei lettori ma soprattutto grazie alla totale, compulsiva dedizione di Sullivan. Solo che a un certo punto Sullivan non ce l’ha fatta più a vivere da «drogato di informazione» sotto un continuo bombardamento di notizie, chiacchiere, immagini e “contatti”.
PROVARE A MEDITARE.
Nel suo articolo intitolato “I Used to Be a Human Being” (Sono stato un essere umano) Sullivan torna sulla sua drastica decisione approfondendo ragioni e pensieri già esposti ai lettori del suo blog l’anno scorso. Nel frattempo per lui c’è stata molta riflessione e perfino l’ingresso in una specie di gruppo di aiuto alla meditazione, esperienza su cui Sullivan ritorna più volte nel racconto. Il testo è molto lungo, sono 40 mila battute in inglese, ma nonostante alcuni passaggi discutibili, vale davvero la pena di prendersi il tempo necessario per leggerlo tutto. Qui ne riportiamo qualche passaggio.
OSSESSIONE WEB.
In quanto padre fondatore della “blogosfera” Sullivan sa di essere un caso estremo di dipendenza, ma fatte le debite proporzioni, ognuno può benissimo riconoscere su di sé i sintomi della patologia sociale/esistenziale da lui descritta: «l’epidemia della distrazione». «Per un decennio e mezzo – scrive Sullivan – sono stato ossessionato dal web, pubblicavo post più volte al giorno, sette giorni a settimana. (…) Ogni mattina cominciava con una full immersion nel flusso di coscienza di internet e notiziari, saltando da sito a sito, da tweet a tweet, esaminando innumerevoli immagini e video (…). A volte passavo intere settimane a raccogliere maniacalmente ogni minimo frammento di una storia in evoluzione per poterli fondere insieme in una narrazione in tempo reale. Ero in dialogo infinito con i lettori che cavillavano, elogiavano, fischiavano, correggevano. Il mio cervello non era mai stato così insistentemente occupato da così tanti argomenti diversi in maniera così pubblica per così tanto tempo».
UN FLUSSO COSTANTE.
Ben presto Sullivan si è “trasferito” su un mondo parallelo. In una specie di autismo sociale che secondo l’ex blogger sta prendendo piede dappertutto. Per lui la dipendenza da informazione ha iniziato a comportare anche problemi fisici gravi. Un giorno il suo medico è arrivato a dirgli: «Ma davvero sei sopravvissuto all’Hiv per morire di web?». Le «gratificazioni» però, almeno apparentemente, erano troppe per stare a badare al prezzo pagato. Sullivan godeva di «un pubblico di 100 mila persone al giorno; un’impresa di new-media che generava davvero profitti; un flusso costante di cose con cui infastidirmi, illuminarmi o infuriarmi; una nicchia ricavata nel centro nevralgico della conversazione globale; e un modo per misurare il successo che era un bagno continuo di dopamina per l’ego scrivente. Se nell’era di internet bisognava reinventarsi come scrittori – così rassicuravo me stesso – allora io ce l’avevo già fatta. Il problema era che non ero riuscito a reinventarmi come essere umano».
UNA NON-VITA.
Sullivan non riusciva più neanche a leggere un libro, a fermarsi a pensare, o semplicemente a prendersi una pausa extra dal lavoro. «Nel tempo, in questo mondo virtuale pervasivo, il clamore online continuava a crescere. Nonostante passassi ore ogni giorno da solo e in silenzio, davanti a un laptop, era come se fossi sempre immerso in una folla cacofonica di parole e immagini, suoni e idee, emozioni e invettive». Sullivan era irresistibilmente attratto in questa dimensione parallela ma a un certo punto «ho cominciato a temere che questo modo di vivere stesse diventando in realtà un modo di non-vivere». Di qui la decisione di interrompere tutto.
RIDOTTI A CONTATTI.
L’articolo di Sullivan è pieno di spunti di riflessione interessanti sull’attuale tecnologia dell’informazione e della connessione, capace come nessun’altra invenzione umana precedente di «conoscere a fondo i suoi consumatori» e perciò di attrarli. «Guardatevi attorno», scrive a un certo punto. Guardate tutte quelle persone «curve sui loro telefoni mentre camminano per strada, o guidano le loro auto, o portano a spasso il cane, o giocano con i loro figli. Osservate voi stessi in fila per un caffè, o in una pausa di lavoro, o al volante, o anche solo mentre andate al bagno». I rapporti umani svaniscono. «La famiglia che mangia insieme mentre tutti sono sul loro smartphone non è davvero insieme. Sono, nella formulazione di Turkle, “da soli insieme”. Tu sei dove sta la tua attenzione. Quando guardi una partita con tuo figlio mentre scambi messaggi con un amico, non stai del tutto con tuo figlio – e lui lo sa». Continua Sullivan: «Stiamo riducendo l’ambito delle nostre interazioni anche se moltiplichiamo il numero di persone con cui interagiamo». Diventiamo gli uni per gli altri «amici di Facebook, una foto di Instagram, un messaggio di testo», nient’altro che «”contatti”, ombre efficienti di noi stessi». Perfino usare il telefono per parlarsi ci risulta scomodo: «Una telefonata potrebbe durare di più» di un messaggino, nota Sullivan. E soprattutto «potrebbe obbligarci a incontrare» un’altra persona, con tutti gli imprevisti che questo comporta.
PAURA DEL BUIO.
Ma l’euforia da “like” ci ha resi più felici?, si domanda l’ex blogger di successo. «Io sospetto che ci abbia semplicemente reso meno infelici, o meglio, meno coscienti della nostra infelicità, e che i nostri telefoni siano solo un nuovo e potente tipo di antidepressivo non-farmacologico. Recentemente, in un saggio sulla contemplazione, lo scrittore cristiano Alan Jacobs ha elogiato il comico Louis C.K. per aver negato ai suoi figli lo smartphone. Ospite dello show di Conan O’Brien, C.K. ha spiegato perché: “Bisogna costruire la capacità di essere se stessi e non di fare qualcosa. È questo che ci stanno portando via i nostri telefoni”, ha detto. “Al fondo della nostra vita c’è questa cosa… questo vuoto costante… questa coscienza che niente vale e che siamo soli… Ecco perché messaggiamo mentre guidiamo… perché non vogliamo essere soli neanche per un secondo”». Purtroppo però, commenta acutamente Sullivan, «se non esiste più una notte oscura dell’anima che non sia illuminata dal baluginio di uno schermo, allora non c’è più neanche l’alba della speranza». È ancora C.K. a usare parole adatte: «Non ci si sente più del tutto tristi o del tutto felici, ci sente solo… tipo soddisfatti dei propri prodotti. E poi si muore. Ecco perché non voglio prendere un telefono per i miei figli».
LE CHIESE CHIUSE.
Secondo Sullivan la responsabilità culturale della svalutazione del silenzio, della solitudine (anche dolorosa) e della meditazione intesi come luoghi di comprensione di sé, di ricerca di senso, di rapporto con le cose e con l’assoluto, è delle filosofie nemiche della religione. Ma anche «le chiese» secondo lui non sono state ancora capaci di cogliere lo stato di alienazione raggiunto dalla società. «Se le chiese arrivassero a capire che la minaccia maggiore per la fede oggi non è l’edonismo ma la distrazione, forse inizierebbero a esercitare un fascino rinnovato su una generazione digitale esausta». Peccato che invece «i leader cristiani sembrano convinti di dovere aggiungere distrazione per contrastare la distrazione. Le loro funzioni sono degenerate in spasmi emotivi, i loro ambienti invasi da luce e rumore e chiusi durante il giorno, quando l’oscurità e il silenzio al loro interno potrebbero attrarre menti e anime stremate dal web».
LA DEBOLEZZA.
Purtroppo la disintossicazione non ha eliminato per sempre in Sullivan la tentazione di «fuggire dalla vita per un po’ in un gioco online dove tutti i rischi della reale interazione umana sono banditi». Al contrario, l’ex blogger alla fine dell’articolo ammette di essersi pericolosamente riavvicinato al suo vecchio mondo. Sapeva che sarebbe stato fatale per lui abbandonare il rigore di astensione e meditazione che si era imposto. Avrebbe dovuto insistere e resistere alla noia della vita offline, perché «come la Messa settimanale, è la routine che gradualmente crea uno spazio che fa respirare la vita. Ma il mondo a cui mi sono ricongiunto sembrava cospirare per portarmi via quello spazio». Sullivan ha ceduto alla tentazione. Del resto «questa nuova epidemia di distrazione è la debolezza che caratterizza la nostra civiltà».
Redazione Tempi.it
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