Lo sguardo della sconosciuta ti resta addosso ‚Äì saremo tutti, pensi, un mattino come lei, nel cuore della notte presi e ribaltati, le nostre certezze dissolte. Allora quando dopo poco incontri il medico che aspettavi ti lasci sfuggire ciò che davvero hai in mente: «Vedi ‚Äì gli dici ‚Äì è che non tollero più di vedere il dolore»
del 21 settembre 2010
 
          Il reparto dell’ospedale brianzolo è vecchio ma chiaro, pulito, indaffarato in una efficienza padana. Alle otto del mattino gli inservienti lavano i corridoi in un allargarsi di odore di ammoniaca; le infermiere girano coi carrelli delle medicine, assorte e attente a preparare le dosi.
          Passa un medico, nei corridoi lo apostrofano con un buongiorno cordiale – come fosse, la sua, una faccia benvoluta e fidata. Qui, pensi, di malasanità nemmeno l’ombra. Tutto va come deve andare, i pazienti tranquilli nelle camere che il cielo del mattino di settembre riempie di luce bianca.
          Sì, nell’ospedale alle porte di Milano tutto va, pare, nel migliore dei modi. Ma nell’ingresso c’è su una barella una paziente appena scaricata da un’ambulanza, in attesa del ricovero. È anziana, molto pallida, ha i capelli grigi sciolti sul cuscino in una trasandatezza che certo non le è abituale; nell’abbandono del decoro abituale leggi l’ora della sofferenza, quando alle cose da poco non si bada. La donna, la cannula dell’ossigeno nel naso, respira con un po’ di fatica. Ha una infermiera accanto, non è sola; ma è lo sguardo, lo sguardo che ti butta addosso dai suoi occhi scuri, che nella quiete ordinata del piccolo ospedale ti ferisce e ti taglia.
          È lo sguardo di una che ieri sera è andata a dormire tranquilla come ogni altra sera; e poi, che cosa è stato? Un sussulto del cuore, come si fosse inceppato d’improvviso, o il respiro che manca mentre i polmoni si affannano inutilmente ad allargarsi? La vecchia sulla barella ha l’aspetto di una sfollata, di una che un terremoto abbia buttato fuori di casa nella notte; incredula ancora di quello sfratto dalla proprie abituali care cose, e con negli occhi un filo sottile di educata ma spaventosa inquietudine.
          Lo sguardo della sconosciuta ti resta addosso – saremo tutti, pensi, un mattino come lei, nel cuore della notte presi e ribaltati, le nostre certezze dissolte. Allora quando dopo poco incontri il medico che aspettavi ti lasci sfuggire ciò che davvero hai in mente: «Vedi – gli dici – è che non tollero più di vedere il dolore». Lui, che ha una certa età e i capelli grigi, annuisce – conosce bene il problema. Tace un momento, poi – come continuando un discorso fra voi già cominciato, anche se vi conoscete appena – risponde: «Ma, sai, io penso spesso al san Tommaso di Caravaggio, quello che mette le dita nelle piaghe del costato di Cristo, e solo allora crede. Dopo una vita da medico sono arrivato a chiedermi se non è proprio il vedere e toccare la ferita – quella degli uomini, che è quella di Cristo – ciò che ci apre gli occhi; se non è proprio attraverso il dolore che finalmente riconosciamo Cristo fra noi».
          Ora stai zitta. A quella valenza delle dita di Tommaso dentro la piaga non avevi pensato mai. E ti sembra bello adesso questo ospedale dove un medico guarda così agli uomini e al loro male. Lo sguardo sbalordito della donna sulla barella, i suoi lunghi capelli grigi scomposti, come una nostra comune ferita di cui taciamo sempre; fino a quando, dopo tutta una vita, una mattina il nostro sguardo si fa pura, inerme domanda.
L'articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola 
Marina Corradi
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