Il problema non è quello di definire la bellezza, cioè di chiudere la bellezza all'interno di confini, ma quello di vedere che cosa la bellezza susciti in noi. Come in tutti i campi è necessario partire dall'esperienza. Quando noi incontriamo qualcosa che è davvero bello, le prime reazioni che suscita in noi sono lo stupore, la meraviglia, una momentanea estasi e contemplazione.
del 20 giugno 2011
 
          Un artista di nome Anselmo compone un’opera intitolata Torsioni, prendendo un pezzo di spago e legandolo a un muro. Di fronte a quest'opera l’uomo comune non capisce perché si debba parlare di arte. Allora l’artista ci spiega che la tensione a cui sottopone questo spago gli viene restituita e quindi quell'opera d'arte rappresenta in un certo senso la forza, la reazione e la controreazione.
          Ecco, dinanzi a queste spiegazioni siamo ormai abituati a riconoscere che noi siamo profani, siamo ignoranti, dobbiamo fidarci dell’artefice e dei critici. Diventiamo in qualche modo succubi dell’artista, ma soprattutto del potere del critico d'arte. In realtà, occorre chiedersi di nuovo che cosa siano la bellezza e l’arte.           Il problema non è quello di definire la bellezza, cioè di chiudere la bellezza all'interno di confini, ma quello di vedere che cosa la bellezza susciti in noi. Come in tutti i campi è necessario partire dall’esperienza. Quando noi incontriamo qualcosa che è davvero bello, le prime reazioni che suscita in noi sono lo stupore, la meraviglia, una momentanea estasi e contemplazione. Pensiamo a una musica bella, ad esempio alla Sinfonia 40 di Mozart, o alla Cappella Sistina di Michelangelo o all’Infinito di Leopardi. L’uomo perde quasi le parole nell’incontro con la bellezza, che è una delle esperienze più alte che si possano provare. Al riguardo nel Paradiso Dante arriva a scrivere: «Trasumanar significar per verba/ non si porìa: però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba» ovvero «non si può raccontare a parole questa esperienza di andare oltre la condizione umana, perciò basti l’esempio a chi avrà poi la grazia di sperimentarlo a sua volta».           La bellezza è ineffabile, indicibile. L’uomo non riesce a descriverla, ma sente l’impellente necessità di condividerla con gli altri, perché la bellezza ci ferisce, ci spalanca verso un mistero più grande. Quindi, dopo una prima reazione di contemplazione, provoca in noi un movimento dovuto al nostro impeto e desiderio di conoscerla, come quando un ragazzo fosse colpito dal fascino di una ragazza incontrata e facesse di tutto per rivederla. Di fronte al bello si percepisce la sproporzione tra la nostra pochezza e il nostro limite e l’infinito e l’assoluto che si intravedono in quel bello. Il bello è, quindi, segno, rimando a qualcosa d’altro. Sarebbe stolto rimanere sul segno senza cercare d’andare oltre. Nel momento in cui cerchiamo di definire la bellezza la stiamo già deturpando e in un certo senso corrompendo, perché siamo presi come da un desiderio di possesso. Di fronte al bello, però, l’analisi nasce sempre un momento dopo rispetto alla contemplazione. L’analisi, infatti, corrisponde ad una corruzione e ad un decadimento rispetto al primigenio momento di rapimento, coincide spesso con un tentativo di dominio, di comprensione, di riduzione di quanto si ha davanti alla propria misura.           La contemplazione, invece, conserva quell’affermazione di subalternità e di dipendenza rispetto ad un Mistero che emerge dal reale. Per questo motivo, se è vero che solo un’educazione al bello permetterà di apprezzare meglio la tecnica, i contenuti del Don Giovanni di Mozart, è anche vero che chi può fruire di questa opera d’arte ne rimane profondamente colpito, anche se non la comprende. Invece, di fronte a tante opere contemporanee, come la sopra citata Torsioni di Anselmo, manca questo momento di rapimento che la vera opera d’arte nella sua unità e interezza riesce a suscitare sullo spettatore e si tenta, malgrado ciò, di giustificarne la grandezza attraverso l’analisi. L’estetica contemporanea ha rescisso i rapporti con la realtà. Così, l’unica sorgente di ispirazione, quando la realtà è negata o rifiutata, quando il senso non è riconosciuto, è il nostro pensiero, talvolta obnubilato, malato, psicologicamente fragile, instabile.           Chiediamoci allora: da che cosa scaturisce la creatività artistica? Che relazione intercorre tra l’opera d’arte e la realtà? E, di conseguenza, che funzione svolgono l’osservazione e lo sguardo sul reale nell’ambito della realizzazione di un capolavoro? Si può realizzare arte di «pura invenzione», scevra di ogni attenzione all’umano? Cercheremo, ora, di rispondere a queste domande nel tentativo di capire quale sia la vera sorgente dell’arte. Nell’atto primo dell’Amleto, il protagonista assiste all’apparizione del fantasma del padre che gli ha rivelato di essere stato ucciso dal fratello. In seguito, Amleto confida all’amico Orazio che la realtà è ricchissima: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia». Se la realtà è più ricca di ogni pensiero umano, sarà anche sorgente di ispirazione per ogni discorso o fatto artistico. L’arte non potrà avere come punto di riferimento che la realtà stessa.           Tutta l’arte e l’ispirazione shakespeariana nascono da questa acuta capacità di osservazione dell’umano sentire, delle passioni, delle gioie e delle sofferenze. Alla lettura delle tragedie, delle commedie, dei drammi storici di Shakespeare palpita il nostro cuore. Davvero a lui si addicono le parole dell’antico latino Terenzio: «Sono uomo, nulla di ciò che è umano reputo a me estraneo». Non c’è aspetto che venga bandito, non c’è vizio o debolezza che non meritino ospitalità nella sua produzione quali espressioni di quest’essere miserabile, ma, nel contempo, grandioso che è l’uomo. Dante è dello stesso avviso. Aprendo la cantica del Paradiso, scrive: «La gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove.//Nel ciel che più de la sua luce prende/fu’ io, e vidi cose che ridire/né sa né può chi di là su discende». Che significa? La bellezza che c'è nel creato è la sorgente dell’opera d’arte. L’arte dantesca trova sempre la sua scaturigine in un accadimento, in un’occasione, quella che Montale chiamerà «l’occasione spinta», una circostanza che capita e ti spinge a raccontare.
          L’arte ha valore tanto più approfondisce questa intelligenza sulla realtà. Lo scrittore si immedesima sempre non solo nella psicologia del viator, ma anche si addentra nelle sue esigenze, nelle sue domande, nei suoi desideri di risposta sulla vita, nelle contraddizioni, nelle lacerazioni del personaggio. È il richiamo continuo a questo cuore la radice prima dell’arte dantesca. L’osservazione di sé e degli altri e lo «sguardo» orientato sull’uomo sono la sorgente inesauribile della sua fantasia artistica. Lo stesso Manzoni nel Dialogo Dell'invenzione scrive che l'artista e il letterato non inventano mai nulla. Manzoni partendo dall'etimo del termine afferma che «inventare» deriva da «invenire» che vuol dire «trovare», «scoprire». Quindi l'artista è come se trovasse nel creato le norme e le impronte del creatore.           Un’interpretazione riduttiva e parziale del Romanticismo, che molto ha influenzato il modo di percepire l’estetica nella contemporaneità, vuole, invece, che la creazione artistica sia puramente legata al sentimento e al momento di intuizione pura. In questo caso l’attività artistica non attingerebbe a tutte le facoltà umane e a quella facoltà, in particolare, che è imprescindibile per noi, ovvero la ragione. Ora dobbiamo, però, precisare che non è la ragione a produrre la bellezza. Al contrario, è la bellezza che muove la ragione. La bellezza esiste nella realtà e sprona l’uomo a riprodurla nell’opera d’arte, non esiste prima nella mente dell’artista se non per il fatto che questi l’abbia prima stampata nella propria mente osservandola nel mondo.           Ora la bellezza ha un legame molto profondo anche con la bontà. Pensiamo ad un bambino. Quando dice alla mamma «mamma, sei brutta!» o al papà «sei brutto!» intende dire che sono cattivi, perché secondo lui si sono comportati male. Questo significa che nel bambino questa coincidenza tra bellezza e bontà è chiarissima. Non siamo noi ad avere insinuato in lui la nozione di una identità tra bontà e bellezza. Per un bambino la mamma è bella sempre, perché la mamma è buona, la mamma è il suo punto di riferimento. Nell'epoca contemporanea, in maniera drammatica, è avvenuta una separazione tra bellezza e bontà.           È quello che Shakespeare, sempre nell'atto terzo dell’Amleto, descrive nel dialogo tra il protagonista e Ofelia. Quando Amleto decide di lasciare la fidanzata e si finge pazzo, allora la convoca dopo il famoso monologo «Essere o non essere» e le chiede: «Siete bella? Siete onesta?». Ofelia non capisce. E allora Amleto insiste: «Se siete bella e se siete onesta, non lasciate che la vostra onestà discorra con la vostra bellezza, perché oggigiorno è più facile che la bellezza corrompa la bontà, di quanto la bontà possa migliorare la bellezza». Come siamo distanti ora dall'immagine di donna che Dante aveva nella Vita nova quando descrive Beatrice «tanto gentile e tanto onesta». La bellezza di Beatrice proviene dal fatto che è bella e anche buona. La bontà straripante che c'è nel suo animo la rende ancor più bella. Ma Beatrice non lega a sé Dante, ma, guardando verso l’alto, lo induce a fare altrettanto. Quello che prova il poeta fiorentino in quel momento è qualcosa di sconvolgente.           Nello stesso canto I del Paradiso, però, Dante afferma che in realtà tutte le cose sono belle nella loro misura: «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa somigliante». Ciò vuol dire che c'è qualcosa che è eminentemente bello, ma in un certo senso tutta la realtà, anche se in gradi diversi, è partecipe della bellezza, perché in tutta la realtà c’è l'impronta di Dio. Infatti, san Tommaso sostiene che siamo noi che spesso non siamo in rapporto giusto con la realtà, perché altrimenti ne coglieremmo la bellezza. È un po' quello che scopre un genitore quando guarda il figlio.           Ne Il piccolo principe si racconta di una rosa che il protagonista ha con cura innaffiato sul suo pianeta. Quando il principe arriva sulla Terra e scopre che ci sono altre rose, si sente un po' tradito perché prima era convinto che la sua fosse la sola rosa e che per questo fosse bellissima. Ma poi si rende conto che ci sono tantissime rose. La volpe lo porterà a riconoscere che la rosa è bella ed unica perché lui le ha dedicato del tempo. Quindi, esiste una realtà bella che affascina, ferisce e muove, ma esiste anche la bellezza della realtà, che noi cogliamo solo quando siamo legati affettivamente a quell’aspetto del reale, cioè quando ci facciamo colpire (la parola «affetto» deriva dal latino «afficior» che significa «sono colpito»).
Giovanni Fighera
Versione app: 3.25.0 (f932362)