Gli uomini credono molto a ciò che li divide e molto poco a ciò che li unisce.
del 04 marzo 2009
Gli uomini credono molto a ciò che li divide e molto poco a ciò che li unisce.
Così ci si dimentica, tra l’altro, del fatto che tutti, dalla nascita, cerchiamo la luce. Non una qualsiasi illuminazione artificiale, bensì la luce della vita, quella che le dà la sua giusta prospettiva. Se ne intravediamo anche solo un filo, non possiamo lasciare la luce a distanza.
Bisogna seguirla. Ma si può credere all’invito della luce? È difficile per noi finché diventare adulti significa diventare spenti. Per noi, che abbiamo in un’intera vita solo brevi momenti di vera coscienza. Cerchiamo la luce in modo oscuro, per vie sbagliate. Ma la luce esiste, ci attrae. È più di una metafora. È la forma di presenza inafferrabile e magnetica di ciò che è origine, meta, senso, bene, guida, forza d’incontro, di comprensione, comunione. Di questo suo valore essenziale abbiamo esperienza in molte situazioni. Quando si riesce a dare consolazione vera, anche piccola, a chi sta nella sofferenza. Quando nel cuore del tragico sorge il lampo dell’umorismo. Quando si inverte una tendenza, per cui dove c’era l’egoismo, subentra la solidarietà, dove regnava la violenza, fiorisce la pace. Quando, benché si sia sopraffatti dal delirio della persecuzione, l’amore resiste e canta. «Ora la morte è un fiore di pazienza», ha scritto il poeta ebreo ungherese Miklós Radnóti, prima di essere ucciso giovanissimo in un campo di concentramento nazista nel 1944. O ancora, quando nella vittima di un disegno omicida affiora non lo spirito di vendetta, ma il desiderio della luce. Aldo Moro, nell’ultima lettera a sua moglie, prima di essere ammazzato dai molti che ne decisero la morte sacrificale, scrive: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Non sono casi sparsi. C’è una soglia in cui tutti siamo attesi a occhi aperti. E’ lì dove, per la prima volta, riconosciamo nell’estraneo un volto di fratello o di sorella. Lì risplende la luce dell’umanità. Per questo Emmanuel Lévinas ricorda che l’etica è un’ottica, cioè la visione di ogni altro come di un essere prezioso e unico. Vedere in ognuno un valore infinito, oltre i ruoli, le convenienze, i meriti, le colpe: ecco l’inizio della coscienza.
C’è una specie di segreta orfanità universale che non viene avvertita, credendo noi di essere ciascuno separato dagli altri e geneticamente legato solo ai propri genitori. L’orfanità, sebbene irriconosciuta, comporta sempre la tentazione di rassegnarsi a vivere nel buio, confidando al massimo nella luce artificiale e trasalendo di angoscia a ogni dilagare della notte. Invece l’orfanità assunta lucidamente, come ha colto Albert Camus, è in rivolta. Non cerca anestetici, cerca la luce di una comunità originaria, futura, vera e si ribella a tutto ciò che la nega. Anela alla luce di una comunione che risale al mistero gioioso dell’amore creatore di Dio. O almeno alla luce di una comunione di creature che finalmente hanno imparato a onorare ogni volto senza più cedere agli oscuramenti del male. Perciò si deve seguire la luce sì personalmente, ma non da soli. Bisogna imparare a farlo insieme agli altri. «La conoscenza non ha altra luce se non quella che emana dalla redenzione sul mondo», ha scritto Theodor Adorno. È la conoscenza che si schiude grazie alla fedeltà verso colei cui siamo stati affidati nascendo. E se non si può spiegare la luce, però la si deve seguire e solo allora, lì dove ci porta, si comincia a capire e a ringraziare.
 
Roberto Mancini
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