La matematica dovrebbe insegnare l'arte di esporre con chiarezza le nostre idee riducendo al minimo le incomprensioni e gli equivoci, piuttosto che l'arte di convincere gli ascoltatori che le nostre idee sono buone; dovrebbe in fondo, insegnare a essere buoni testimoni piuttosto che buoni avvocati...
del 11 novembre 2010
            La matematica è forse la scienza meno adatta ad essere divulgata. Mentre il pubblico conosce bene o male qualcosa sulle scoperte avvenute in questo secolo e riguardanti la fisica, la chimica, la biologia, ben pochi saprebbero citare una sola scoperta matematica. Vi è anzi una certa tendenza a considerare la matematica una scienza statica, in cui nulla si crea e nulla si distrugge.
 
            In realtà è vero che l’innovazione in matematica è molto meno «distruttiva» che in altri campi, per esempio i teoremi di Pitagora, Talete, Euclide, Archimede restano sempre validi e interessanti anche se varia col tempo il linguaggio con cui sono esposti e si è andato sempre allargando il quadro in cui si sono presentati.
            Tuttavia, l’ammirazione per gli antichi non deve impedire una uguale ammirazione verso i grandi matematici moderni; per esempio questo è stato il secolo degli spazi a infinite dimensioni e dei teoremi di indecidibilità di Gödel. Questi ultimi teoremi possono essere visti in chiave pessimistica come prova dei limiti e delle debolezze della ragione umana, ma possono essere anche visti in chiave ottimistica come segno dell’inesauribile bellezza e grandezza delle realtà che l’uomo tenta di esplorare.
            Penso che una buona divulgazione matematica dovrebbe comunicare un po’ di quest’ottimismo, far capire che ci si può rallegrare anziché rattristare constatando che i problemi da risolvere sono infinitamente più numerosi dei problemi risolti.
            Forse il modo per rendere attraente la divulgazione matematica sarebbe quello di parlare dei problemi ancora insoluti; per esempio nel campo della matematica applicata o applicabile, si potrebbero segnalare molti problemi dell’analisi non lineare che corrispondono a situazioni concrete in cui non vi è proporzionalità tra cause ed effetti, ma anzi cause piccolissime possono produrre effetti grandissimi.
            La matematica dovrebbe insegnare l’arte di esporre con chiarezza le nostre idee riducendo al minimo le incomprensioni e gli equivoci, piuttosto che l’arte di convincere gli ascoltatori che le nostre idee sono buone; dovrebbe in fondo, insegnare a essere buoni testimoni piuttosto che buoni avvocati.
            Per quanto riguarda la matematica applicata, i suoi rapporti con le altre discipline scientifiche, tecniche, artistiche dovrebbero essere caratterizzate dall’attenzione unita al rispetto per l’autonomia di ciascuna. Il matematico può trarre ispirazione dalle scienze sperimentali, dalla tecnica, dalle arti, ma deve poi sviluppare con la massima libertà queste ispirazioni secondo lo spirito proprio della matematica.
            La stessa libertà devono avere coloro che si servono della matematica nello scegliere il modello matematico più adatto alla soluzione dei loro problemi e nel cambiare anche i modelli più celebri e più apprezzati della letteratura scientifica quando l’esperienza dimostra che sono inadeguati. Credo che in fondo la piena comprensione dei rapporti tra matematica e altre forme del sapere potrebbe offrirci molte ragioni per apprezzare l’originalità delle varie discipline contro ogni forma di riduzionismo (per esempio meccanicismo, storicismo ecc.) e contro una specializzazione esasperata che nega di fatto il loro comune valore sapienziale.
            Un altro aspetto interessante della matematica è lo stretto collegamento che esiste tra teorie più o meno «astratte» ed esempi più o meno «concreti». Per fare della buona matematica occorre muoversi con molta facilità tra le une e gli altri senza illudersi di poter tracciare una netta linea di divisione tra «concreto» e «astratto». Questa impossibilità dovrebbe essere tenuta presente da coloro che «si servono» della matematica e vorrebbero apprendere solo la «matematica che serve».
            Essi hanno ragione quando chiedono un maggiore interesse di chi insegna matematica ai loro problemi, una presentazione della matematica più adatta alla loro mentalità, hanno torto se chiedono un semplice elenco di «formule utili» non collegate fra loro in un sistema coerente.
            In fondo la forza meravigliosa della matematica e il suo valore sapienziale consistono proprio nella capacità di collegare tra loro oggetti apparentemente lontanissimi, di mostrare che gli stessi principi governano il più banale conto della spesa e i più complicati calcoli di orbite celesti, che i più sicuri e concreti calcoli dell’ingegneria sono fondati sull’analisi infinitesimale, cioè sui concetti arditissimi di infinito e di infinitesimo, che vi sono singolari relazioni tra i principi che governano i giochi dei dadi e delle carte e i più grandiosi fenomeni della fisica e dell’astronomia.
            Da questo punto di vista, pur ammirando il genio di Einstein, non concordo con la sua frase «Dio non gioca ai dadi». Se pensiamo che l’intelligenza umana è pur sempre un’immagine, sia pure pallida e ridottissima, della Sapienza divina, non dovremmo avere troppa difficoltà a pensare che Dio non disprezzi nemmeno quelle opere dell’ingegno umano che sono il calcolo delle probabilità o la teoria dei giochi.
            L’incontro di concretezza e astrazione nella matematica, oltre che interessare gli «utenti» della matematica, può interessare anche i filosofi, ai quali offre un ampio campo per confrontare le loro idee su ciò che deve intendersi con le parole «concreto», «astratto», «reale», «ideale», «potenziale», «attuale». In particolare, segnalerei l’uso corrente delle parole «esiste» ed «esistenza» in matematica e in logica, e penso che forse in matematica la parola «esistenza» ha un significato più largo che in altre discipline.
            Probabilmente sono molte analogie che ancora dovrebbero essere approfondite fra lo studio dei fondamenti della matematica e quello dei fondamenti della metafisica e della teologia naturale.
            Forse la riflessione su queste analogie potrebbe aiutare nell’elaborazione di una metafisica e di una teologia che tengano presenti le debolezze della ragione umana ma non ne dimentichino la forza e la grandezza e sappiano che contraddizioni e paradossi possono essere meglio superati mediante teorie «di tipo positivo» piuttosto che «di tipo negativo».
            Più in generale, possiamo dire che la matematica offre infinite occasioni per meditare, con Pascal, sulla grandezza e la miseria umane, per evitare di cadere nelle opposte tentazioni dell’orgoglio e della disperazione.
Ennio De Giorgi
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