"Le grida dei bambini, i loro giochi, le loro risate e le loro zuffe riecheggiano tra le mura della missione come i battiti di un cuore"...
del 12 ottobre 2017
"Le grida dei bambini, i loro giochi, le loro risate e le loro zuffe riecheggiano tra le mura della missione come i battiti di un cuore"...
Marco Acciarri, giovane studente di statistica, ogni anno parte per una meta straniera, col desiderio di aiutare ed esplorare nuovi paesi. Quest’estate è stato in Madagascar.
Come è nata l’idea di fare volontariato in Africa?
Nel triste inverno milanese, una sera di dicembre, seduto su una confortevole sedia IKEA, mi sono trovato a sognare mete esotiche per la mia estate. “Dove voglio andare in vacanza ad agosto?”. Spesso ci poniamo le domande sbagliate. Così ho iniziato a pensare che forse non avevo davvero bisogno di vacanze. Sposto dunque la ricerca su un lavoro estivo, magari in una località marittima, per guadagnare qualcosina. Ma ancora non mi sentivo soddisfatto. Ecco allora che riflettendo è giunta un’illuminazione: “Voglio diventare un lavoratore volontario!”. D’altronde la vita da studente universitario è uno spasso, un po’ di fatica a servizio dei più bisognosi può essere una sfida interessante. Inoltre ci tengo ad aiutare i poveri. Si parte per l’Africa pensando di andare ad aiutare gli altri, ma si ritorna realizzando che in fondo siamo noi ad aver bisogno dell’aiuto dell’Africa.
Come hai trovato la missione giusta per te?
Attraverso siti, conoscenze e volantini ho trovato la congregazione cattolica del don Orione e, in particolare, le loro missioni in Madagascar. All’inizio ho avuto diverse perplessità, avrei preferito intraprendere un viaggio laico, ma il programma del loro campo estivo mi ha convinto: proponevano una miriade di attività, quali giardinaggio, educazione scolastica, muratura, idraulica e animazione per bambini, profumavano tutte di sudore. Un pizzico di turismo ha reso la proposta definitivamente appetibile. E allora che si fa… andiamo?!
E cosa hai provato appena hai messo piede in Madagascar?
L’impatto con la terra malgascia e il suo popolo è duro, ma necessario. Baracche di mattoni e laminato grandi come camera tua in cui vivono dieci persone, donne che lavano i panni in un canale nero usato come discarica, bambini scalzi e malvestiti che ti corrono incontro in cerca di un abbraccio o una foto con “il vazaha!”, mercati troppo affollati costruiti da bancarelle traballanti e merce improvvisata. La miseria, il degrado, la sporcizia e il ritmo di vita così differente dei malgasci ti lascia spesso attonito e spaventato, ma è lasciandoti avvolgere dalla loro dimensione che ti accorgi della loro spensieratezza; le loro giornate sono scandite da poche attività, l’unica preoccupazione è rimediare almeno un pasto, per poi attendere la sera e il giorno che verrà.
Parlaci della missione in cui hai lavorato.
Abbiamo attraversato Antananarivo, la capitale, facendoci largo tra carretti, zebù, poliziotti sopraffatti dal traffico e un’infinità di passanti. È così che si arriva alla missione orionina di Anatihazo, uno dei quartieri più poveri della città. Come posso descrivere la missione… Una chiesa? Una scuola? Un oratorio? Un centro di formazione professionale? Una mensa per i poveri? Un dispensario medico? Un centro di aiuto e ascolto? Un po’ tutte queste cose, ma anche molte altre. In sostanza è un luogo aperto a tutti, in particolare ai bambini, l’unica cosa che il Madagascar ha in abbondanza. Le loro grida, i loro giochi, le loro risate e le loro zuffe riecheggiano tra le mura della missione come i battiti di un cuore.
Veniamo alle cose pratiche: com’era organizzata la tua giornata?
Curiosità tipicamente “milanese”. Parlare di organizzazione mi fa scappare un sorriso che anticipa la mia risposta. Ci si sveglia molto presto, il lavoro e di conseguenza la vita si muovono con il sole: verso le 6.30 è già orario di colazione, un bel piattone di riso per fare il pieno di energie e alle 7 si comincia con un qualsiasi lavoro tra i mille necessari a rendere più dignitose le condizioni di vita dei nostri fratelli malgasci. Caricare il camion con legni e lamiere utili per ristrutturare il tetto di qualche edificio, spingere carriole cariche di ghiaia e mattoni per i pavimenti, applicare le nuove piastrelle per coprire le modernissime tubature della mensa scolastica, istruire gli insegnanti delle elementari mediante corsi di aggiornamento su giochi e lavoretti per bambini
Il Madagascar ti avrà regalato sensazioni indelebili. Raccontaci un’esperienza che poterai sempre con te.
Le sensazioni più forti, quelle che preferisco condividere, sono legate all’ospitalità. Era una domenica mattina, ci trovavamo nella missione di Faratsiho situata a circa 300 km a sud dalla capitale, in piena campagna collinare. Dopo una messa relativamente breve per gli standard africani – circa due ore di balli, canti e preghiere – seguita da un pranzo relativamente cospicuo per gli standard africani – un piatto di riso accompagnato da un piatto intero di verdure e due pezzi di carne –, ci incamminiamo con don Rinja per i campi sconfinati, sotto il sole cocente, alla ricerca di una casa da benedire. Percorriamo all’incirca 9 km e, grazie alle indicazioni dei contadini e dei pastori, raggiungiamo stremati una piccola casetta di mattoni e legna, non ancora ultimata, costruita ai piedi di una collina. Ci attendono pochi operai, figli e parenti del proprietario, ma in un batter d’occhio veniamo accerchiati da tutta la famiglia, venuta ad accoglierci e a pregare per la benedizione. Conclusi i riti necessari – un’ora di preghiera, fondamentale per i futuri inquilini – ci obbligano con sorrisi, abbracci, gesti e note musicali della lingua malgascia a entrare. Saliamo al primo piano su una scala di legno improvvisata – dal loro punto di vista sicuramente progettata al meglio – perché al pian terreno le stanze ospitano ancora cemento e calce. In quel momento ho realizzato il vero significato dell’ospitalità, condividere anche della povertà: il capostipite, dopo averci fatto accomodare a un tipico tavolo di dimensioni malgasce – vi ricordo che l’altezza media è 1.60 m – ci offre pane e succo d’ananas raccolto appositamente per noi. Raccolto e non spremuto perché non hanno modo di frullare l’ananas, devono quindi schiacciare le fette più morbide su un vassoio e versare il succo all’interno di bottiglie di plastica riutilizzate, sacrificando così ciò che in fin dei conti corrisponde a più di un loro pasto dato il costo del dolcissimo frutto.
Hai altri viaggi in programma?
Io penso che la gioia di vivere derivi dall’incontro con nuove esperienze. Non esiste sfida più soddisfacente dell’avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso. In Africa si dice: “Ciò che non hai mai visto, lo trovi dove non sei mai stato… andiamo?!”.
Susanna Ciucci
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