Si sentiva quasi aria di primavera il giorno in cui avrebbe dovuto giocare, nel campo di Halifax, la sua prima partita proprio da professionista. Ma quel 4 aprile 2004, quello che doveva essere il giorno più bello della sua vita, si trasformò in tragedia.
del 13 gennaio 2010
 
 
Matt King era un ragazzo pieno di vita che aveva appena coronato un suo sogno. Quello di diventare giocatore professionista di rugby nella squadra giovanile della London Broncos Accademy.
  
Si sentiva quasi aria di primavera il giorno in cui avrebbe dovuto giocare, nel campo di Halifax, la sua prima partita proprio da professionista. Ma quel 4 aprile 2004, quello che doveva essere il giorno più bello della sua vita, si trasformò in tragedia.
Dopo soli 20 secondi dall’inizio del gioco, sotto il peso di un avversario, Matt non ha neppure il tempo di accorgersi di essere entrato in uno stato comatoso. Riprende i sensi durante il viaggio di trasporto in elicottero verso Leeds, e immediatamente percepisce l’esito devastante dell’incidente: paralisi totale. Gli infermieri gli chiedono di muovere le dita dei piedi e lui viene assalito da una sensazione di terrore. Urla di lasciarlo morire perché già immagina un futuro d’inferno e una vita non più degna di essere vissuta.
Giunto a Leeds, i medici non possono che confermare il tragico verdetto: la spina dorsale è irrimediabilmente compromessa al punto da immobilizzare il corpo dal collo in giù. Gli spiegano che la sua situazione è pressoché identica a quella dell’attore Christopher Reeve, il Superman cinematografico, paralizzato a causa di una caduta da cavallo nel 1995 e che sarebbe morto di lì a poco dall’incidente di Matt King, nell’ottobre del 2004.
Trasferito allo Stoke Mandeville Hospital, centro specializzato per le patologie alla spina dorsale, Matt trascorrerà lì nove mesi. Quel periodo, che lui definirà di assoluta desolazione («bleak time») non si rivelerà, però, inutile. Per sua stessa ammissione, il ragazzo percepisce che debba esistere, comunque, un senso a tutto ciò che gli è accaduto, e decide che anche lui, pur totalmente paralizzato e costretto a vivere attaccato ad un respiratore, può essere capace in una «meaningful life», una vita piena di significato.
Per raggiunger questo obiettivo Matt intuisce di aver bisogno di un’istruzione.
Così, decide di studiare e di frequentare la facoltà di giurisprudenza all’università, perché, con un pizzico di autoironia, spiega a tutti che «con la legge non bisogna usare nient’altro che il cervello».
Per quale motivo ho deciso di parlare di questa storia? Semplicemente perché Matt King, dopo aver frequentato in questi anni l’Università di Herthfordshire, lo scorso 27 novembre ha ricevuto il diploma di laurea con il massimo dei voti e con lode, durante una cerimonia tenuta presso la Cattedrale di St. Albans. Grazie alle sue capacità, ha già ottenuto l’offerta di entrare in uno dei più prestigiosi studi legali di Londra, tra due anni, dopo che avrà ultimato il “practice course” all’università. Ora è assistito da due accompagnatori a tempo pieno e da un assistente che scrive per lui.
La sedia a rotelle ed il respiratore artificiale non hanno rappresentato un ostacolo neppure in altre imprese di Matt, tra cui quella di essere stato il primo quadriplegico a completare la maratona di New York in sei ore e mezzo, e di raccogliere nell’occasione 10.000 sterline per opere di beneficenza. E’ anche diventato mentore del Back-Up Trust, un’organizzazione non-profit che ha lo scopo di aiutare coloro che sono affetti da gravi malattie alla spina dorsale.
Matt King non è l’unico esempio di chi è riuscito a vincere le avversità sottraendosi alla disperazione.
Matt Hampson, ad esempio, un altro ex giocatore di rugby completamente paralizzato a seguito di un incidente, è stato capace di creare un sito web, di scrivere un’autobiografia e di fondare un’associazione per bambini disabili denominata SpecialEffect. Mi hanno colpito le sue parole pronunciate l’anno scorso: «Io non ho una brutta vita, vivo una vita semplicemente diversa». Giocando sulle parole, ha anche aggiunto: «Uso il mio cervello (“brain”) più del mio midollo spinale (“brawn”). Mi ha aiutato ad essere una persona più riflessiva. Ora penso molto di più». Matt Hampson è dovuto crescere più in fretta e fa cose che normalmente i suoi coetanei ventenni non fanno.
La testimonianza vivente di questi ragazzi è la migliore risposta a tutte le polemiche che continuano a ruotare intorno al tema drammatico del suicidio assistito in Gran Bretagna.
E’ rispetto alla capacità di dare un senso all’esistenza, che si gioca, in realtà, la scelta di vivere o morire. Così, di fronte al mistero che ti inchioda a condizioni esistenziali drammatiche, si può reagire come ha fatto Matt King o come ha fatto Daniel James, un altro giovane giocatore paralizzato da un incidente di rugby, che l’anno scorso, a soli 23 anni, ha deciso – grazie all’ambigua e compiacente normativa britannica – di ricorrere al suicidio assistito presso la famigerata clinica svizzera Dignitas.
Se la vita, come scriveva Shakespeare nel suo Macbeth, non è altro che «una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore», priva di senso e di significato, allora quando le circostanze la rendono quasi invivibile, la soluzione più comoda resta quella di una “easy way out”, di un’agevole via d’uscita. La più efficace definizione di eutanasia.
Matt King, invece, ha compreso che la vita è una cosa seria: seria di fronte all’universo (perciò ha un compito) e seria di fronte al destino (perciò ha un significato ultimo da raggiungere).
Se non avesse compreso tutto questo, anche lui avrebbe corso il rischio di comprare un biglietto senza ritorno per la Svizzera.
Gianfranco Amato
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