La carestia d'Africa, il nostro impegno: mentre i Grandi della Terra seguono con grande apprensione l'evolversi della crisi che attanaglia i mercati finanziari di mezzo mondo, nel Corno d'Africa si continua a morire.
del 08 settembre 2011
 
          Mentre i Grandi della Terra seguono con grande apprensione l’evolversi della crisi che attanaglia i mercati finanziari di mezzo mondo, nel Corno d’Africa si continua a morire. Lunedì scorso le Nazioni Unite hanno fatto sapere che l’emergenza umanitaria in Somalia sta ormai interessando anche la regione meridionale di Bay. Si parla di almeno altre 750mila persone a rischio di morte per inedia e pandemie.            Un popolo ridotto allo stremo che si va a aggiungere agli oltre 12 milioni di uomini e di donne a gravissimo rischio di denutrizione letale nell’intera regione. Da rilevare che la zona di Bay è sotto il controllo degli al-Shabaab, le famigerate formazioni jihadiste che da tempo seminano morte e distruzione, opponendosi strenuamente al governo federale di transizione insediato nella capitale, Mogadiscio.          Di fronte a questo scenario apocalittico, è davvero raccapricciante pensare che la sofferenza di così tanta gente innocente sia paradossalmente finita nel dimenticatoio anche a causa del disinteresse – a parte qualche significativa eccezione – del sistema dei mass media, soprattutto qui in Italia. Giornali, radio e tv sono così preoccupati di raccontare i saliscendi dei listini di borsa e il faticoso definirsi della manovra finanziaria aggiuntiva da 45 miliardi di euro da non trovare spazio per l’immane tragedia umana che si sta consumando in terra d’Africa. Per carità, l’altra attenzione è motivatissima, ma certo tenace 'oscuramento' della grande carestia è e resta incomprensibile. Sta di fatto che il dispiegamento della task force umanitaria allestita nel Corno dalla comunità internazionale non dispone ancora oggi delle risorse necessarie per garantire la sopravvivenza d’intere popolazioni.          Come al solito, le responsabilità sono trasversali e riguardano l’intero consesso delle nazioni. E sì, perché se da una parte è evidente che la Somalia rappresenta la linea di faglia tra opposti interessi geostrategici, legati – almeno in parte – al controllo delle immense fonti energetiche presenti nel sottosuolo (che vanno dal petrolio al gas naturale fino all’uranio), vi sono anche altre negligenze che coinvolgono le classi dirigenti locali (troppo spesso assetate di denaro) e di certi grandi benefattori o presunti tali. Nell’arco degli ultimi sessant’anni, questi signori, denominati provocatoriamente Lords of poverty ('Signori della povertà'), da Graham Hancock, grande firma del giornalismo anglosassone, anziché promuovere una cooperazione allo sviluppo che tenesse conto degli effettivi bisogni del territorio, hanno risposto alle cicliche calamità climatiche, poco importa che si trattasse di siccità o inondazioni, promuovendo interventi d’emergenza con modalità che hanno finito per acuire a dismisura la dipendenza delle popolazioni africane dagli aiuti stranieri.          Ecco perché la colletta promossa per domenica 18 settembre dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana, in risposta all’accorato appello di Benedetto XVI, va vista come un gesto di solidarietà fattiva dalla duplice valenza spirituale e materiale. Ma anche e soprattutto come un invito rivolto ai capi delle nazioni e più in generale all’opinione pubblica a sentirsi corresponsabili del «bene comune» dei popoli. A questo proposito va ricordato che la Fao, l’organizzazione Onu delegata alle politiche agricole e alimentari, aveva chiesto a metà agosto, 2,4 miliardi di dollari per risolvere la crisi umanitaria con soluzioni per il breve e lungo periodo. Finora, purtroppo, è stato stanziato solo poco più di un miliardo di dollari. E dire che la spesa bellica dei soli Stati Uniti dopo l’11 Settembre di dieci anni fa è costata complessivamente oltre 4mila miliardi di dollari secondo i dati forniti dall’Istituto di studi internazionali della Brown University di New York. Tutto denaro preso in buona parte in prestito da banche o da organismi internazionali a cui vanno aggiunti altri 200 miliardi di dollari per il pagamento degli interessi.          Le ragioni che hanno determinato gli interventi armati internazionali degli ultimi anni – dalla Bosnia al Kosovo, dall’Iraq, all’Afghanistan e alla recentissima crisi libica – sono le più diverse. Non sempre comparabili tra loro e non sempre coincidenti con i princìpi dell’Onu. Ma, alla luce dell’illuminato Magistero sociale della Chiesa, è chiaro che la miglior forma di deterrenza contro l’ingiustizia e la sopraffazione è la promozione dello sviluppo dei popoli non certo il perpetuarsi delle logiche di guerra. Utopia si dirà, eppure sono i poveri a chiederlo. E la gelida realtà dei numeri dice che hanno ragione. 
Giulio Albanese
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