La diagnosi di Sla, la tentazione di suicidarsi, la «scoperta» della bellezza di esistere. Melazzini è un medico e un uomo di successo, quando nel 2002 si ammala di Sla, una terribile malattia degenerativa che man mano paralizza tutti i muscoli. «Una fortuna», un «valore aggiunto», è proprio la Sla che è entrata in lui e gli ha aperto gli occhi a nuove verità.
del 26 settembre 2011
 
          «La diagnosi di Sla mi arrivò come una sentenza definitiva. E il modo in cui mi venne comunicata fu per me, medico, destruens: 'Caro Melazzini, lei ha la Sclerosi laterale amiotrofica e io mi fermo qui'. In quel momento mi scontrai con l’impotenza della Medicina, la scienza che tanto amavo e cui pensavo di aver dato molto...».            È una delle pagine tra le tante intense di Io sono qui (editrice San Paolo, 19,50 euro libro + dvd), il libro testimonianza scritto da Mario Melazzini nella duplice veste di medico e malato, venduto in cofanetto insieme all’altrettanto intenso documentario del regista Emmanuel Exitu.           È un medico e un uomo di successo, Mario Melazzini, nel 2002, quando a 44 anni si ammala di Sla, una terribile malattia degenerativa che man mano paralizza tutti i muscoli e si porta via la capacità di camminare, deglutire, parlare, infine respirare. Ma ti lascia lucido fino all’ultimo istante di vita. Melazzini reagisce nel modo più comprensibile: «Inizialmente dissi no, volevo morire, pensai al suicidio assistito». Il fatto è che allora «pensavo e ragionavo secondo quello che io chiamo 'il tema del benpensante'», per il quale la vita, certa vita, non è più degna di essere vissuta.           Ascoltare Melazzini che parla, così come «leggerlo, è un’esperienza che si augura a tutti, sani e malati. Soprattutto sani. Di quelle che lasciano il segno. «Io non ho mai sentito dire a dei malati che hanno provato sulla loro pelle determinate situazioni 'non voglio che mi sia fatto questo trattamento, voglio morire a tutti i costi'. Queste sono invece le esigenze dei sani, i quali pensano che trovarsi in certe situazioni sia incompatibile con una vita degna di essere vissuta. Guardo a me stesso che dopo la diagnosi volevo suicidarmi. E pensare che a quel tempo giravo solo con una stampella...».           Quella che Melazzini chiama «una fortuna», un «valore aggiunto», è proprio la Sla che è entrata in lui e gli ha aperto gli occhi a nuove verità.Innanzitutto all’amore per la vita: «Grazie alla malattia, vivo ogni giorno come uomo, come medico e come malato, con gioia e umiltà, l’infinita bellezza dell’esistere». E poi a una diversa cognizione del suo ruolo di medico: «L’essere stato colpito da una malattia grave e invalidante mi permette, nella mia duplice veste di medico e di paziente, di avere accesso a un sapere unico, cioè a quella sintesi di scienza e sofferenza che solo da medico ammalato ho potuto portare a termine». Scopre che la malattia inguaribile non è però incurabile, sa ora quanto l’incontro fecondo tra la disponibilità ad ascoltare del medico e la fiducia del malato generino la vera alleanza terapeutica.E oggi può parlare alla prima persona plurale ponendosi sui due fronti della barricata: «Noi medici non ci rendiamo conto di quanto noi pazienti siamo estremamente vulnerabili nei loro confronti». Una vulnerabilità che all’inizio lo aveva indotto a rivolgersi ad altri Paesi europei, dove eutanasia e suicidio assistito «sono procedure depenalizzate, oserei dire autorizzate». Se non caldeggiate. Parte la email per il Canton Ticino. «Mi risposero quasi subito. I miei requisiti erano appropriati, quindi accettabili. Potevo iniziare a preparare le pratiche per la mia morte...».           Una sollecitudine che raggela Melazzini e gli fa chiedere se è davvero questo ciò che vuole. Poi la fuga in montagna in solitudine e un bel giorno la guarigione interiore, anche grazie alla Sla: «Può succedere che una malattia che mortifica il corpo possa essere una vera medicina per chi deve forzatamente convivere con essa».Lucia Bellaspiga
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