Le Memorie dell’Oratorio di San Giovanni Bosco
PRESENTAZIONE
Quando aveva 58 anni, per ordine di Pio IX, Don Bosco dovette scrivere la storia dei primi quarant'anni della sua vita. Oggi questo prezioso testo è riproposto integralmente. É solo stata ritoccata la lingua: l'italiano popolare del 1800 viene trascritto nell'italiano popolare di oggi. [San Giovanni Bosco, Memorie. Trascrizione in lingua corrente di Teresio Bosco, Elledici, Leumann 1985]
INDICE:
LA VITA MARCHIATA DA UN SOGNO (1815 – 1825)
- La fame e il sogno
GLI ANNI FAVOLOSI (1825 – 1835)
- Giovanissimo saltimbanco
- Incontri
- Quando morì la speranza
- Tanta strada per andare a scuola
- A Chieri tre classi in un anno
- La società dell’allegria
- I giorni dell’allegria e della disciplina
- Incontro con Luigi Comollo
- Avvenimenti piccoli e grandi
- Un amico ebreo, Giona
- Magia bianca
- Le olimpiadi di Giovanni Bosco
- Fame di libri
- Che cosa farò della mia vita?
IL CAMMINO DI UNA GRANDE IDEA (1835 – 1845)
- Veste nera
- Il viatico di mamma Margherita
- Tarocchi in seminario
- Vacanze
- Giorni liberi sulle colline del Monferrato
- Notizie dall’al di là
- Le parole col nocciolo di don Borel
- Curvo sulle pagine bianche
- Prete per sempre
- Quando il cavallo s’imbizzarrì
- Imparare ad essere prete
- «Ho 16 anni e non so niente»
- Il primissimo oratorio
- La volontà di Dio indica Valdocco
- Un sogno che ritorna
- Nella casa della Marchesa
- L’Oratorio sfrattato
- Fallimento a San Pietro in Vincoli
- Tre stanze e uno sfratto a primavera
- Un oratorio che ha per tetto il cielo
- Testa a testa con Cavour
- Dopo il marchese, la marchesa
- La tettoia dove cominciò tutto
L'ALBERO CRESCE ED ESTENDE I RAMI (1846 – 1856)
- Una giornata dell'Oratorio
- Re Carlo Alberto salva l'Oratorio
- Anche gli analfabeti hanno diritto alla scuola
- La notte in cui don Bosco doveva morire
- Ritorno con Mamma Margherita
- Il primo «gruppo giovanile»
- Il primo orfano arriva dalla Valsesia
- Il secondo oratorio
- 1848, un anno difficile
- Lezioni coraggiose di vita cristiana
- 1849. Trentatré lire per Pio IX
- «Voglio tenermi fuori dalla politica»
- Preti e giovani se ne vanno
- Il peso della solitudine
- Comprare una casa e affittare una bettola
- Una chiesa e una lotteria
- «Guai a Torino il 26 aprile!»
- Un terribile crollo nella notte
- 1853. Nascono le «Letture Cattoliche»
- 1854. A tu per tu con i protestanti
- Congiurati balordi al «Cuor d’oro»
- «Volevano farmi la festa»
- Il Grigio 2
LA VITA MARCHIATA DA UN SOGNO (1815 - 1825)
1. LA FAME E IL SOGNO
Papà e mamma erano contadini
Sono nato nel giorno in cui si festeggia la Madonna Assunta in Cielo. Era l'anno 1815. Vidi la luce a Morialdo, frazione di Castelnuovo d'Asti.
Mio papà si chiamava Francesco, mia mamma Margherita Occhiena. Erano contadini. Si guadagnavano onestamente il pane della vita con il lavoro. Tiravano avanti evitando ogni spesa inutile.
Mio papà, quasi solo con il lavoro delle sue braccia, procurava da vivere a sua mamma settantenne, tribolata dagli acciacchi della vecchiaia, e a noi, suoi tre figli. Il più grande era Antonio, che egli aveva avuto dal suo primo matrimonio. Il secondo si chiamava Giuseppe. Il più giovane ero io, Giovanni. Vivevano nella nostra casa anche due lavoranti, che aiutavano mio padre nei campi.
La febbre si porta via papà
Non avevo ancora due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con una grave sventura. Mio papà era nel pieno delle forze, nel fiore degli anni, ed era impegnato a darci una buona educazione cristiana. Un giorno, tornando dal lavoro madido di sudore, scese senza pensarci nella cantina sotterranea e fredda.
Fu assalito da una febbre violenta, sintomo di una grave polmonite. Fu inutile ogni cura. In pochi giorni la malattia lo stroncò. Nelle ultime ore ricevette i santi Sacramenti e raccomandò a mia madre di avere fiducia in Dio. Cessò di vivere a 34 anni. Era il 12 maggio 1817.
Di quei giorni ho un solo ricordo, il primo ricordo della mia vita: tutti uscivano dalla camera dove mio papà era mancato, ma io non volevo seguirli. Mia mamma mi diceva:
- Vieni, Giovanni, vieni con me.
- Sé non viene papà, non vengo - risposi. - Povero figlio, non hai più papà.
Così dicendo, mamma scoppiò a piangere, mi prese per mano e mi portò fuori. Anch'io piangevo, ma solo perché la vedevo piangere. Per l'età, non potevo capire che grave disgrazia fosse la perdita del padre.
Questo avvenimento gettò tutta la famiglia nella costernazione.
La fame di quell'anno stregato
Le persone che dovevano sopravvivere erano cinque, e proprio quell'anno i raccolti andarono perduti per una terribile siccità. I generi alimentari salirono a prezzi favolosi. Si dovette pagare fino a venticinque lire per un’emina (= 23 litri) di grano, e sedici lire per una di granoturco. Gente che ricorda bene quei tempi, mi ha raccontato che i poveri chiedevano in elemosina un pugno di crusca, per rendere più consistente la scarsa minestra di ceci o di fagioli. Si trovarono mendicanti morti nei prati, con la bocca piena d'erba: l'ultima risorsa con cui avevano cercato di nutrirsi.
Mia madre mi raccontò molte volte che nutri la famiglia dando fondo ad ogni scorta. Poi raccolse il denaro che aveva in casa e lo diede ad un vicino, Bernardo Cavallo, perché cercasse di procurarci dei viveri. Era un nostro amico, si recò a vari mercati, ma non riuscì a combinare niente. Anche offrendo prezzi esorbitanti, non si riusciva a comprare.
L'aspettavamo con ansia. Giunse alla sera del secondo giorno, ma a mani vuote. Ricordo che provammo una grande paura, perché già quel giorno non avevamo mangiato 3 quasi niente. Mia madre provò anche a bussare alle case vicine, per avere in prestito qualcosa, ma nessuno fu in grado di aiutarci. Allora senza perdersi di coraggio ci disse:
- Papà, morendo, mi disse di avere fiducia in Dio. Quindi inginocchiamoci e preghiamo.
Dopo una breve preghiera si alzò e disse ancora: Nei casi estremi si devono usare estremi rimedi.
Con l'aiuto di Bernardo Cavallo andò nella stalla, uccise un vitello, ne fece subito cuocere una parte e ci diede da cena. Eravamo affamati fino allo sfinimento. Nei giorni che seguirono riuscì a far arrivare del grano da paesi lontani, a carissimo prezzo.
Una strana proposta per la mamma
In quella durissima annata, mia madre soffrì e faticò moltissimo. Solo con un lavoro instancabile, una parsimonia continua, un risparmio spinto fino al centesimo, e qualche aiuto veramente provvidenziale, riuscimmo a superare la crisi. Questi fatti mi sono stati raccontati più volte da mia madre, e confermati da parenti e amici.
Passato quel terribile momento e tornata l'economia domestica a un bilancio migliore, mia madre ricevette la proposta di risposarsi in maniera molto conveniente. Ma essa rispose con un costante rifiuto.
- Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto. Morendo egli mi affidò tre figli, e sarei una madre crudele se li dimenticassi nel momento in cui hanno più bisogno di me.
Le fecero notare che i suoi bambini sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto ogni cura. Quella donna generosa rispose:
- II tutore è un amico, io sono la madre dei miei figli. Non li abbandonerò mai, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Le sue preoccupazioni più grandi furono: istruire i figli nella religione, educarli all'obbedienza, crescerli senza paura della fatica e del lavoro.
La prima confessione
Quand'ero ancora molto piccolo, mi insegnò le prime preghiere. Appena fui capace di unirmi ai miei fratelli, mi faceva inginocchiare con loro mattino e sera: recitavamo insieme le preghiere e la terza parte del Rosario.
Ricordo che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore, e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Continuò ad aiutarmi fin quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione.
Leggere, scrivere e lavorare
Intanto ero arrivato al nono anno di età. Mia madre desiderava mandarmi a scuola, ma era molto incerta a causa della distanza. Il paese di Castelnuovo era lontano cinque chilometri. Pensò di mandarmi in collegio, ma Antonio (16 anni) non era d'accordo. Si finì con un compromesso: durante l'inverno frequentai la scuola di Capriglio, un paese vicino, dove imparai a leggere e a scrivere. Mio maestro fu un sacerdote molto pio, don Giuseppe Dallacqua. Mi trattò con molta gentilezza, si prese a cuore la mia istruzione e più ancora la mia educazione cristiana. Nell'estate, per accontentare mio fratello, andai a lavorare in campagna.
Un sogno che spalanca la vita
A quell'età ho fatto un sogno. Sarebbe rimasto profondamente impresso nella mia mente per tutta la vita. Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole.
In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse:
- Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva, e che l'amicizia con il Signore è un bene prezioso.
Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace a parlare di religione a quei monelli.
In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava. Quasi senza sapere cosa dicessi gli domandai:
- Chi siete voi, che mi comandate cose impossibili?
- Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili - rispose - dovrai renderle possibili con l'obbedienza e acquistando la scienza.
- Come potrò acquistare la scienza?
- Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante.
- Ma chi siete voi?
- Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno.
- La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome. - Il mio nome domandalo a mia madre.
In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse:
- Guarda.
Guardai, e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c'era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse:
- Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli.
Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell'uomo e a quella signora.
A quel punto, nel sogno, mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse:
- A suo tempo, tutto comprenderai.
Aveva appena detto queste parole che un rumore mi svegliò. Ogni cosa era scomparsa.
Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avevo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti.
Capo di briganti?
Al mattino ho subito raccontato il sogno, prima ai fratelli che si misero a ridere, poi alla mamma e alla nonna. Ognuno diede la sua interpretazione. Giuseppe disse: « Diventerai un pecoraio ». Mia madre: « Chissà che non abbia a diventare prete ». Antonio malignò: « Sarai un capo di briganti ». L'ultima parola la disse la nonna, che non sapeva niente di teologia, che non sapeva né leggere né scrivere: « Non bisogna credere ai sogni ».
Io ero del parere della nonna. Tuttavia quel sogno non riuscii più a togliermelo dalla mente. Ciò che esporrò in queste pagine dirà il perché.
Non ho mai raccontato in giro queste cose, e i miei parenti le dimenticarono. Ma ecco che nel 1858 andai a Roma per parlare col Papa della fondazione dei Salesiani. Egli volle che gli esponessi minuziosamente ogni cosa che avesse anche solo l'apparenza di soprannaturale. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto tra i nove e i dieci anni. Il Papa mi raccomandò di scriverlo diligentemente, con tutti i particolari. Sarebbe stato - mi disse - un incoraggiamento per i Salesiani.
GLI ANNI FAVOLOSI (1825 - 1835)
1. GIOVANISSIMO SALTIMBANCO
Di statura ero piccolo piccolo
A quale età cominciai a occuparmi dei fanciulli? Me l'hanno domandato tante volte. Posso rispondere che a dieci anni facevo già ciò che mi era possibile, cioè una specie di oratorio festivo.
Ero piccolo piccolo, ma cercavo di capire le inclinazioni dei miei compagni. Fissavo qualcuno in faccia e riuscivo a leggere i progetti che aveva nella mente. Per questa caratteristica, i ragazzi della mia età mi volevano molto bene, e nello stesso tempo mi temevano.
Ognuno mi voleva come suo amico o come giudice nelle contese. Facevo del bene a chi potevo, del male a nessuno. Cercavano di avermi amico perché, nel caso di bisticci nel gioco, li difendessi. Infatti di statura ero piccolo, ma avevo una forza e un coraggio che mettevano timore anche ai più grandi. Cosi, quando nascevano risse, liti, discussioni, io ero scelto come arbitro, e tutti accettavano le mie decisioni.
Racconti nei prati e nelle stalle
Quello che specialmente li attirava intorno a me e li divertiva moltissimo erano i miei racconti. Raccontavo i fatti che avevo ascoltato nelle prediche e al catechismo, le avventure che avevo letto nei Reali di Francia, il Guerin Meschino, Bertoldo e Bertoldino.
Appena gli amici mi vedevano, mi correvano vicino. Volevano che raccontassi qualcosa, anche se ero così piccolo che a stento capivo ciò che leggevo.
Ai ragazzi si aggiungevano sovente parecchi adulti. E così, mentre andavo e tornavo da Castelnuovo, attraverso campi e prati, qualche volta ero circondato da centinaia di persone. Volevano ascoltare un povero ragazzo che aveva solo un po' di memoria. Non avevo nessuna cultura, ma tra loro apparivo come un grande sapiente. Dice un vecchio proverbio: « Nel regno dei ciechi, chi ci vede anche solo da un occhio è proclamatore ».
Nell'inverno, molte famiglie contadine passavano le serate nella stalla (l'ambiente più caldo della casa). Mi invitavano tutti, perché raccontassi le mie storie. Erano tutti contenti di passare una serata di cinque e anche di sei ore ascoltando immobili la lettura dei Reali di Francia. Il piccolo e povero lettore stava ritto sopra una panca, perché tutti potessero vederlo. Curioso il fatto che in giro si diceva: « Andiamo ad ascoltare la predica », perché prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della Croce e recitavamo un'Ave Maria.
« Saltavo e danzavo sulla corda »
Nella bella stagione le cose cambiavano, diventavano più impegnative. Nei giorni di festa i ragazzi delle case vicine e anche di borgate lontane venivano a cercarmi. Davo spettacolo eseguendo alcuni giochi che avevo imparato.
Nei giorni di mercato e di fiera andavo a vedere i ciarlatani e i saltimbanchi. Osservavo attentamente i giochi di prestigio, gli esercizi di destrezza. Tornato a casa, provavo e riprovavo finché riuscivo a realizzarli anch'io. Sono immaginabili le cadute, i ruzzoloni, i capitomboli che dovetti rischiare. Eppure, anche se è difficile credermi, a undici anni io facevo i giochi di prestigio, il salto mortale, camminavo sulle mani, saltavo e danzavo sulla corda come un saltimbanco professionista.
Ogni pomeriggio festivo, spettacolo.
Ai Becchi c'è un prato in cui crescevano diverse piante. Una di esse era un pero autunnale molto robusto. A quell'albero legavo una fune, che tiravo fino ad annodarla a un'altra pianta. Accanto collocavo un tavolino con la borsa del prestigiatore. In terra stendevo un tappeto per gli esercizi a corpo libero.
Quando tutto era pronto e molti spettatori attendevano ansiosi l'inizio, invitavo tutti a recitare il Rosario e a cantare un canto sacro. Poi salivo sopra una sedia e facevo la predica. Ripetevo, cioè, l'omelia ascoltata al mattino durante la Messa, o raccontavo qualche fatto interessante che avevo ascoltato o letto in un libro. Finita la predica, ancora una breve preghiera e poi davo inizio allo spettacolo. Il predicatore si trasformava in saltimbanco professionista.
Eseguivo salti mortali, camminavo sulle mani, facevo evoluzioni ardite. Poi attaccavo i giochi di prestigio. Mangiavo monete e andavo a ripescarle sulla punta del naso degli spettatori. Moltiplicavo le pallottole colorate, le uova, cambiavo l'acqua in vino, uccidevo e facevo a pezzi un galletto per farlo subito dopo risuscitare e cantare con allegria.
Finalmente balzavo sulla corda e vi camminavo sicuro come sopra un sentiero: saltavo, danzavo, mi appoggiavo con le mani gettando i piedi in aria, o volavo a testa in giù tenendomi appeso per i piedi.
Dopo alcune ore ero stanchissimo. Chiudevo lo spettacolo, recitavamo una breve preghiera e ognuno se ne tornava a casa. Dai miei spettacoli escludevo quelli che avevano bestemmiato, fatto cattivi discorsi, e chi si rifiutava di pregare con noi. «Ma per andare alla fiera e ai mercati - mi domanderete -, per assistere agli spettacoli dei prestigiatori, si paga il biglietto. Da dove saltavano fuori i soldi? ».
Me li procuravo in mille maniere. Mettevo da parte le mance, i regali, le piccole somme che mia mamma e altri mi davano nelle feste per comprare le caramelle. Inoltre ero molto abile a catturare uccelli, che vendevo. Andavo a raccogliere funghi, erbe coloranti, erbe medicinali, che poi vendevo.
Mi domanderete ancora: « Ma tua mamma era contenta di saperti ai mercati e alle fiere, di vederti fare il saltimbanco? ». Vi dirò che mia mamma mi voleva molto bene. Io le raccontavo tutto: i miei progetti, le mie piccole imprese. Senza la sua approvazione non facevo niente. Lei sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi, se mi occorreva qualcosa cercava di procurarmelo. Anche i miei amici, quando mi mancava qualcosa per lo spettacolo, me lo imprestavano con piacere.
2. INCONTRI
La prima Comunione
Avevo undici anni quando fui ammesso alla prima Comunione. Conoscevo ormai tutto il catechismo, ma nessuno veniva ammesso alla Comunione prima dei dodici anni. Poiché la chiesa era lontana, non ero conosciuto dal parroco. L'istruzione religiosa me la procurava quasi soltanto mia mamma. Essa desiderava farmi compiere al più presto quel grande atto della nostra santa religione, e mi preparò con impegno, facendo tutto quello che poteva.
Durante la quaresima mi mandò ogni giorno al catechismo. Al termine diedi l'esame, fui promosso, e venne fissato il giorno in cui insieme agli altri fanciulli avrei potuto fare la Comunione di Pasqua.
Durante la quaresima, mia mamma mi aveva condotto tre volte alla confessione. Mi ripeteva:
- Giovanni, Dio ti fa un grande dono. Cerca di comportarti bene, di confessarti con sincerità. Domanda perdono al Signore, e promettigli di diventare più buono.
Ho promesso. Se poi abbia mantenuto, Dio lo sa. Alla vigilia mi aiutò a pregare, mi fece leggere un buon libro, mi diede quei consigli che una madre veramente cristiana sa pensare per i suoi figli.
Nel giorno della prima Comunione, in mezzo a quella folla di ragazzi e di genitori, era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre, al mattino, non mi lasciò parlare con nessuno. Mi accompagnò alla sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento, seguendo le preghiere che il parroco, don Sismondo, faceva ripetere a tutti a voce alta.
Quel giorno non volle che mi occupassi di lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare.
Mi ripeté più volte queste parole:
- Figlio mio, per te questo è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai per conservarti buono tutta la vita. D'ora innanzi vai sovente alla comunione, ma non andarci con dei peccati sulla coscienza. Confessati sempre con sincerità. Cerca di essere sempre obbediente. Recati volentieri al catechismo e a sentire la parola del Signore. Ma, per amor di Dio, stai lontano da coloro che fanno discorsi cattivi: considerali come la peste.
Ho sempre ricordato e cercato di praticare i consigli di mia madre. Da quel giorno mi pare di essere diventato migliore, almeno un poco. Prima provavo una grande ripugnanza a obbedire, ad accettare le decisioni degli altri. Rispondevo sempre a chi mi dava un comando o un consiglio.
C'era un fatto che mi preoccupava: non c'era nessuna chiesa dove potessi andare a pregare o a cantare con i miei amici. Per ascoltare una lezione di catechismo o una predica, dovevo andare a Castelnuovo o a Buttigliera, cioè camminare per dieci chilometri tra andata e ritorno. Questo era anche il motivo per cui molti venivano volentieri ad ascoltare le mie «prediche di saltimbanco ».
Missione a Buttigliera
Ci fu una « missione predicata » nel paese di Buttigliera. Vi andai e potei ascoltare molte conversazioni religiose. Veniva gente da ogni parte, attirata dalla celebrità dei missionari. Ogni sera potevamo ascoltare una lezione sulla religione cristiana e fare una meditazione sulle verità eterne. Poi ognuno tornava a casa sua.
Una di quelle sere tornavo a casa mescolato a molta gente. Tra gli altri, c'era un certo don Calosso, di Chieri, che da poco era venuto come cappellano a Morialdo. Era un prete molto buono, anziano. Camminava tutto curvo, eppure faceva tutta quella strada per ascoltare con noi la « missione ».
Quattro soldi per quattro parole
Vedendomi così giovane (ricordo che ero piccolo di statura, avevo la testa scoperta, i capelli ricciuti, e stavo in silenzio in mezzo agli altri) mi guardò per qualche istante, poi cominciò a parlarmi:
- Di dove sei, figlio mio? Sei venuto anche tu alla missione? - Sì, sono stato alla predica dei missionari.
- Chissà cos'hai capito! Forse tua mamma ti avrebbe potuto fare una predica più opportuna, non è vero?
- E’ vero, mia mamma mi fa sovente delle buone prediche. Ma mi pare di avere capito anche i missionari.
- Su, se mi dici quattro parole della predica di oggi, ti do quattro soldi.
- Vuole che le dica qualcosa sulla prima o sulla seconda predica?
- Ciò che vuoi. Mi bastano quattro parole. Ti ricordi l'argomento della prima predica?
- Sì: la necessità di essere amici di Dio, di non ritardare la propria conversione.
- E che cosa disse il predicatore? - aggiunse il vecchio prete che cominciava a meravigliarsi.
- Ricordo perfettamente. Le recito tutta la predica. Senza difficoltà esposi l'introduzione, poi i tre punti dello svolgimento: colui che ritarda la propria conversione corre il rischio che gli manchi il tempo, la grazia di Dio o la volontà. Don Calosso mi lasciò esporre per oltre mezz'ora mentre camminavamo tra la gente. Poi mi domandò:
- Come ti chiami? Chi sono i tuoi genitori? Hai frequentato molte scuole?
- Mi chiamo Giovanni Bosco. Mio padre è morto quando ero ancora un bambino. Mia madre è vedova con tre figli da mantenere. Ho imparato a leggere e a scrivere.
- Non hai studiato la grammatica latina? - Non so che cosa sia.
- Ti piacerebbe studiare? - Moltissimo.
- Che cosa te lo impedisce? - Mio fratello Antonio.
- Perché tuo fratello Antonio non vuole che studi?
- Dice che andare a scuola vuol dire perdere tempo. Ma se potessi andare a scuola, io il tempo non lo perderei. Studierei molto.
- E perché vorresti studiare? - Per diventare prete.
- E perché vuoi diventare prete?
- Per istruire nella religione tanti miei compagni. Non sono cattivi, ma lo diventeranno se nessuno li aiuta. Io voglio stare vicino a loro, parlare, aiutarli.
Queste mie parole schiette e franche fecero molta impressione su don Calosso, che continuava a guardarmi. Giungemmo così a un incrocio dove le nostre strade si separavano. Mi disse queste ultime parole:
- Non scoraggiarti. Penserò io a te e ai tuoi studi. Domenica vieni a trovarmi con tua madre, e vedrai che aggiusteremo tutto.
La domenica seguente entrai nella sua casa insieme a mia mamma. Si misero d'accordo che mi avrebbe fatto un po' di scuola ogni giorno. Il resto della giornata l'avrei passato lavorando nei campi, per accontentare Antonio. Mio fratello fu d'accordo, perché avrei cominciato le lezioni dopo l'estate, quando il lavoro nei campi non è più urgente.
La sicurezza di avere una guida
Da quando cominciai a recarmi da don Calosso, ebbi piena confidenza in lui. Gli raccontai ciò che facevo, ciò che dicevo, gli confidai persino i miei pensieri. Così egli poté darmi i consigli giusti.
Provai per la prima volta la sicurezza di avere una guida, un amico dell'anima. Per prima cosa mi proibì una penitenza che facevo, non adatta alla mia età. Mi incoraggiò invece ad andare con frequenza alla confessione e alla Comunione. Mi insegnò pure a fare ogni giorno una piccola meditazione, o meglio una lettura spirituale.
Tutto il mio tempo libero, nei giorni di festa, lo passavo con lui. Nei giorni feriali andavo a servirgli la santa Messa ogni volta che potevo. In quel tempo ho cominciato a provare la gioia di avere una vita spirituale. Fino allora avevo vissuto molto materialmente, quasi come una macchina che fa una cosa ma non sa perché.
A metà settembre cominciarono le lezioni di italiano. Studiai tutta la grammatica e mi esercitai nei componimenti. A Natale presi in mano la grammatica latina. A Pasqua cominciai gli esercizi di traduzione dal latino in italiano e dall'italiano in latino.
In tutto questo tempo non ho mai smesso di dare spettacolo sul prato nella bella stagione, e nelle stalle d'inverno. I fatti che mi raccontava don Calosso, e anche le sue parole, servivano ad irrobustire le mie «prediche».
Ero felice. Mi sembrava che ogni mio desiderio fosse appagato. Invece una nuova disgrazia, una grave sofferenza, venne a troncare tutte le mie speranze.
3. QUANDO MORI' LA SPERANZA
Lo studio e la zappa
Durante l'inverno, il lavoro in campagna era ridotto quasi a zero. Antonio permise che studiassi quanto volevo. Venuta però la primavera, cominciò a lamentarsi. Diceva che lui doveva logorarsi la vita in lavori pesanti, mentre io facevo il signorino. Ebbe vivaci discussioni con me e con mia madre. Alla fine, per non rompere la pace in famiglia, decidemmo che sarei andato a scuola il mattino presto. Il resto della giornata l'avrei impiegato nei campi.
Ma come avrei potuto studiare le lezioni e fare le traduzioni? Mi arrangiai così. Andando e tornando da scuola cercavo di studiare. Arrivato a casa, con una mano prendevo la zappa, con l'altra la grammatica. Lungo la strada ripetevo pronomi e verbi. Giunto sul luogo del lavoro, davo un malinconico sguardo alla grammatica, la mettevo in un angolo al sicuro, e insieme agli altri mi mettevo a zappare, a sarchiare, a raccogliere l'erba.
Quando arrivava l'ora della merenda, mi tiravo in disparte. Con una mano tenevo la pagnotta, con l'altra riprendevo la grammatica e studiavo. Stessa cosa tornando a casa. Il tempo del pranzo, della cena, qualche mezz'ora strappata al sonno erano gli unici tempi in cui potevo fare i compiti scritti. Nonostante tanto lavoro e tanta buona volontà, Antonio non era soddisfatto. Un giorno, con tono deciso, disse a mia madre e a mio fratello Giuseppe:
- E’ ora di farla finita con quella grammatica. Io sono diventato grande e grosso e non ho mai avuto bisogno di libri. In uno scatto di dolore e di rabbia risposi:
- Anche il nostro asino non è mai andato a scuola, ed è più grosso di te.
A quelle parole andò sulle furie, e a stento potei evitare scappando una pioggia di pugni e di schiaffi.
Una manciata di giorni felici
Mia mamma era costernata, io piangevo. Don Calosso, informato dei guai che mi stavano capitando in famiglia, mi chiamò e mi disse:
- Giovanni, tu hai avuto molta confidenza in me, e non voglio che rimanga deluso. Lascia quel tuo fratello violento, e vieni a stare con me.
Riferii subito quell'offerta a mia mamma, ed essa ne fu contenta. In aprile cominciai a passare tutta la giornata con il cappellano, tornando a casa solo per dormire.
Avevo una gioia che nessuno può immaginare. Don Calosso era diventato il mio idolo. Gli volevo bene come a un papà, pregavo per lui, lo servivo volentieri in tutto quello che potevo. Avrei voluto fare cose fantastiche per lui, dare anche la mia vita. Negli studi, facevo più progressi con lui in un giorno che a casa in una settimana. Quell'uomo di Dio mi voleva veramente bene. Più volte mi disse:
- Non preoccuparti per l'avvenire. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se morirò, penserò lo stesso al tuo futuro.
Don Calosso se ne va
Tutto andava molto bene. Ero pienamente felice, quando un disastro troncò le mie speranze. Una mattina di aprile don Calosso mi aveva mandato dai miei parenti per una commissione. Ero appena arrivato a casa, quando arriva una persona di corsa, e mi avverte di tornare subito da lui. Era stato colpito da apoplessia, chiedeva di vedermi.
Non corsi, volai. Il mio carissimo don Calosso era a letto, non poteva più parlare. Ma mi riconobbe, mi diede la chiave del cassetto dov'era il denaro, e mi fece cenno di non darla a nessuno.
Dopo due ore di agonia, se ne andò con Dio. Con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato, e finché vivrò pregherò ogni mattina per quel mio grandissimo benefattore. Quando arrivarono i suoi eredi, consegnai loro la chiave e ogni altra cosa.
4. TANTA STRADA PER ANDARE A SCUOLA
Un chierico dal volto buono
In quegli anni la divina Provvidenza mi fece incontrare un altro benefattore, don Giuseppe Cafasso di Castelnuovo d'Asti. Era la seconda domenica di ottobre, e gli abitanti di Morialdo festeggiavano la Maternità di Maria SS. Era la festa patronale di quella frazione, e ognuno era allegro e affaccendato. Nei prati si svolgevano giochi e spettacoli, si esibivano ciarlatani e prestigiatori.
Appoggiato alla porta della chiesa, lontano da ogni gioco e spettacolo, vidi un chierico. Era piccolo nella persona, aveva gli occhi scintillanti e il volto buono. Incuriosito e ammirato dal suo aspetto, mi avvicinai e gli dissi:
- Reverendo, vuole assistere a qualche spettacolo della nostra festa? Mi dica dove vuole andare, l'accompagnerò. Egli mi chiamò vicino a sé, e con molta gentilezza si informò della mia età, dei miei studi, mi domandò se avevo fatto la prima Comunione, se andavo alla confessione e al catechismo. Gli risposi volentieri. Poi gli ripetei la mia offerta:
-Vuol vedere qualche spettacolo?
- Mio caro amico - rispose -, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa. Quanto più la gente vi partecipa con amore, tanto più sono spettacoli che fanno bene al cuore dei sacerdoti. I nostri divertimenti sono la santa Messa, la Comunione, la confessione, da cui nasce la gioia più profonda. Io aspetto che aprano la chiesa per entrare.
Vincendo un po' di timore gli risposi:
- Ciò che lei dice è vero. Ma c'è tempo per tutto: tempo per andare in chiesa e tempo per divertirsi.
Egli si mise a ridere, e mi disse queste parole che erano il programma della sua vita:
- Chi si fa sacerdote si dona al Signore, e di tutte le cose che capitano nel mondo gli interessa solo ciò che può dare gloria a Dio e far del bene alle anime.
Pieno di rispetto volli conoscere il nome di quel chierico, che nelle parole e nell'atteggiamento manifestava così profondamente lo spirito del Signore. Venni a sapere che era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del primo anno di teologia. Avevo già sentito parlare più volte di lui, come di un giovane santo.
Avvenire incerto
La morte di don Calosso, come ho detto, era stata per me un vero disastro. Piangevo, e nessuno riusciva a consolarmi. Se ero sveglio, pensavo a lui. Se dormivo, lo sognavo. Le cose andarono tanto in là che mia madre temette seriamente che diventassi malato, e mi mandò per un certo periodo nella casa dei nonni a Capriglio.
In quel tempo feci un altro sogno. Vidi una persona che mi sgridò severamente, perché avevo messo la mia speranza più negli uomini che nella bontà di Dio, nostro Padre.
Mi preoccupava, intanto, il pensiero degli studi. Cosa fare per continuarli? C'erano molti bravi preti che lavoravano per il bene della gente, ma non riuscivo a diventare amico di nessuno. Mi capitava sovente di incontrare per strada il parroco e il viceparroco. Li salutavo da lontano, mi avvicinavo con gentilezza, ma loro ricambiavano soltanto il mio saluto, e continuavano la loro strada.
Più volte, amareggiato fino alle lacrime, dicevo:
- Se io fossi prete, non mi comporterei così. Cercherei di avvicinarmi ai ragazzi, darei loro buoni consigli, direi buone parole. Chissà perché non posso parlare un poco con il mio parroco? Don Calosso parlava con me. Perché gli altri preti no? Mamma vedeva la mia sofferenza. Per i miei studi tuttavia non aveva speranza di ottenere il consenso di Antonio, che superava ormai i vent'anni. Allora decise di dividere con lui i beni lasciati da mio padre. C'era una grossa difficoltà: io e Giuseppe eravamo minorenni, e questo comportava lunghe pratiche e spese notevoli. Nonostante tutto, la mamma prese questa decisione.
Così in famiglia rimanemmo in tre: mamma, Giuseppe e io. La nonna era morta alcuni anni prima.
Quella divisione mi tolse un macigno dallo stomaco e mi diede finalmente piena libertà di studiare. Ma ci vollero molti mesi per completare tutte le pratiche richieste dalla legge. Potei entrare nella scuola pubblica di Castelnuovo soltanto verso il Natale del 1830. Avevo 15 anni.
Giovanni Roberto, sarto e cantore
La scuola pubblica e il maestro diverso misero a dura prova quel poco che avevo imparato fino a quel giorno. Dovetti quasi ricominciare la grammatica italiana e procedere faticosamente verso quella latina.
Nei primi tempi andavo da casa a scuola ogni mattina e ogni pomeriggio, percorrendo tra andate e ritorni qualcosa come venti chilometri al giorno.
Ma appena cominciò sul serio l'inverno, questo ritmo si dimostrò impossibile. Fui messo quindi a pensione da Giovanni Roberto, un brav'uomo che faceva il sarto.
Era anche un buon cantore dilettante di musica profana e sacra. Poiché anch'io avevo una buona voce, mi insegnò la musica. In pochi mesi potei salire sulla cantoria della chiesa ed eseguire con lui brani di musica sacra.
Nel tempo libero cominciai anche a divertirmi con ago e forbici. In poco tempo divenni esperto nell'attaccare bottoni, fare orli, eseguire cuciture semplici e doppie. Riuscii anche a perfezionarmi in operazioni più delicate: tagliare la stoffa per confezionare giubbotti, pantaloni, panciotti.
Il signor Roberto, vedendo i miei progressi nel mestiere, mi fece una proposta seria: diventare sarto a tempo pieno nella sua bottega. Ma il mio programma era diverso: volevo andare avanti negli studi. Mi piaceva imparare molte cose nel tempo libero, ma tutti i miei sforzi erano concentrati sull'obiettivo principale.
Amici e non amici
In quel primo anno dovetti anche fare i conti con alcuni compagni cattivi. Tentarono di portarmi a giocare in tempo di scuola. Trovai la scusa che non avevo soldi. Mi suggerirono come procurarmeli: rubare al mio padrone e a mia madre. Uno, per convincermi, mi disse sfacciato:
- È’ tempo che ti svegli. Impara a vivere in questo mondo. Se continui a tenere gli occhi bendati, rimarrai sempre un bambino. Se vuoi una vita spensierata devi procurarti denaro, in una maniera o nell'altra.
Ricordo che gli diedi questa risposta:
- Non capisco le vostre parole. Sembra che mi vogliate convincere a diventare un ladro. Ma il settimo comandamento di Dio dice: « non rubare ». Chi diventa ladro fa cattiva fine. D'altra parte, mia madre mi vuol bene. Se le chiedo denaro per cose buone, me lo dà. Le ho sempre obbedito, e non comincerò certo adesso a disobbedirle. Se i vostri amici rubano, sono delinquenti. Se non rubano ma consigliano gli altri a rubare, sono dei mascalzoni.
Questa mia risposta decisa passò di bocca in bocca, e nessuno ebbe più il coraggio di farmi proposte simili. Anche il professore venne a conoscerla, e da quel momento mi dimostrò più affetto. Persino i genitori di molti miei compagni di scuola furono informati della faccenda, e si dimostrarono contenti che i loro figli diventassero miei amici.
In breve tempo tornò a formarsi intorno a me un bel gruppo di amici, che mi volevano bene e mi obbedivano come i ragazzi di Morialdo.
Tutto cominciava ad andare bene per me, quando si verificò un nuovo inconveniente. Il mio insegnante, don Virano, fu nominato parroco di Mondonio, nella diocesi di Asti. Nell'aprile lasciò la scuola. Lo sostituì un altro professore meno abile di lui. Non riusciva assolutamente a ottenere attenzione e silenzio nella classe. In quel disordine, finii per perdere anche ciò che nei mesi precedenti avevo imparato.
5. A CHIERI TRE CLASSI IN UN ANNO
Ricominciare da capo
Avevo perso tanto tempo. Per non perderne dell'altro, decidemmo il mio trasferimento a Chieri. Là mi sarei applicato seriamente allo studio. Era il 1831.
Chi è cresciuto tra i boschi, e ha visto soltanto qualche piccolo paese di provincia, prova grande impressione al vedere una città.
Fui preso a pensione nella casa di Lucia Matta, nostra compaesana. Era vedova e aveva un figlio solo. Si era trasferita a Chieri per assisterlo e aiutarlo durante gli studi.
La prima persona che conobbi fu don Eustachio Valimberti, un prete che ricordo con riconoscenza. Mi invitava a servirgli la Messa, e approfittava di quei momenti per darmi ottimi consigli sul modo di comportarmi e di tenermi lontano dai pericoli della città. Mi condusse egli stesso dal Delegato governativo agli studi. Mi presentò pure ai vari professori.
Siccome gli studi fatti fin allora erano un po' di tutto, cioè un po' di niente, fui consigliato a iscrivermi alla sesta classe (una specie di prima media).
Dell'insegnante, il teologo Pugnetti, ho un ottimo ricordo. Mi trattò con molta gentilezza. Vedendo la mia età e la mia buona volontà, mi aiutava a scuola, mi invitava a casa sua, non risparmiava fatica per farmi riguadagnare il tempo perduto. Per la mia età (16 anni compiuti) e la mia statura, tra gli alunni piccolini sembravo un pilastro. Era una situazione che mi avviliva. Dopo appena due mesi, avendo ottenuto una splendida pagella, fui ammesso all'esame per passare in quinta. (L'ordine delle classi era decrescente. dalla quinta si passava alla quarta, alla terza, ecc.).
Entrai volentieri nella nuova classe, perché gli alunni erano un po' più grandi, e il professore era il mio caro amico don Valimberti.
Passati altri due mesi, ottenni nuovamente splendidi voti. In via eccezionale fui ammesso a un altro esame e promosso alla quarta.
In questa classe era professore Vincenzo Cima, uomo severo, che teneva in classe la massima disciplina: Al vedersi comparire in scuola, a metà anno, un alunno grande e grosso come lui, disse scherzando:
- Costui o è una grossa talpa o un grande ingegno. Un po' spaventato da quell'uomo severo dissi:
- Qualcosa di mezzo. Sono un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire negli studi. Quelle parole gli piacquero, e con insolita amabilità soggiunse:
- Se hai buona volontà, sei in buone mani. Non ti lascerò a perdere il tempo. Fatti coraggio. Quando incontri qualche difficoltà, dimmelo immediatamente, e ti aiuterò.
Lo ringraziai di cuore.
Quando si dimentica un libro
Ero da circa due mesi nella quarta classe, quando un piccolo incidente fece parlare di me. Il professore di latino spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio Nepote. Quel giorno avevo dimenticato a casa il libro. Perché il professore non se ne accorgesse, tenevo spalancato davanti un altro libro, la grammatica.
I compagni se ne accorsero. Uno diede di gomito al vicino, un altro si mise a ridere, la classe cominciò ad agitarsi.
- Che cosa c'è? - domandò il professore - Che cosa capita? Voglio saperlo immediatamente!
Vedendo che molti guardavano nella mia direzione, mi comandò di rileggere il testo e di ripetere la sua spiegazione. Mi alzai in piedi tenendo in mano la grammatica, e ripetei a memoria il testo e la spiegazione. I compagni, quasi istintivamente, fecero un « oh » di meraviglia e batterono le mani.
Il professore andò su tutte le furie: era la prima volta - gridava - che non riusciva a ottenere ordine e silenzio. Mi diede uno scappellotto, che riuscii a scansare piegando la testa. Poi, mettendo una mano sulla mia grammatica, si fece spiegare dai vicini la causa di « quel disordine ».
- Bosco non ha il Cornelio Nepote. Tiene in mano la grammatica. Eppure ha letto e spiegato come se avesse sotto gli occhi il libro di Cornelio.
Il professore guardò allora il libro su cui aveva appoggiato la mano, e volle che continuassi la « lettura » del Cornelio ancora per due periodi. Poi mi disse:
- Ti perdono per la tua felice memoria. Sei fortunato. Procura di servirtene sempre bene.
Alla fine dell'anno scolastico fui promosso alla terza classe.
6. LA SOCIETA' DELL'ALLEGRIA
Imparare a proprie spese
Nelle prime quattro classi dovetti imparare a mie spese a trattare con i compagni.
Li avevo divisi mentalmente in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. I cattivi, appena conosciuti, li evitavo assolutamente e sempre. Gli indifferenti li avvicinavo se ce n'era bisogno e li trattavo con cortesia. I buoni cercavo di farmeli amici, li trattavo con familiarità.
All'inizio, in città non conoscevo nessuno. Tenevo quindi una certa distanza con tutti. Dovetti tuttavia lottare per non diventare lo schiavetto di nessuno. Qualcuno voleva portarmi in un teatro, un altro a giocare a soldi, un terzo a nuotare nei torrenti. Un tizio voleva arruolarmi in una banda che faceva man bassa di frutta negli orti e nella campagna. Un tale fu così sfacciato da invitarmi a rubare un oggetto prezioso alla mia padrona.
Mi sono liberato da tutti questi squallidi compagni evitando rigorosamente la loro compagnia man mano che scoprivo di che pasta erano fatti. A tutti dicevo che mia madre mi aveva affidato alla padrona di casa, e che per amore di mia madre non potevo andare da nessuna parte senza il permesso della signora Lucia.
Questa mia volontaria dipendenza dalla signora Lucia mi procurò anche un utile finanziario. Vedendo che poteva fidarsi di me, mi affidò suo figlio. Era di carattere irrequieto, gli piaceva moltissimo il gioco, pochissimo lo studio. Anche se frequentava una classe superiore alla mia, sua madre mi pregò di dargli ripetizioni.
Lo trattai come un fratello. Con gentilezza, giocando con lui, riuscii a portarlo in chiesa a pregare. Nello spazio di sei mesi cambiò. A scuola riuscì ad accontentare i professori e a prendere buoni voti. La madre fu così contenta che mi condonò la pensione mensile.
Ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni.
La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia.
Capitano di un piccolo esercito
Quelli che avevano cercato di farmi partecipare alle loro squallide imprese, a scuola erano un disastro. Così cominciarono a rivolgersi a me in maniera diversa: mi chiedevano la carità di prestare loro il tema svolto, la traduzione fatta.
Il professore, venuto a conoscere la faccenda, mi rimproverò severamente. « La tua è una carità falsa - mi disse - perché incoraggi la loro pigrizia. Te lo proibisco assolutamente».
Cercai una maniera più corretta per aiutarli. Spiegavo ciò che non avevano capito, li mettevo in grado di superare le difficoltà più grosse. Mi procurai in questa maniera la riconoscenza e l'affetto dei miei compagni. Cominciarono a venire a cercarmi durante il tempo libero per il compito, poi per ascoltare i miei racconti, e poi anche senza nessun motivo, come i ragazzi di Morialdo e di Castelnuovo.
Formammo una specie di gruppo, e lo battezzammo Società dell'Allegria. Il nome fu indovinato, perché ognuno aveva l'impegno di organizzare giochi, tenere conversazioni, leggere libri che contribuissero all'allegria di tutti. Era vietato tutto ciò che produceva malinconia, specialmente la disobbedienza alla legge del Signore. Chi bestemmiava, pronunciava il nome di Dio senza rispetto, faceva discorsi cattivi, doveva andarsene dalla Società.
Mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani. Di comune accordo fissammo un regolamento semplicissimo:
1. Nessuna azione, nessun discorso che non sia degno di un cristiano.
2. Esattezza nei doveri scolastici e religiosi.
Questo avvenimento mi diede una certa celebrità. Nel 1832 ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni.
La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia.
7. I GIORNI DELL'ALLEGRIA E DELLA DISCIPLINA
« Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico »
Nella Società dell'Allegria c'erano giovani splendidi. Ricordo Guglielmo Garigliano di Poirino e Paolo Braje di Chieri. Essi partecipavano volentieri ai nostri giochi, ma prima di tutto eseguivano con impegno i doveri di scuola. Entrambi amavano i giochi rumorosi, ma amavano pure raccogliersi nel silenzio a parlare con Dio.
Nei giorni di festa, dopo le adunanze che si tenevano nella scuola, ci recavamo nella chiesa di sant'Antonio. I Gesuiti, che gestivano questa chiesa, ci facevano stupende lezioni di catechismo. Raccontavano fatti ed esempi che ricordo ancora oggi. Lungo la settimana, la Società dell'Allegria si radunava nella casa di uno dei soci per parlare di religione. Vi interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braje erano tra i più assidui. Durante quelle riunioni alternavamo giochi allegri, conversazioni su argomenti cristiani, lettura di buoni libri, preghiere. Ci davamo a vicenda buoni consigli, ci aiutavamo a correggere i difetti personali. Senza saperlo, mettevamo in pratica quelle grandi parole di Pitagora: « Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico che ti renda questo servizio ».
Un professore che anche solo scherzando...
Non facevamo soltanto riunioni. Andavamo anche insieme ad ascoltare la parola di Dio, alla confessione e alla santa Comunione.
A quei tempi (è bene che lo ricordi) la religione era uno dei fondamenti dell'educazione. Un professore che anche solo scherzando avesse pronunciato una parolaccia o una mezza bestemmia, veniva immediatamente licenziato. Se questo capitava ai professori, è immaginabile la severità che si usava verso quegli alunni che si ribellavano alla disciplina o davano scandalo.
Al mattino dei giorni feriali, tutti ascoltavano la santa Messa. All'inizio e al termine della scuola, recitavamo una breve preghiera e l'Ave Maria.
Nei giorni di festa gli alunni si riunivano in una chiesa fissata dall'autorità scolastica. Ascoltavamo alcuni minuti di lettura spirituale e cantavamo l'ufficio della Madonna. Seguiva la Messa con l'omelia. Alla sera, altra riunione con studio del catechismo, recita del vespro e insegnamento religioso. Ognuno doveva accostarsi ai santi Sacramenti della confessione e della Comunione. Perché nessuno li trascurasse, ricevevamo una volta al mese un biglietto che documentava la nostra confessione. Chi non aveva compiuto questo dovere, non era ammesso agli esami finali, anche se era un ragazzo di buona intelligenza.
Questa disciplina severa produceva buoni effetti. Un ragazzo trascorreva anni interi senza udire una bestemmia o un discorso cattivo. Gli alunni erano docili e rispettosi, a scuola e in famiglia. Sovente, alla fine dell'anno, classi molto numerose non avevano nemmeno un alunno bocciato. Ricordo che quando frequentai la terza, la seconda e la prima, fummo tutti promossi.
Un canonico simpatico
In quegli anni scelsi come mio confessore il canonico Meloria della Collegiata di Chieri. Fu l'avvenimento che più mi fece del bene. Ogni volta che mi recavo da lui, mi accoglieva con grande bontà.
In quel tempo, chi andava alla confessione e alla Comunione più di una volta al mese, era guardato come un mezzo santo. Molti confessori non permettevano di ricevere i Sacramenti così frequentemente. Don Meloria, invece, mi incoraggiò sempre a moltiplicare i miei incontri con il Signore. Se ebbi la forza di non lasciarmi trascinare al male dai compagni peggiori, lo devo a questo suo costante incoraggiamento.
Negli anni di Chieri non dimenticai gli amici di Morialdo. Di quando in quando, al giovedì, andavo a trovarli. Nelle vacanze autunnali, appena sapevano che stavo arrivando, mi correvano intorno. Organizzavamo sempre una grande festa in quella occasione.
Anche a Morialdo fondai la Società dell'Allegria. Diventavano soci ogni anno coloro che avevano brillato per la loro bontà. E di anno in anno si allontanavano quelli che non si erano comportati bene, che avevano preso le tristi abitudini della bestemmia e dei discorsi cattivi.
8. INCONTRO CON LUIGI COMOLLO
Il rischio di una bocciatura
Al termine dell'anno di umanità (seconda classe), gli esami furono presieduti dal commissario straordinario professor don Giuseppe Grazzani, illustre per meriti scolastici, inviato dal Consiglio Superiore dell'Istruzione.
Fu molto cortese con me. Da quell'incontro, che ricordo con gratitudine, nacque un'amicizia che dura ancora. Vive attualmente (1873) a Moltedo Superiore, vicino a Oneglia dov'è nato. Fra le opere di carità che compie, nel nostro collegio di Alassio paga ogni anno la retta per un ragazzo che desideri studiare per diventare sacerdote.
Gli esami si svolsero molto seriamente. Eravamo 45 esaminandi e fummo tutti promossi alla classe superiore. Solo io corsi il rischio di essere respinto: passai sotto banco la traduzione ad un amico. Solo grazie alla stima del mio carissimo professor Giusiana, domenicano, potei cavarmela. Mi fece assegnare un'altra traduzione, e la eseguii bene. Fui promosso a pieni voti.
Per disposizione del municipio, in ogni classe almeno un alunno era dispensato dalle tasse scolastiche (lire 12). Per ottenere questo premio occorreva aver riportato i massimi voti di studio e di condotta. Mi andò sempre bene: ogni anno fui dispensato da quel pagamento.
In quell'anno ho perduto uno degli amici più cari, Paolo Braje. Dopo una malattia lunga, morì il 10 luglio. Avevo cercato di imitare la sua bontà, la rassegnazione alla sofferenza, la sua fede viva. Andò a raggiungere san Luigi, che aveva tanto ammirato nella sua breve vita. Tutta la scuola fu addolorata da quella morte. Partecipammo in massa al suo funerale. Durante le vacanze, in molti andammo più volte a fare la Comunione e a recitare il Rosario per la sua anima.
Dio volle riempire il vuoto lasciato da Paolo mandandoci un altro amico, buono come lui, che sarebbe addirittura diventato più celebre di lui: Luigi Comollo.
« A forza di schiaffi»
Il dottor Pietro Banaudi e altri professori, al termine dell'anno di umanità, mi consigliarono di saltare l'anno di retorica (prima classe, corrispondente alla quinta ginnasiale), e di tentare l'esame per essere subito ammesso alla filosofia (liceo classico).
Diedi quell'esame, fui promosso. Eppure in quel 1834-35 frequentai retorica, perché amavo molto la letteratura. Fu cosi che incontrai Luigi Comollo.
Di questo splendido giovane ho scritto la vita, perché ognuno possa leggerla per disteso. Qui ricorderò soltanto i giorni del nostro incontro.
Tra gli alunni del nostro anno correva la voce che sarebbe arrivato un « ragazzo santo ». Si trattava del nipote del parroco di Cinzano, prete anziano e venerato per la sua santità. Avrei voluto conoscere quel ragazzo, ma non ne sapevo nemmeno il nome. Ecco come lo conobbi un giorno.
Mentre entravamo in classe, molti giocavano a cavallina. Gli scolari più squinternati e meno diligenti erano i campioni di quel gioco pericoloso.
Un ragazzo arrivato da poco, sui quindici anni, tra tutto quel trambusto prendeva posto tranquillamente nel banco, apriva i libri e studiava. Sembrava non sentire quegli schiamazzi.
Qualcuno cominciò a guardarlo storto. Uno più insolente degli altri gli andò vicino, lo prese per un braccio e gli gridò: - Vieni a giocare a cavallina anche tu.
- Non sono capace. Non ho mai giocato a quella roba li - mormorò.
- Imparerai adesso. O vieni o ti faccio venire a forza di schiaffi.
- Puoi picchiarmi, se vuoi. Ma io non vengo.
Quel maleducato prima lo tirò per un braccio, poi gli mollò due schiaffi che risuonarono in tutta la scuola. Mi sentii ribollire il sangue nelle vene. Aspettavo che l'offeso si vendicasse giustamente, tanto più che era più alto e più forte. Invece niente. Con la faccia rossa, quasi livida, diede uno sguardo di compassione a quel farabutto e gli disse:
- Sei contento? Allora lasciami in pace. Ti perdono.
Rimasi impressionato: quello era eroismo puro. Cercai subito di sapere il nome di quel giovane: era Luigi Comollo, il « ragazzo santo », il nipote del parroco di Cinzano.
Fecero muro davanti a me
Da quel momento l'ho sempre avuto come intimo amico. Posso dire che da lui ho imparato a vivere da vero cristiano. Ci siamo capiti e stimati immediatamente. Avevamo bisogno l'uno dell'altro: io di aiuto spirituale, lui di aiuto materiale. Il fatto è che Luigi, timidissimo, non osava nemmeno tentare di difendersi contro gli insulti e le malvagità. Io invece, per il coraggio e la forza gagliarda, ero rispettato da tutti, anche da chi aveva più anni e più forza di me.
Un giorno alcuni volevano umiliare e picchiare Luigi e Antonio Candelo, un altro bravo ragazzo. Gridai di lasciarli in pace, ma non mi diedero retta. Cominciarono a volare insulti, e io:
- Chi dice ancora una parolaccia, dovrà fare i conti con me. I più alti e sfacciati fecero muro davanti a me, mentre due ceffoni volavano sulla faccia di Luigi. Persi il lume degli occhi, mi lasciai trasportare dalla rabbia. Non potendo avere tra mano un bastone o una sedia, con le mani strinsi uno di quei giovanotti per le spalle, e servendomene come di una clava cominciai a menare botte agli altri.
Quattro caddero a terra, gli altri se la diedero a gambe urlando.
In quel momento entrò il professore, e vedendo braccia e gambe sventolare in mezzo a uno schiamazzo dell'altro mondo, si mise a urlare e a menare schiaffi a destra e a sinistra.
Calmato un poco il temporale, si fece raccontare la causa di quel disordine, e quasi non credendoci volle che ripetessi la scena. Allora scoppiò a ridere, risero anche gli altri, e il professore dimenticò di castigarmi.
« Sei così occupato a parlare con gli uomini... »
Ma una lezione me la diede Luigi, appena poté parlarmi a tu per tu.
- Giovanni - mi disse - la tua forza mi spaventa. Dio non te l'ha data per far del male ai tuoi compagni. Egli vuole che perdoniamo, che ci vogliamo bene, che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male.
Aveva una bontà veramente incredibile. Finii per arrendermi alle sue parole e per lasciarmi guidare da lui.
Luigi Comollo, Guglielmo Garigliano ed io andavamo sovente insieme alla confessione e alla Comunione, a far meditazione e lettura spirituale, a servire la santa Messa e a far visita a Gesù Sacramentato. Luigi sapeva invitarci con tale bontà e cortesia, che non era possibile dirgli di no.
Un giorno, mentre parlavo con un amico passai davanti a una chiesa senza togliermi il berretto. In modo molto cortese, Luigi mi disse:
- Sei così occupato a discorrere con gli uomini, Giovanni, che non ti accorgi nemmeno di passare davanti alla casa del Signore.
9. AVVENIMENTI PICCOLI E GRANDI
Tra torte e gelati
Ho narrato alcune vicende scolastiche.
Ora racconterò alcuni fatti che possono essere anche divertenti.
Mentre frequentavo la classe seconda cambiai pensione. Un amico di famiglia, Giovanni Pianta, aveva appena aperto un caffè, e mi invitò a prendere alloggio da lui. Accettai, anche perché la casa era vicina a quella del mio professore don Pietro Banaudi.
Avere la propria residenza in un pubblico ristorante può essere pericoloso per un giovanotto. Riuscii ad evitare ogni occasione di male perché i padroni erano bravi cristiani, e perché avevo ottimi amici.
Fatti i compiti e studiate le lezioni, mi rimaneva molto tempo libero.
Cominciai a dividerlo in due parti. Nella prima leggevo gli autori classici italiani e latini, nella seconda imparavo a confezionare dolci e liquori.
A metà anno non solo preparavo caffè e cioccolato, ma conoscevo le regole e i segreti per fabbricare gelati, rinfreschi, liquori, torte.
Il padrone, poiché il suo locale ne ricavava notevoli vantaggi, mi concesse quasi subito la pensione gratuita. Poi mi fece un'offerta concreta perché lasciassi gli studi e mi dedicassi completamente al suo caffè. Ma io volevo continuare a studiare, ad ogni costo. Tutto il resto lo facevo solo per divertimento.
Morte in acqua
Il professor Banaudi era un insegnante modello. Senza mai castigare nessuno, era riuscito a farsi amare e temere da tutti. Voleva bene ai suoi alunni come fossero suoi figli, ed essi lo ricambiavano.
Per dargli un segno di riconoscenza, decidemmo di fargli una bella festa nel suo giorno onomastico. Componemmo poesie e brani di prosa, e preparammo alcuni regali che sapevamo gli sarebbero stati molto graditi.
La festa riuscì splendida. Don Banaudi fu molto contento, e per manifestarci la sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La giornata fu bellissima. Tra il professore e gli allievi c'era una vera corrente di simpatia, e la dimostrammo in mille modi diversi.
Prima di rientrare in città, don Banaudi incontrò un amico, con cui dovette assentarsi. Nell'ultimo tratto di strada rimanemmo soli.
Pochi minuti dopo incontrammo alcuni allievi delle classi superiori, che ci invitarono a fare un bagno nel corso d'acqua chiamato Fontana Rossa. Era distante un paio di chilometri.
Con alcuni amici mi dichiarai contrario. Ma non tutti mi ascoltarono. Mentre molti tornavano a casa con me, alcuni andarono a nuotare. Fu una decisione disgraziata.
Poche ore dopo il nostro rientro, arriva di corsa uno, poi un altro dei nostri compagni. Spaventati e ansanti dicono: - Filippo è morto. Si, proprio Filippo, quello che ha insistito perché andassimo a nuotare.
- Ma come? - domandammo increduli -. Filippo a nuoto è il migliore di tutti!
- Eppure è così. Per farsi vedere coraggioso si è buttato per primo nella corrente, ma non conosceva i gorghi per cui la Fontana Rossa è tristemente famosa. Abbiamo aspettato che tornasse a galla, ma non l'abbiamo più visto. Ci siamo messi a gridare, è accorsa gente. Solo dopo un'ora e mezza alcuni uomini, correndo seri pericoli, sono riusciti a tirare a riva il cadavere.
Quella disgrazia ci procurò molta tristezza. Nessuno, nè in quell'anno nè in quello seguente, osò più andare a nuotare nei corsi d'acqua.
Qualche tempo fa mi ritrovai con alcuni vecchi amici, e ricordammo ancora con rincrescimento la triste fine di Filippo nei gorghi della Fontana Rossa.
10. UN AMICO EBREO, GIONA
Crisi a 18 anni
Mentre abitavo presso l'amico Giovanni Pianta, divenni amico di un ragazzo ebreo di nome Giona. Aveva diciott'anni, un volto bellissimo, cantava con una voce vellutata e dolce. Giocava molto bene a bigliardo.
Ci eravamo conosciuti nel negozio del libraio Elia. Ogni volta che passava di là, per prima cosa domandava notizie di me. Ci volevamo molto bene. La sua amicizia per me aveva manifestazioni quasi incredibili. Ogni momento libero veniva a trascorrerlo nella mia stanza. Passavamo il tempo a suonare il piano, a cantare, a leggere, a raccontare. Gli piaceva specialmente ascoltare i miei mille racconti.
Un giorno entrò in crisi. Si era lasciato andare a una cattiva azione. Era seguita una rissa che gli poteva procurare guai seri. Corse da me per avere un consiglio. Gli dissi:
- Se fossi cristiano, ti porterei subito a confessarti. Ma per te non è possibile.
- Ma anche noi, se vogliamo, possiamo confessarci:
- Il vostro però non è un confessore. È’ un amico che vi ascolta e basta. Non celebra un sacramento, non può darvi il perdono a nome di Dio. Non è nemmeno tenuto al segreto. - Allora, se mi accompagni, vado a confessarmi da un prete. - Ci vuole una lunga preparazione.
- Quale? .
- La confessione cristiana perdona i peccati commessi dopo il Battesimo. Quindi, se vuoi ricevere un sacramento, prima di tutto devi venire battezzato.
- Cosa dovrei fare per ricevere il Battesimo?
- Studiare la religione cristiana, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. Solo allora potrai essere battezzato. - E che vantaggio mi darà il Battesimo?
- Ti farà figlio di Dio, ti aprirà il Paradiso. Mediante l'acqua del Battesimo, Dio cancellerà il peccato originale, perdonerà le colpe commesse finora, e ti farà entrare nella sua Chiesa dove potrai ricevere tutti i Sacramenti della salvezza.
- Ma noi ebrei non possiamo salvarci?
-Dopo la venuta del Figlio di Dio sulla terra, Gesù Cristo, la strada ordinaria della salvezza per tutti è credere in lui.
- Se mia madre venisse a sapere che penso a diventare cristiano, per me sarebbero guai.
- Non avere paura. Dio è padrone dei cuori. Se egli ti chiama a essere cristiano, farà in maniera che tua madre sia contenta, o comunque aggiusterà le cose.
- Tu sei mio amico. Cosa faresti al mio posto?
- Comincerei a informarmi seriamente sulla religione cristiana. Intanto Dio farà capire ciò che vuole da noi. Prendi un catechismo e leggilo con attenzione. E prega Dio che ti aiuti a conoscere la verità.
Il dramma familiare
Da quel giorno cominciò ad affezionarsi alla religione cattolica. Quando veniva al caffè, dopo una partita a bigliardo mi cercava per discutere. Approfondivamo insieme le risposte del catechismo e i problemi della religione.
In pochi mesi imparò il segno della Croce, il Padre nostro, l'Ave Maria, il Credo e le verità fondamentali della fede. Era molto contento. Si notava di giorno in giorno che diventava migliore nella conversazione e nel comportamento.
Aveva perso il padre quando ancora era un ragazzino. La madre, di nome Rebecca, all'inizio sentì soltanto qualche voce sul cambiamento di idee di suo figlio, ma non ci badò.
Il dramma familiare scoppiò quando un giorno, nel rifargli il letto, la madre trovò il catechismo su cui Giona studiava. Si mise a gridare per la casa. Poi andò dal Rabbino, portandogli il catechismo. Sospettò che la causa di tutto fossi io, perché aveva sentito parlare molte volte di me da suo figlio. E venne ad affrontarmi.
Come Giona era uno splendido ragazzo, sua madre era purtroppo una donna molto brutta. Aveva un grosso naso, aveva perso la vista di un occhio ed era piuttosto sorda. Anche la bocca era brutta: labbra gonfie, un po' storte, pochi denti. Il mento era lungo e appuntito. Pure la voce era sgradevole. Gli ebrei, che chiamano Lilith il mago che deve spaventare i bambini cattivi, chiamavano questa donna Maga Lilith.
Mi affrontò con ira e amarezza, tanto che ne ebbi paura. Mi disse:
- Sei tu la causa di questa disgrazia. Il mio Giona me l'hai rovinato tu. L'hai disonorato davanti alla gente. Finirà per diventare cristiano, e non so cosa gli capiterà.
Usai le parole migliori che possedevo. Con calma le dissi che doveva esser contenta, perché io facevo del bene a suo figlio. - Del bene? E’ un bene rinnegare la propria religione? - Buona signora, cerchi di calmarsi e di ragionare. Io non sono andato in cerca di suo figlio. Ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia e siamo diventati amici. Egli mi è molto affezionato, e anch'io gli voglio bene. Da vero amico voglio che salvi la sua anima, che conosca la religione cristiana, unica via di salvezza. Noti bene, signora, che io a suo figlio ho dato soltanto un libro, e l'ho solo invitato a informarsi seriamente sulla religione cristiana. Se egli diventerà cristiano, non abbandonerà la religione ebraica, ma la vivrà con maggiore perfezione. - Se per disgrazia si farà cristiano, dovrà abbandonare i nostri profeti. I cristiani non credono in Abramo, Isacco, Giacobbe, in Mosè e negli altri profeti.
- Non è vero. Noi veneriamo i santi patriarchi della Bibbia, crediamo nei profeti del popolo ebreo. I loro scritti, le loro parole, le loro profezie, sono il fondamento della fede cristiana.
- Se ci fosse qui il nostro Rabbino, ti saprebbe rispondere. Io non conosco nè la Mishnù nè la Ghemarà (le due parti del Talmud). So soltanto che il mio povero Giona è rovinato. Dopo queste parole se ne andò. Dovrei riempire parecchie pagine per raccontare gli incontri minacciosi che ebbi col Rabbino, i parenti di Giona, e ancora con la madre. Ma specialmente Giona subì minacce e violenze. Sopportò tutto con coraggio, e continuò a istruirsi nella fede.
In famiglia non era più al sicuro. Dovette allontanarsi da casa e vivere in condizioni precarie. Molte persone però lo aiutarono. Un sacerdote molto istruito, a cui raccontai tutto, lo prese sotto la sua protezione, e lo aiutò ad approfondire la preparazione al Battesimo.
Ora Giona era impaziente di diventare cristiano.
(Il 10 agosto, nel duomo di Chieri) ci fu la festa del Battesimo. L'avvenimento fu un buon richiamo alla fede per tutti i chieresi, e fece riflettere alcuni ebrei, che più tardi abbracciarono il Cristianesimo.
Il padrino e la madrina furono Carlo e Ottavia Bertinetti, che pensarono al nuovo cristiano come a un loro figlio. Mediante il loro aiuto, Giona poté trovare un buon posto di lavoro per guadagnarsi onestamente la vita. Il nome cristiano di Giona fu Luigi.
« Giona » è il nome fittizio con cui don Bosco vuol coprire quello vero, oppure è il soprannome con cui i compagni chiamavano Giacomo Levi. Nei registri ufficiali di Chieri si può leggere l'atto ufficiale del battesimo, redatto in lingua latina: « Il 10 agosto, io Sebastiano Schioppo, teologo e canonico... ho battezzato solennemente il giovane Giacomo Levi, di 18 anni, e gli ho posto il nome di Luigi... ».
11. MAGIA BIANCA
«Bruciavo i miei 'capolavori'»
I miei giorni si srotolavano tra studi e vita con gli amici. Ci divertivamo con il teatro, il canto, la musica strumentale. Avevo una memoria felice. Sapevo a memoria vasti brani di prosatori e poeti classici. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti e altri poeti li conoscevo così bene che li maneggiavo e adattavo come roba mia. Era così molto facile per me improvvisare versi su qualunque argomento.
Negli spettacoli che allestivamo, ero sempre pronto a cantare, suonare, improvvisare poesie. Queste mie composizioni erano giudicate capolavori. Erano invece soltanto brani di poeti celebri, adattati alle varie circostanze.
Per questo non ho mai prestato le « mie poesie » ad altri. Se per caso le scrivevo, bruciavo subito tutto.
Tornano i giochi di prestigio
In quel tempo ho imparato giochi nuovi: carte, tarocchi, bocce, piastrelle, salti e corse anche sui trampoli. Non in tutto ero giocatore celebre, ma sapevo cavarmela bene.
Alcuni giochi, come ho già raccontato, li avevo imparati sui prati di Morialdo. Ma se là ero un principiante, qui divenni un maestro. Erano giochi poco conosciuti, e perciò sembravano cose dell'altro mondo.
Con i giochi di prestigio davo spettacolo in pubblico e in privato. E qui la meraviglia si sprecava. Veder uscire da una scatola minuscola decine e decine di pallottole più grosse della scatola, veder spuntare da un sacchetto microscopico decine e decine di uova, faceva trattenere il fiato per lo stupore.
Altri giochi impressionavano ancora di più. Raccoglievo palloni sulla punta del naso degli spettatori, indovinavo il denaro che qualcuno aveva nel portafoglio. Col semplice contatto delle dita riducevo in polvere monete di metallo. Invitavo alcuni a guardare gli spettatori, e invece di persone vedevano orribili animali, o vedevano persone senza testa.
Questi ultimi giochi scossero i nervi a qualcuno, che cominciò a sospettare che fossi un mago, che agissi con la forza del diavolo.
Il galletto vivo di Tommaso Cumino
Una di queste persone impressionabili era il mio nuovo padrone di casa, Tommaso Cumino. Cristiano fervoroso, ma anche molto ingenuo, amava scherzare. E io ne approfittavo per fargliene di tutti i colori.
Nel giorno del suo onomastico, aveva preparato un pollo in gelatina per i suoi pensionati. Lo portò in tavola in un tegame. Scoperchiato il tegame, saltò fuori un galletto vivo, che tutto spaventato si mise a cantare e a svolazzare.
Un'altra volta preparò una pentola di spaghetti, e quando fu il momento di scolarli, nel colabrodo si rovesciò una massa di crusca asciuttissima.
Molte volte riempiva la bottiglia di vino, e mescendo nei bicchieri trovava acqua schietta. Quando poi voleva acqua, si trovava il bicchiere pieno di vino. Altri scherzi abbastanza frequenti erano la frutta cambiata in fette di pane, le monete del borsellino trasformate in pezzi di latta arrugginita, il cappello trasformato in cuffia da notte, noci e nocciole sostituite da ghiaia di strada.
Ad un certo punto, il povero signor Tommaso si spaventò. Pensava:
- Gli uomini non possono far queste cose. Dio non perde tempo in simili sciocchezze. Quindi a fare tutto questo è il diavolo.
Non osando parlare con nessuno della cosa, si confidò con un prete che abitava vicino, don Bertinetti. Questo sacerdote credette di vedere in quei fatti la « magia bianca ». Riferì ogni cosa al delegato delle scuole, canonico Burzio, arciprete del Duomo.
Don Burzio era una persona molto istruita e prudente. Senza dir niente a nessuno, mi invitò per un colloquio.
« O tu servi il diavolo, o il diavolo serve te »
Giunsi nel suo ufficio mentre recitava il Breviario. Mi guardò con un sorriso e mi fece cenno di attendere un minuto. Alla fine mi invitò a seguirlo in un secondo ufficio. Con parole cortesi ma con volto severo cominciò l'interrogatorio.
- Mio caro, sono molto contento dei tuoi studi e della tua condotta. Ma ora mi hanno raccontato certe cose di te... Mi dicono che conosci i pensieri degli altri, conti il denaro che ognuno tiene in tasca, fai vedere bianco ciò che è nero, conosci le cose lontane... Ci sono molti che parlano di te. Qualcuno sospetta che tu conosca la magia, che sia in contatto con il diavolo. Devi rispondermi sinceramente: chi ti ha insegnato queste cose? dove le hai imparate? Ciò che mi dirai, rimarrà un segreto tra me e te. Ti do la mia parola che me ne servirò soltanto per farti del bene.
Senza scompormi, chiesi cinque minuti per rispondere, e lo pregai di dirmi l'ora esatta. Mise la mano nel taschino, e non trovò più l'orologio.
- Se non ha l'orologio - gli dissi - mi dia almeno una moneta da cinque soldi.
Si frugò in tasca, e non trovò più il borsellino. Allora perse la calma e alzò la voce:
- Mascalzone! O tu servi il diavolo, o il diavolo serve te. Mi hai già rubato l'orologio e il borsellino. Sono obbligato a denunciarti, e potrei anche prenderti a bastonate.
Vedendomi però calmo e sorridente, cercò di ricomporsi, e continuò con voce più controllata.
- Prendiamo le cose con calma. Spiegami questo mistero. Com'è possibile che l'orologio e il borsellino siano usciti dalle mie tasche senza che io me ne sia accorto? E dove sono andati?
Risposi rispettosamente:
- Signor arciprete, le spiego tutto in due parole. È tutta questione di velocità di mani, di trucchi preparati con abilità. - Cosa c'entrano i trucchi col mio orologio e la mia borsa? - Le spiego. Quando sono giunto nella sua casa, lei stava dando l'elemosina a un povero. Subito dopo mise il borsellino sopra l'inginocchiatoio. Quando poi ci siamo spostati dal primo al secondo ufficio, ha lasciato l'orologio sul tavolino. Con alcuni gesti ben calcolati ho nascosto l'uno e l'altro sotto questo paralume.
Così dicendo, alzai il paralume, e apparvero i due oggetti che il canonico aveva creduto rubati dal diavolo. Il brav'uomo scoppiò a ridere, e rise per un bel pezzo. Volle che gli facessi vedere qualche altro trucco, con cui facevo sparire e riapparire le cose. Alla fine era tutto allegro, mi fece un piccolo regalo, e concluse:
- Di' ai tuoi amici che la meraviglia è figlia dell'ignoranza.
12. LE OLIMPIADI DI GIOVANNI BOSCO
« Andava con la velocità di un treno »
Le accuse di « magia bianca » non turbarono il ritmo della nostra vita. Tornammo a riunirci, a dare spettacoli e a divertirci. In quel tempo arrivò a Chieri un saltimbanco che iniziò i suoi spettacoli con una poderosa corsa a piedi: percorse la città da un'estremità all'altra in due minuti e mezzo, cioè alla velocità di un treno. Alcuni miei amici me ne parlarono con occhi dilatati, come di un fenomeno.
Senza badare alla conseguenza delle mie parole, dissi che avrei dato chissà che cosa per provare a batterlo. Un compagno imprudente riferì la cosa al saltimbanco, che accettò immediatamente la sfida. Per Chieri si sparse in un lampo la notizia: uno studente sfida un campione professionista.
Il luogo scelto per la prova fu il viale di Porta Torinese. La scommessa era di venti lire. Io non avevo una somma simile, ma molti amici della Società dell'Allegria la misero insieme.
Una moltitudine di gente venne ad assistere alla sfida. Al via, il saltimbanco mi prese alcuni metri di vantaggio ma presto riguadagnai il terreno perduto, e lo staccai in modo clamoroso. A metà corsa si fermò e mi diede partita vinta. - Chiedo la rivincita al salto. Ma voglio scommettere 40 lire, e anche più se vuoi.
80 lire sulla punta di una bacchetta magica
Accettammo. Scelse lui il luogo. Bisognava balzare al di là di un fosso, contro un parapetto che si ergeva vicino a un piccolo ponte. Saltò per primo, e mise il piede cosi vicino al parapetto, che più in là non si poteva saltare. Potevo perdere, non certo vincere. Tuttavia studiai un espediente. Feci un salto identico al suo, ma appoggiando le mani sul parapetto, prolungai il salto al di là del muro (un rudimentale «salto con l'asta»). Fui sommerso dagli applausi.
- Voglio ancora lanciarti una sfida. Scegli qualunque gioco di destrezza.
Accettai. Scelsi il gioco della bacchetta magica, con la scommessa che saliva a lire 80. Presi una bacchetta, a una estremità misi un cappello, poi appoggiai l'altra estremità sulla palma della mano. Senza toccarla con l'altra, la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del pollice. Quindi la feci saltare sul dorso della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta tornò sulla palma della mia mano.
- Stavolta non perderò - disse con sicurezza. – È’ il mio gioco preferito.
Prese la medesima bacchetta, e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra. Ma aveva il naso troppo lungo, la bacchetta vacillò, perse l'equilibrio, e dovette prenderla con la mano per non lasciarla cadere.
«Eravamo contenti di perdere»
Quel poveretto vedeva andare in fumo tutti i suoi risparmi, e quasi furioso esclamò:
- Accetto qualunque umiliazione, ma non quella di essere battuto da uno studente. Ho ancora cento lire e le scommetto tutte su un'arrampicata. Vincerà chi riesce a mettere i piedi più vicini alla punta di quell'albero.
Così dicendo indicò un olmo vicino al viale. Accettammo anche questa volta, e in un certo modo eravamo contenti di perdere, perché avevamo compassione di lui. Non volevamo rovinarlo.
Salì per primo, e portò i piedi tanto in alto che, se fosse salito una spanna di più, l'albero si sarebbe piegato e lui sarebbe precipitato. Tutti dicevano che più in su era impossibile.
Toccò a me. Salii fin dov'era possibile senza far piegare la pianta. Allora, tenendomi con le mani all'albero, alzai il corpo in verticale, e posi i piedi circa un metro oltre l'altezza raggiunta dal mio rivale. Giù in basso scoppiarono applausi.
Una tavolata di 22 studenti
I miei amici si abbracciavano di gioia, il saltimbanco era nero di rabbia, e io ero orgoglioso di aver vinto non contro ragazzi come me, ma contro un campione professionista. Quell'atleta però era triste fino a piangere. Abbiamo avuto compassione di lui, e gli abbiamo restituito il denaro a una condizione: che venisse a pagarci un pranzo all'albergo del Muletto. Si sentì rivivere e accettò immediatamente. Andammo al pranzo in ventidue: tutti i componenti della Società dell'Allegria. Il pranzo gli costò 25 lire. Le lire che invece poté rimettersi in tasca furono 215.
Quello fu veramente un giovedì di grande allegria. Io mi ero coperto di gloria battendo quattro volte un saltimbanco. I miei compagni avevano condiviso il mio trionfo con vivissima gioia, e avevano avuto un ottimo pranzo. Anche il saltimbanco era contento, perché aveva riavuto quasi tutto il suo denaro. Allontanandosi da noi ci ringraziò dicendo:
- Ridandomi questo denaro, avete impedito la mia rovina. Vi ringrazio di cuore. Vi ricorderò con piacere, ma non farò mai più scommesse con gli studenti
13. FAME DI LIBRI
Due terzi della notte a leggere
Mi direte: « Se passavi tanto tempo a divertirti, quando studiavi? ».
Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più. Ma per imparare tutto il necessario mi bastava l'attenzione a scuola. In quel tempo avevo una memoria così felice che per me non c'era differenza tra leggere e studiare. Potevo con facilità esporre il contenuto di qualunque libro che avessi letto o sentito raccontare. Mia madre, inoltre, mi aveva abituato a dormire molto poco. Potevo quindi passare due terzi della notte a leggere libri, e spendere poi quasi tutta la giornata in attività libere. Davo ripetizioni e facevo lezioni private. Facevo tutto per amicizia e per carità, non per guadagno. Molti però mi pagavano ugualmente.
C'era in Chieri un libraio ebreo, Elia. Feci con lui un patto per leggere tutti gli scrittori classici italiani. Gli davo un soldo per ogni libro che mi prestava, e che gli restituivo a lettura terminata. I volumetti della biblioteca popolare li lessi al ritmo di uno al giorno.
L'alba illuminava le pagine di Tito Livio
Nell'anno della quarta ginnasiale lessi gli autori italiani. Nell'anno di retorica attaccai gli autori classici latini: Cornelio Nepote, Cicerone, Sallustio, Quinzio Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio ed altri.
Quei libri li leggevo per divertimento. Mi piacevano, mi sembrava di capirli perfettamente. Solo più tardi mi accorsi che non era cosi. Quando divenni sacerdote, e facendo scuola cercai di spiegare ad altri quei capolavori, capii che solo con uno studio approfondito e una grande preparazione si riesce a capirne perfettamente il senso e la bellezza.
Gli impegni di scuola, le ripetizioni, la lettura prolungata, occupavano la mia giornata e buona parte della mia notte. L'ora della levata arrivò più volte mentre tenevo ancora in mano la storia di Tito Livio, che avevo cominciato a leggere la sera precedente.
Questo ritmo frenetico rovinò seriamente la mia salute. Per alcuni anni dovetti sopportare uno sfinimento mortale. Quindi io consiglierò sempre di fare quello che si può e non di più. La notte è fatta per riposare. Dopo cena nessuno deve impegnare la mente in studi difficili, eccetto che sia proprio una necessità. Un uomo robusto
può reggere per un po' di tempo, ma finirà sempre per danneggiare la sua salute.
14. CHE COSA FARO' DELLA MIA VITA
Non volevo credere ai sogni
Mi avviavo al termine dell'anno di umanità. Anche per me era giunto il tempo di pensare seriamente a cosa avrei fatto nella vita.
Il sogno che avevo fatto ai Becchi mi era sempre fisso in mente. Devo anzi dire che quel sogno si era rinnovato più volte, in maniera sempre più chiara. Se volevo credere a quel sogno, dovevo pensare a diventare sacerdote. Avevo anche una certa inclinazione a diventarlo.
Ma non volevo credere ai sogni. E poi la mia maniera di vivere, certe abitudini che avevo preso, la mancanza totale delle virtù che sono necessarie ai sacerdoti, mi rendevano molto incerto. La mia era una scelta molto difficile. Quante volte avrei voluto avere una guida spirituale che mi aiutasse in quei momenti. Per me sarebbe stato un vero tesoro, ma questo tesoro mi mancava. Avevo un buon confessore che mi aiutava ad essere un cristiano onesto, ma non volle mai parlare di vocazione.
Riflettei a lungo. Lessi alcuni libri sulla vocazione alla vita religiosa e sacerdotale. Alla fine decisi di entrare tra i Francescani.
Ragionavo così: - Se divento prete in mezzo al mondo, corro il rischio di fallire. Diventerò prete, ma non vivrò in mezzo alla gente.
Mi ritirerò in un convento, mi dedicherò allo studio e alla meditazione. Nella solitudine mi sarà più facile combattere le passioni, specialmente l'orgoglio, che ha già messo profonde radici nel mio cuore.
«Dio ti prepara un altro campo»
E così feci domanda di entrare tra i Francescani conventuali riformati. Diedi l'esame per l'ammissione, fui accettato. Ormai tutto era pronto per la mia entrata nel Convento della Pace, in Chieri.
Mancavano pochi giorni all'entrata quando feci uno dei sogni più strani. Vidi una grande quantità di quei religiosi che portavano vesti strappate e correvano in direzioni diverse. Uno di loro venne verso di me e mi disse:
- Tu cerchi la pace, ma qui pace non troverai. Non vedi come si comportano i tuoi fratelli? Dio ti prepara un altro luogo, un campo di lavoro diverso.
In sogno volevo rivolgere qualche domanda a quel frate, ma un rumore mi svegliò e ogni. cosa scomparve.
Andai dal mio confessore e gli esposi tutto. Non volle sentire parlare né di sogni né di frati. Mi disse:
- In queste cose ognuno deve seguire le sue inclinazioni, non i consigli degli altri.
Una lettera che rischiara l'orizzonte
Proprio in questo tempo capitò un fatto che mi mise nell'impossibilità di entrare subito tra i Francescani. Credevo fosse una difficoltà passeggera, invece arrivarono altri ostacoli ancora più grandi.
Decisi allora di confidarmi con il mio amico Luigi Comollo. Ecco il suo consiglio: fare una novena e scrivere una lettera a suo zio parroco.
L'ultimo giorno della novena, in sua compagnia ho fatto la confessione e la Comunione. Poi, nel duomo, ascoltammo una Messa e ne servimmo un'altra all'altare della Madonna delle Grazie. Tornati a casa, trovammo una lettera con la risposta di don Comollo, lo zio di Luigi. Diceva:
- Tutto considerato, io consiglierei il tuo compagno di non entrare in convento. Vesta l'abito dei chierici, e mentre proseguirà gli studi verrà a conoscere sempre meglio ciò che Dio vuole da lui. Non abbia paura di perdere la vocazione. Con la ritiratezza e le pratiche di pietà supererà ogni ostacolo.
Ho seguito quel consiglio sapiente, e cominciai a fare letture e riflessioni che mi aiutassero nella preparazione a indossare l'abito dei chierici.
Il colèra incombe su Torino
Superai l'esame di retorica. Subito dopo sostenni quello necessario per entrare in seminario. Avrei dovuto dare questo secondo esame a Torino, ma la città era minacciata dal colèra, che serpeggiava nei paesi circostanti. Lo sostenni quindi nella casa Bertinetti, che in quel momento era affittata dal canonico Burzio, e che il signor Carlo Bertinetti avrebbe poi lasciato in eredità ai miei Salesiani.
Di passaggio, voglio sottolineare un dato, per far capire qual era l'atmosfera religiosa delle scuole di Chieri. In quattro anni non ricordo di aver ascoltato nemmeno un discorso cattivo o una parola contro la religione.
Finimmo il corso di retorica in venticinque. Tre proseguirono il corso di studi per diventare medici. Uno divenne commerciante. Gli altri ventuno cominciarono gli studi seminaristici per diventare sacerdoti.
In quelle vacanze scolastiche smisi di fare il saltimbanco, e mi diedi alla lettura di libri religiosi. Devo confessare con vergogna che fino a quel tempo li avevo trascurati.
Ho però continuato a occuparmi dei ragazzi. Li attiravano i miei racconti, i giochi vivaci, i canti. Molti, anche tra i più grandi, non conoscevano le verità della fede. Tra giochi e racconti insegnavo loro il catechismo e le preghiere cristiane. Era una specie di oratorio: una cinquantina di ragazzi che mi amavano e mi obbedivano come se fossi stato loro padre.
IL CAMMINO DI UNA GRANDE IDEA (1835 - 1845)
1. VESTE NERA
Deporre l'uomo vecchio
Avevo deciso di diventare sacerdote e avevo dato l'esame per entrare in seminario.Ora mi preparavo al giorno in cui avrei indossato l'abito dei chierici. Mi rendeva pensoso la persuasione che (in via ordinaria) la salvezza o la perdita dell'anima nostra dipende dall'orientamento che diamo alla nostra vita.
Ho raccomandato a diversi amici di pregare per me. Ho fatto una novena. Nel giorno di san Raffaele, 25 ottobre, mi sono confessato e ho fatto la Comunione. Prima della Messa solenne il parroco di Castelnuovo, don Cinzano, benedisse l'abito da chierico e me lo fece indossare.
Mi comandò di posare gli abiti mondani con queste parole: « Il Signore ti svesta dell'uomo vecchio con le sue abitudini e i suoi modi, di agire ». E io dissi nel mio cuore: « Quanta roba vecchia c'è da togliere nella mia vita! Mio Dio, distruggerete le mie cattive abitudini ». Mi consegnò il collare bianco dicendo: « Il Signore ti vesta dell'uomo nuovo, creato secondo il cuore di Dio nella giustizia, nella verità e nella santità ». Mi sentii profondamente commosso, e dissi tra me: « Mio Dio, che io cominci davvero una vita nuova, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. Maria, siate voi la mia salvezza ».
« Sembravo un burattino vestito di nuovo »
Dopo la Messa, una sorpresa. Il parroco mi invitò ad accompagnarlo alla borgata Bardella, dov'era festa patronale. Con quell'invito voleva farmi un piacere, ma la festa si dimostrò poco adatta a me. Sembravo un burattino vestito di nuovo, che si presenta in pubblico per farsi ammirare.
Ci fu un altro inconveniente. Dopo settimane di raccoglimento per prepararmi a quella giornata, dovetti partecipare a un pranzo in mezzo a uomini e donne radunati per ridere, chiacchierare, mangiare, bere e divertirsi. Era gente che parlava di giochi, balli, partite. Che cosa potevano avere in comune con uno che poche ore prima aveva vestito un abito di santità per darsi tutto al Signore?
Il parroco se ne accorse. Nel ritorno a casa mi domandò perché fossi rimasto così pensieroso tra tanta allegria. Con franchezza risposi che la funzione del mattino faceva a pugni con... la funzione del pomeriggio. Aggiunsi:
- Ma non ha visto? Preti che facevano i buffoni tra i commensali, quasi ubriachi! Mi hanno reso quasi antipatica la figura del sacerdote. Se sapessi di diventare un prete così, preferirei togliermi subito questa veste, e vivere da povero cristiano. Mi rispose:
- Il mondo è fatto così, e bisogna prenderlo com'è. Bisogna vedere il male per poi evitarlo. Nessuno diventa un buon soldato senza conoscere l'uso delle armi. Noi che siamo sempre in battaglia contro il nemico delle anime, dobbiamo agire così. Stetti zitto. Ma nel cuore dissi:
- Non parteciperò mai più a banchetti pubblici, se non sarà assolutamente necessario per la gloria di Dio.
Nei giorni che seguirono, riflettei a lungo sul mio stile di vita. Dovevo capovolgerlo radicalmente. Non ero stato un malvagio fino a quel giorno, certo. Ma in me avevano dominato la dissipazione, l'orgoglio, la smania di giocare, di saltare, di divertirmi: tutte cose che danno gioia sul momento, ma che non soddisfano il cuore.
7 punti fissi per uno stile di vita diverso
Per fissare uno stile di vita diverso, che avrei conservato per sempre, scrissi sette propositi:
1. Non prenderò più parte a spettacoli pubblici. Non parteciperò a fiere né a mercati. Non andrò a vedere balli e teatri. Farò il possibile per non partecipare a pranzi e banchetti.
2. Non farò più il prestigiatore né il saltimbanco. Non camminerò sulla corda, non suonerò il violino, non andrò a caccia. Credo infatti che queste cose siano in contrasto con la vita di un prete.
3. Saprò trovare del tempo per riflettere e pensare. Sarò temperante nel mangiare e nel bere. Dormirò le ore strettamente necessarie alla salute.
4. Finora ho letto molti libri profani. D'ora innanzi leggerò libri di argomento religioso, per servire Dio.
5. Combatterò con ogni forza pensieri, discorsi, parole, letture contrarie alla castità. Metterò invece in pratica ogni minima cosa che serva a conservare questa virtù.
6. Ogni giorno pregherò il Signore. E ogni giorno farò un po' di meditazione e di lettura spirituale.
7. Racconterò ogni giorno fatti e pensieri che facciano del bene. Li racconterò a compagni, amici, parenti. Se non incontrerò nessuno, parlerò di cose buone almeno con mia madre.
Questi sono i propositi fatti nei giorni in cui ho vestito l'abito dei chierici. Perché mi rimanessero ben impressi nella mente, sono andato davanti a un'immagine della Madonna, li ho letti e ho fatto a lei promessa formale di osservarli a costo di qualsiasi sacrificio.
2. IL VIATICO DI MAMMA MARGHERITA
«Non è l'abito che fa onore»
Il 30 ottobre dovevo trovarmi in Seminario. Il mio modesto corredo era preparato. I familiari erano contenti, e io più di loro. Solo mia madre era pensierosa e mi avvolgeva con il suo sguardo. Voleva dirmi qualcosa e cercava il momento più opportuno.
La sera prima della partenza mi chiamò in disparte, e mi disse queste profonde parole:
- Giovanni, tu hai vestito l'abito del sacerdote. Io provo tutta la consolazione che una madre può provare per la buona riuscita di un figlio. Ricordati però che non è l'abito che fa onore, ma la virtù. Se un giorno avrai dubbi sulla tua vocazione, per carità, non disonorare quest'abito. Posalo subito. Preferisco avere come figlio un povero contadino che un prete trascurato nei suoi doveri. Quando sei nato ti ho consacrato alla Madonna. Quando hai cominciato gli studi ti ho raccomandato di voler sempre bene a questa nostra Madre. Ora ti raccomando di essere tutto suo, Giovanni. Ama quei compagni che vogliono bene alla Madonna. E se diventerai sacerdote, diffondi attorno a te l'amore alla Madonna.
Quando terminò queste parole, mia madre era commossa. Io piangevo. Le risposi:
- Madre, vi ringrazio di tutto quello che avete fatto per me. Queste parole non le dimenticherò mai. Le porterò con me come un tesoro per tutta la vita.
Al mattino prestissimo mi recai a Chieri, e la sera dello stesso giorno entravo in seminario.
Un programma stampato sul muro
Salutai i superiori, salii in camera a prepararmi il letto, e insieme all'amico Garigliano feci un lungo giro di esplorazione per i dormitori, i corridoi, il cortile. Dall'alto di un muro, una meridiana ci diede il primo saluto. Portava scritte queste parole: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae (Per chi soffre le ore sono lente, sono veloci invece per chi ha il cuore contento). Dissi a Garigliano:
- Ecco il nostro programma! Stiamo allegri, e il tempo passerà presto.
Subito dopo iniziarono i tre giorni di Esercizi Spirituali. Cercai di farli bene. Verso la fine, mi recai dal professore di filosofia, il teologo Tarnavasio di Bra, e gli chiesi qualche suggerimento per comportarmi bene e meritare la fiducia dei professori. Quel bravo prete rispose:
- Un suggerimento solo: compi con esattezza i tuo doveri. Presi quel consiglio come punto base della mia vita di seminario. Cercai di osservare con esattezza il regolamento e l'orario. Obbedivo con prontezza ai segnali dati dalla campana: sia quando ci chiamava allo studio e alla chiesa, sia quando ci invitava al refettorio, alla ricreazione, al riposo.
Questa esattezza facilitò l'amicizia con i compagni e la stima dei superiori.
I sei anni di seminario furono un'esperienza molto bella.
3. TAROCCHI IN SEMINARIO
« Come se passasse una bestia nera »
Le giornate del seminario sono più o meno sempre le stesse. Presenterò prima le persone e la vita di ogni giorno, poi racconterò alcuni avvenimenti.
Prima di tutto, una parola sui superiori. Volevo loro molto bene. Mi hanno sempre trattato con gentilezza. Ma non ero completamente soddisfatto. Il Rettore e gli altri superiori si andavano a visitare all'arrivo dalle vacanze e quando si ripartiva. Nessuno andava a parlare con loro, se non per ricevere qualche sgridata. Uno di loro, a turno, ci assisteva durante i pasti e a passeggio. I nostri « contatti » finivano li. Quante volte avrei voluto parlare con loro, chiedere consiglio. Avevo dei dubbi, e non sapevo mai a chi domandare una spiegazione. Se qualche superiore passava in mezzo ai seminaristi, era un fuggifuggi generale, come se passasse una bestia nera.
Tutto questo mi spingeva a bruciare i tempi. Volevo essere presto prete per cominciare uno stile diverso: stare in mezzo ai ragazzi, assisterli, far loro sentire la mia amicizia.
Una strana manovra per ricevere la Comunione
E ora, una parola sui compagni. Ho mantenuto la parola data a mia madre: sono diventato amico di quelli che volevano bene alla Madonna, si impegnavano nello studio ed erano esemplari in chiesa.
Devo riconoscere che nel seminario, accanto a chierici che conducevano una vita splendida, c'erano anche dei tipi pericolosi. Giovani che entrano in seminario senza troppi pensieri sulla vocazione, senza buono spirito e senza buona volontà, ce ne sono. Proprio in seminario ho ascoltato discorsi molto cattivi. Circolavano libri immorali e contro la religione: furono bloccati durante una revisione.
I tipi pericolosi, appena conosciuti, venivano allontanati. Oppure erano loro stessi che a un certo punto se ne andavano. Ma durante i mesi passati in seminario erano stati una peste, e la peste contagia buoni e cattivi.
Ho evitato questo pericolo scegliendo come amici ragazzi ottimi: Guglielmo Garigliano, Giovanni Giacomelli di Avigliana, e poi Luigi Comollo. Tre amici, un tesoro.
La vita religiosa era molto accurata. Ogni mattina la Messa era accompagnata dalla meditazione e dal rosario. A mensa stavamo in silenzio: si ascoltava la lettura della « Storia Ecclesiastica » del Bercastel. Confessione ogni quindici giorni. Chi voleva, poteva accostarsi alla confessione ogni sabato.
La santa Comunione si poteva ricevere solo alla domenica e nelle altre feste. Se qualcuno voleva nutrirsi dell'Eucaristia durante la settimana, doveva compiere una disubbidienza. Mentre gli altri scendevano per la colazione, entrava furtivamente nella chiesa di San Filippo. Ricevuta la Comunione, poteva raggiungere gli altri mentre entravano a scuola o nella sala di studio. Questa manovra era proibita dal regolamento. Ma i superiori, che vedevano benissimo ciò che capitava, non dicevano niente. Tacitamente approvavano.
Usando questo strano sistema, ho potuto fare la Comunione moltissime volte. E posso dire che essa fu il più efficace nutrimento della mia vocazione.
Questo particolare della vita seminaristica, che considero negativo, è stato ora cancellato dall'arcivescovo Gastaldi. I chierici, se si sentono preparati, possono ricevere l'Eucaristia tutti i giorni.
Re di coppe e fante di spade
Durante il tempo libero, il gioco comune era « barra rotta ». All'inizio ci presi un gusto matto. Ma poi pensai che era molto simile ai giochi dei saltimbanchi, a cui avevo deciso di rinunciare. Lo lasciai.
In certi giorni era permesso giocare ai tarocchi. Per un certo tempo fu il mio divertimento preferito. Ma anche qui c'era il dolce e l'amaro. Non ero un giocatore straordinario, tuttavia vincevo quasi sempre. Alla fine delle partite avevo le mani piene di soldi. Ma al vedere i miei compagni tristi perché li avevano perduti, diventavo più triste di loro. Inoltre, a forza di fissare l'attenzione sulle carte, mentre studiavo o pregavo avevo sempre in mente il re di coppe e il fante di spade. Per questi motivi, a metà del secondo anno di filosofia, decisi di smettere. Quando il tempo libero aveva una certa durata, organizzavamo allegre passeggiate nelle verdi località che circondano Chieri. Quelle passeggiate erano anche utili allo studio. S'improvvisavano vivaci gare di quiz, con domande-risposte sulle materie scolastiche.
Anche all'interno del seminario, quando pioveva o il tempo era rigido, ci davamo convegno nel salone da pranzo. Nascevano vivaci dispute sugli argomenti più svariati, di scuola e non di scuola. Quel « circolo scolastico », di cui ero presidente e giudice inappellabile, era per me un vero divertimento, ed era utile per lo studio, la bontà e la salute. Le domande più interessanti le poneva sempre Luigi Comollo, che era entrato in seminario un anno dopo di me. Domenico Peretti, che sarebbe diventato parroco di Buttigliera, parlava come un giovane oratore, e aveva sempre una risposta pronta ad ogni problema. Garigliano parlava poco, ma ascoltava con molta attenzione, e aggiungeva commenti e riflessioni illuminanti. Nelle nostre chiacchierate venivano a galla un sacco di argomenti e di notizie scientifiche, che nessuno era in grado di approfondire o rettificare. Allora ci dividevamo il lavoro. A ognuno veniva affidata una nozione, un argomento. Doveva approfondirlo, e riferire al « circolo » i risultati della sua ricerca.
La manica tirata da Luigi
Sovente la mia ricreazione era interrotta da Luigi. Mi tirava per una manica, mi invitava a seguirlo e mi conduceva in chiesa. Lì mi faceva pregare: visita al SS. Sacramento, preghiera per gli agonizzanti, recita del rosario, ufficio della Madonna per le anime del purgatorio.
Quel ragazzo meraviglioso fu una grande fortuna per me. Sapeva scegliere il momento più adatto per avvisarmi, farmi una correzione, dirmi una parola di incoraggiamento. Faceva tutto con tanta gentilezza e carità che provavo piacere ad essere richiamato da lui.
Eravamo molto amici. Tentavo di imitarlo, ma ero cento chilometri indietro. Tuttavia, se non sono stato rovinato dai compagni più dissipati, se ho perseverato seriamente nella mia vocazione, lo debbo a lui.
In una sola cosa non ho nemmeno tentato di imitarlo: nella mortificazione. Aveva solo 19 anni e digiunava rigorosamente per tutta la quaresima, digiunava ogni sabato in onore della Madonna. Sovente saltava la colazione, a volte pranzava a pane e acqua. Sopportava con dolce pazienza le parole sgarbate, gli atteggiamenti di freddo disprezzo. In chiesa e a scuola era esatto in tutto.
Mi sembrava impossibile che riuscisse a tanto. Più che un amico, era un ideale per me, un modello altissimo di virtù, uno stimolo continuo a scuotere la pigrizia per essere un poco come lui.
4. VACANZE
Nei campi a mietere il grano
Le vacanze sono in genere un grosso pericolo per i chierici.
Ai miei tempi lo erano ancora di più, perché duravano quattro mesi e mezzo.
Cercavo di occupare il tempo a leggere e a scrivere, ma non riuscendo ad impormi un certo orario, sovente non concludevo niente. Ammazzavo il tempo in lavori manuali. Lavoravo con il tornio, la pialla, la forgia, tagliavo e cucivo abiti, confezionavo scarpe. Nella mia casa di Morialdo ci sono ancora uno scrittoio, una tavola da pranzo e alcune sedie, «capolavori» fabbricati in quelle vacanze.
Poi impugnavo la falce ed entravo nei prati a falciare l’erba, nei campi a mietere il grano. Scendevo in cantina a preparare le botti, a pigiare l’uva, a spillare il vino nuovo. Solo nei giorni festivi potevo tornare ad occuparmi dei ragazzi. Molti toccavano i 16-17 anni, e non sapevano niente della fede. Provavo molto piacere a fare loro catechismo.
A ragazzetti di tutte le età, veramente smaniosi di imparare, insegnavo a leggere e a scrivere. La scuola era gratuita, ma le condizioni che mettevo erano assiduità, attenzione e confessione mensile. Alcuni non accettavano, e si ritiravano. Ma non fu un danno: gli altri capivano che non si trattava di una cosa da nulla, e s’impegnavano seriamente.
«Popolare, popolare, popolare»
Con l’approvazione del mio parroco, cominciai a fare prediche e discorsi. Nel paese di Alfiano, nelle vacanze del 1838, predicai alla festa della Madonna del Rosario. Dopo il primo anno di teologia parlai nella chiesa di Castelnuovo: era la festa di San Bartolomeo apostolo. A Capriglio predicai per la Natività della Madonna.
Non so quale nutrimento spirituale ricevesse la gente dalle mie prediche. Dappertutto mi applaudivano, e finii per lasciarmi guidare dalla vanità. Ma un giorno ricevetti una buona lezione.
Avevo appena finito di predicare sulla Natività della Madonna, e volli sentire il parere di una persona che aveva l’aspetto intelligente. Mi coprì di elogi che non finivano più:
- La sua predica sulle anime del Purgatorio è stata splendida!
E io avevo parlato sulla grandezza della Madonna…
Ad Alfiano ho voluto sentire il parere del parroco, don Giuseppe Pelato, persona di profonda fede e di molta esperienza.
- Mi dica schiettamente cosa pensa della mia predica.
- Molto bella, ordinata. L’ha esposta in buona lingua e con molti pensieri scelti dalla Bibbia. Continuando così, diventerà un predicatore molto ricercato.
- Ma la gente avrà capito?
- Poco. Ha capito mio fratello prete e pochissimi altri.
- Eppure erano pensieri facili.
- Sembrano facili a lei, ma per la gente sono troppo elevati. Ragionare toccando di passaggio pensieri della Bibbia e avvenimenti della storia ecclesiastica è bello, ma la gente non segue.
- Cosa mi consiglia di fare?
- Bisogna abbandonare la lingua e lo stile dei classici, parlare in dialetto o anche in italiano se si vuole, ma in maniera popolare, popolare, popolare. Invece di fare ragionamenti, raccontare esempi, fare paragoni semplici e pratici. Si ricordi che la gente segue poco, e che le verità della fede bisogna esporle nella maniera più facile possibile.
Quel consiglio paterno mi servì per tutta la vita.
Conservo ancora, per mia vergogna, quei primi discorsi.
Quando li prendo in mano, non vedo altro che vanità e desiderio di essere «alla moda». Dio misericordioso mi ha mandato quella preziosissima lezione, che mi servì nelle prediche, nei catechismi, nello scrivere libri.
5. GIORNI LIBERI SULLE COLLINE DEL MONFERRATO
Volavano minacce e bicchieri
Quando dicevo che le vacanze sono pericolose, intendevo parlare di me. A un povero chierico può capitare sovente di trovarsi in pericoli seri, anche senza accorgersene. A me accadde proprio così. Un anno, alcuni miei parenti mi invitarono ad una festa. Non volevo andarci. Un mio zio però insistette, dicendomi che non c'era nessun chierico che aiutasse il parroco nelle funzioni in chiesa. Dopo molte insistenze, finii per accettare.
Presi parte alla santa Messa servendo all'altare e cantando. Poi arrivò l'ora del pranzo. All'inizio tutto bene. Ma quando il vino cominciò a rendere tutti allegri (e alcuni un po' brilli), cominciarono a circolare discorsi che per un chierico sono intollerabili. Provai a deviare la conversazione, ma la mia voce si perse nel baccano generale.
Non sapevo più cosa fare, e decisi di andarmene. Presi il cappello e mi alzai. Ma lo zio mi trattenne. Un commensale, ormai ubriaco, cominciò a insultare tutti i presenti. Un altro, pure ubriaco, si alzò e tentò di avventarsi contro di lui. Nacque uno schiamazzo da bettola, un volo di minacce e di bicchieri. Volarono anche piatti e bottiglie, cucchiai e forchette. Qualcuno tirò fuori il coltello.
Capii che l'unica cosa furba che potevo fare era andarmene, e me ne andai. Arrivato a casa, rinnovai l'impegno che avevo preso più volte: evitare le occasioni di dissipazione per non rovinare l'amicizia con Dio.
Il violino frantumato
Un altro fatto spiacevole mi capitò a Croveglia, frazione di Buttigliera. Si celebrava la festa di san Bartolomeo, e fui invitato da un altro zio a prendere parte alle funzioni di chiesa. Avrei dovuto servire all'altare, cantare e suonare il violino. Questo strumento musicale mi era molto caro, ma vi avevo rinunciato nel giorno della vestizione chiericale.
In chiesa, le cose andarono molto bene.
Il pranzo si tenne nella casa di mio zio, priore della festa, e non ci furono inconvenienti.
Dopo pranzo, i commensali mi invitarono a suonare qualcosa, per fare un po' d'allegria. Rifiutai. Un musicista presente insistette:
- Io farò la prima voce. Lei almeno mi faccia un po' d'accompagnamento.
Sono degno di disprezzo perché non seppi dire di no. Suonai per alcuni minuti, poi sentii un bisbigliare, un agitarsi di gente. Mi affacciai alla finestra, e vidi nel cortile una folla di persone che al ritmo della nostra musica ballava allegramente. Quanta rabbia provai in quel momento!
- Ma come? - dissi ai commensali. - Io predico contro i balli pubblici, e voi me ne fate organizzare uno nel vostro cortile? Non capiterà mai più.
Frantumai in mille pezzi il mio violino. Non ripresi mai più in mano quello strumento, nemmeno quando si presentarono occasioni di servirmene in chiesa.
L'ultima caccia
Ancora un fatto avvenuto durante le vacanze.
Durante l'estate e l'autunno catturavo uccelli con i sistemi allora in uso: il vischio, le gabbie, a volte il fucile. Un mattino vidi sfrecciare una lepre. La inseguii. Di campo in campo, di vigna in vigna, finii per attraversare valli e arrampicarmi su colline.
Ci vollero ore. Finalmente l'animale fu a tiro, e lo centrai con una fucilata. La povera bestiola cadde, e provai una grande tristezza a vederla morire. Alcuni amici mi avevano seguito, e si congratularono per il bel colpo. Ma io mi guardai: ero in maniche di camicia, senza veste, con un cappello di paglia come un contrabbandiere, dopo una corsa di cinque chilometri fatta con un fucile in mano. Ne fui mortificatissimo. Chiesi scusa agli amici per quello spettacolo poco decoroso, e tornai immediatamente a casa.
Per la seconda volta feci il proposito di non andare mai più a caccia. Con l'aiuto del Signore, questa volta mantenni la promessa. Dio mi perdoni lo scandalo dato in quel giorno. Questi tre fatti furono per me una lezione unica. Se si vuol vivere sul serio al servizio del Signore, bisogna moltiplicare i momenti di raccoglimento e lasciare i divertimenti troppo materiali. Non che siano un'offesa di Dio in se stessi, ma durante questi divertimenti si fanno discorsi, si usa un forma di vestire, di parlare e di agire che mettono in pericolo l'amicizia con Dio. Egli ci ha comandato di essere puri nei pensieri, nelle parole e nelle azioni.
Cucinare un pollo
Fui sempre amicissimo di Luigi Comollo, finchè Dio lo con-servò in vita. Nelle vacanze, molte volte andavo a casa sua, e lui veniva a casa mia. Ci scrivevamo anche delle lettere. Io vedevo in lui un vero « ragazzo santo », e gli volevo bene perchè in lui c'era una bontà rara. Quando eravamo insieme lo aiutavo nello studio, e cercavo di imitarlo un poco.
Dopo il primo anno di teologia venne a passare una giornata con me. Mio fratello e mia madre erano nei campi per la mietitura. Mi fece leggere la predica che doveva tenere alla festa dell'Assunta, e la recitò davanti a me come se fosse davanti al pubblico della chiesa.
Il tempo passava, e a un tratto ci accorgemmo che era l'ora del pranzo. Eravamo soli in casa, e non avevamo le idee molto chiare sul come si prepara un pasto.
-Io accendo il fuoco -disse Luigi. -Tu prepara la pentola. Poi qualcosa faremo cuocere.
-Mia madre mi ha detto di cucinare un pollo -dissi a mia volta. -Ci servirà da primo e da secondo. Bisogna però andarlo a prendere nell'aia.
Dopo un po' di inseguimento, acciuffammo un galletto piuttosto giovane. Ora si trattava di ammazzarlo. Ma chi se la sentiva? Nè io nè lui. Giungemmo ad un compromesso: Luigi avrebbe appoggiato il collo del galletto su un tronco, e io col falcetto l'avrei troncato. Menai il colpo, e tagliai netta la testa del pollo. Al vedere schizzare il sangue, però, ci spaventammo tutti e due. Ci tirammo precipitosamente indietro.
Dopo qualche istante di tristezza, Luigi reagì: -Siamo proprio due sciocchi. Il Signore ci ha dato gli animali della terra come nostro cibo. Perchè allora tanta ripugnanza?
Coraggiosamente spennammo il pollo, lo facemmo cuocere e lo mangiammo.
Avrei voluto andare a Cinzano ad ascoltare la predica di Luigi sull'Assunta. Ma anch'io quel giorno dovevo predicare in una parrocchia. Andai perciò a Cinzano il giorno dopo. Le parole di Luigi erano piaciute moltissimo, e molti mi manifestarono la loro soddisfazione.
Improvvisare su san Rocco
Quel 16 agosto era la festa di san Rocco. Noi chiamiamo quel giorno «festa della pignatta», perchè i parenti e gli amici si invitano a pranzo, e poi trascorrono insieme alcune ore di allegria.
Ciò che mi capitò in quel giorno mostra fino a che punto arrivava la mia audacia. Doveva arrivare un predicatore per parlare di san Rocco. Ma all'ora di salire sul pulpito non si era ancora visto nessuno. Il parroco di Cinzano era sulle spine. Erano venuti dai paesi vicini molti parroci per la festa, e io a un certo punto (vedendo che il parroco non sapeva che pesci prendere) passai dall'uno all'altro, pregando che qualcuno dicesse una buona parola a tutta la gente che si era radunata in chiesa.
Nessuno se la sentiva. Qualcuno anzi, davanti alle mie insistenze, rispose seccato:
-Ma lei è un incosciente! Crede che improvvisare un discorso su san Rocco sia come bere un bicchiere di vino? Provi a farlo lei!
Quella persona aveva parlato ad alta voce, e tutti lo approvarono rumorosamente. Mortificato, ma stuzzicato nel mio orgoglio, risposi:
- Non osavo farmi avanti. Ma visto che nessuno se la sente, il discorso lo faccio davvero io. In chiesa fu intonato un canto sacro, perché avessi il tempo di radunare le idee. Avevo letto la vita di san Rocco. Raccolsi mentalmente le notizie e i fatti principali, e salii sul pulpito. Feci un discorso tra i più belli che mai avessi fatto.
«Spero di bere un vino migliore»
Quello stesso giorno, uscii a fare quattro passi con Luigi Comollo. Salimmo su una collina da cui si vedeva una vasta estensione di prati, campi e vigneti.
- Guarda che siccità quest'anno! - dissi. - I raccolti sono scarsissimi. Poveri contadini: tanto lavoro e nessun risultato. – E’ la mano del Signore che pesa su di noi - rispose. - Credimi: la causa di tutto sono i nostri peccati.
- Speriamo che l'anno prossimo il Signore ci dia una stagione migliore.
- Lo spero anch'io. Fortunati coloro che potranno viverla. - Dai, non parliamo di cose tristi. Per quest'anno, pazienza. Ma l'anno prossimo ci sarà una vendemmia favolosa, vedrai. E berremo un vino ottimo!
- Tu lo berrai.
- E tu? Continuerai a bere la tua solita acqua? - No. Spero di bere un vino molto migliore. - Cosa vuoi dire?
- Lasciamo perdere. Il Signore sa.
- Non cambiare discorso. Cosa vuoi dire con quelle parole: « Spero di bere un vino migliore »? Andartene in Paradiso? - Io non sono certo di andare in Paradiso dopo la mia morte, ma lo spero profondamente. Da qualche tempo ho un desiderio così grande di andare nella casa di Dio, che mi sembra impossibile vivere ancora a lungo su questa terra.
Luigi diceva queste cose con il volto pieno di gioia. La sua salute in quel momento era ottima, e si preparava a tornare con me in seminario.
6. NOTIZIE DALL'ALDILA'
L'ultimo sguardo fu come una firma
Scrivendo la biografia di Luigi Comollo, ho narrato gli avvenimenti che precedettero e accompagnarono la sua morte santa. Chi desidera conoscerli, può leggerli in quelle mie pagine.
Qui voglio solo ricordare un fatto che nella biografa ho appena sfiorato, ma che fece parlare molta gente. Eccolo.
La nostra amicizia era così profonda che parlavamo apertamente di tutto ciò che ci poteva accadere. Parlammo anche della possibilità che uno di noi morisse.
Un giorno, dopo aver letto insieme un lungo brano della vita di un santo, un po' per ridere un po' sul serio uno di noi disse: - Sarebbe bello che il primo che muore tra noi due, venisse a portare all'altro notizie dell'al di là.
Dopo averne parlato molte volte, abbiamo fatto un patto: - Il primo che muore, se Dio lo permette, verrà a dire all'altro se è salvo.
Non pensavo che questo patto fosse una cosa importante. L'abbiamo fatto con una certa leggerezza (non consiglierò mai nessuno a fare un patto simile!). Tuttavia, specialmente durante l'ultima malattia di Luigi, l'abbiamo confermato e rinnovato molte volte. Anzi, posso dire che le sue ultime parole, il suo ultimo sguardo, furono una specie di firma su quel patto. Molti compagni conoscevano la faccenda che Luigi ed io avevamo fatto. Dio è onnipotente, Dio è misericordioso. Ordinariamente non fa caso di questi patti. Ma qualche volta, nella sua infinita misericordia, permette che si compiano, come avvenne per me.
«Bosco, io sono salvo!»
Luigi Comollo morì il 2 aprile 1839. La sera del giorno dopo fu sepolto con grande rimpianto nella chiesa di san Filippo. Quelli che conoscevano il nostro patto erano ansiosi di vedere ciò che sarebbe capitato. Io ero ansiosissimo. Speravo che la « notizia » che Luigi mi avrebbe fatto arrivare, avrebbe smorzato la grande pena che provavo per la sua scomparsa.
La sera di quel giorno ero a letto in un dormitorio che ospitava circa venti seminaristi. Ero tutto agitato. « In questa notte si adempirà la promessa », pensavo.
Verso le undici e mezzo, un cupo rumore si fece sentire nei corridoi. Sembrava che un grosso carro trascinato da molti cavalli si andasse avvicinando alla porta del dormitorio. Di minuto in minuto il rumore si faceva più cupo, come un tuono. Tutto il dormitorio tremava. I chierici, spaventati, balzarono dai loro letti e si strinsero insieme in un angolo. Fu allora che si udì, in mezzo a quel tuono cupo e violento, la chiara voce di Luigi Comollo. Disse tre volte: « Bosco, io sono salvo! ».
Tutti i chierici udirono il rumore. Molti sentirono la voce ma non capirono le parole. Alcuni, come me, le capirono benissimo, tanto che per molto tempo furono poi tramandate di bocca in bocca. Fu la prima volta che mi ricordo di aver avuto paura. Una paura tale che mi causò una grave malattia, e mi portò vicino alla tomba.
Non darò mai a nessuno il consiglio di ripetere la promessa che Luigi ed io avevamo fatto. Dio è onnipotente, Dio è misericordioso. Ordinariamente non fa caso di questi patti. Ma qualche volta, nella sua infinita misericordia, permette che si compiano, come avvenne per me.
7. LE PAROLE COL NOCCIOLO DI DON BOREL
Centoventi lire preziose
In seminario mi sono sempre trovato bene. Ero amico dei compagni e di tutti i superiori.
Nel sesto mese di ogni anno scolastico si dava un esame in tutte le materie di studio. Chi riportava i voti migliori nello studio e nella condotta, riceveva un premio di 60 lire. Con l'aiuto di Dio, nei sei anni trascorsi in seminario ho sempre ottenuto quel premio.
Nel secondo anno di studi teologici ebbi la carica di sacrestano. Carica da poco, ma che dava diritto ad altre 60 lire ogni anno. Con un atto di bontà i superiori me la concessero. Con il premio scolastico e lo « stipendio » di sacrestano, potevo pagarmi metà pensione. L'altra metà me la pagava il caritatevole don Cafasso. Come sacrestano dovevo tener pulite la chiesa, la sacrestia, l'altare. Dovevo badare a lampade e candele, e tenere in ordine gli arredi e gli oggetti che si usano nei riti liturgici.
Parole col nocciolo
In quell'anno ebbi la fortuna di conoscere uno dei migliori preti di Torino, don Giovanni Borel. Era venuto a predicarci gli Esercizi Spirituali. Lo conobbi in sacrestia, e rimasi colpito dall'aria allegra e dalle parole scherzose che avevano sempre un nocciolo spirituale.
Osservai la sua preparazione e il suo ringraziamento alla santa Messa, il suo contegno pieno di fede durante la celebrazione, e mi accorsi subito che era uno splendido sacerdote.
Nella sua predicazione ammirai la popolarità, la vivacità, la chiarezza, il fuoco di carità che sprizzava dalle parole. Era facile capire che ci trovavamo davanti a un santo. Andammo tutti a confessarci da lui. Molti gli parlarono della propria vocazione, e gli chiesero una parola come ricordo. Anch'io andai a parlargli dei miei problemi spirituali. Gli chiesi un consiglio, perché avevo sempre paura di smarrire lo spirito della mia vocazione durante l'anno, e specialmente durante le vacanze. Mi rispose:
- Frequentare la Comunione e sapersi raccogliere in silenzio davanti a Dio, conservano la vocazione e formano un vero prete.
Quegli Esercizi Spirituali fecero un gran bene a tutti. Anche molto tempo dopo ricordavamo quelle parole che ci avevano tanto aiutato.
8. CURVO SULLE PAGINE BIANCHE
Un piccolo libro che spalanca l'orizzonte
Nei miei studi stavo commettendo un grave errore. Durante le scuole superiori avevo letto per giorni e per notti le opere dei classici pagani. Ammiravo moltissimo le leggende della mitologia greca e romana, esposte in lingua smagliante.
Le opere degli scrittori cristiani, al confronto, non mi piacevano. Finii per convincermi che la religione cristiana non va d'accordo con la buona lingua e l'alta poesia. Le stesse opere dei grandi Padri della Chiesa mi sembravano composizioni di poco valore. I principi religiosi erano esposti con forza e chiarezza, ma l'arte mi sembrava lontana da quelle pagine.
Fortunatamente la Provvidenza mi aiutò a cambiare parere. All'inizio del secondo anno di studi filosofici, un giorno andai a far visita a Gesù presente nel tabernacolo. Non avevo con me il libro delle preghiere, e lessi alcuni capitoli di un libro che trovai nel banco, l'Imitazione di Cristo. Fui sbalordito dalla profondità del pensiero e dalla esposizione semplicissima e bellissima. Pensai: «L'autore di questo libro era un grande scrittore».
Tornai più volte a leggere quel piccolo, grandissimo libro, e scoprii che in una sua sola riga c'era più sapienza che nei grossi volumi dei classici antichi.
La lettura dell'Imitazione di Cristo segnò per me la fine delle letture profane. Subito dopo lessi la Storia dell'Antico e del Nuovo Testamento del Calmet, Le Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, Ragionamenti sulla Religione di mons. Marchetti, le opere di Frayssinous, Balmes, Zucconi e molti altri scritti sul Cristianesimo. Mi piacque molto la Storia Ecclesiastica del Fleury (non sapevo che quei venti volumi fossero sconsigliati). Provai un piacere ancora maggiore nel leggere i libri di Cavalca, Passavanti, Segneri, e la Storia della Chiesa di Henrion.
Qualcuno penserà: « Le letture di tutti questi libri non era un ostacolo per gli studi scolastici? » Posso rispondere tranquillamente di no, perché continuavo ad avere una memoria felicissima. Per la scuola mi bastava seguire le lezioni e leggere i libri di testo. Le ore destinate allo studio, io potevo dedicarle alla lettura. I superiori lo sapevano, e mi lasciavano fare.
A tu per tu con Omero
Uno studio che mi stava molto a cuore era il greco. Avevo cominciato a studiare questa lingua classica nelle scuole superiori. Avevo studiato la grammatica e mi ero impegnato nelle prime traduzioni.
Una buona occasione per approfondire questo studio mi capitò nel 1836. Torino era minacciata dal colèra. I Gesuiti decisero di far uscire dalla città i loro convittori del Collegio del Carmine. Li ospitarono nella casa destinata alla villeggiatura, il Castello di Montaldo Torinese. Poiché ospitarono contemporaneamente gli alunni interni e quelli esterni, ebbero bisogno di un numero doppio di assistenti e di insegnanti ripetitori. Don Cafasso, al quale i Gesuiti si erano rivolti per la segnalazione di qualche chierico disponibile, fece il mio nome per assistere una camerata e fare il ripetitore di greco.
L'occasione mi spinse a occuparmi seriamente di questa lingua. Io insegnavo i primi elementi, e contemporaneamente approfondivo lo studio. Tra i Gesuiti c'era un certo padre Bini, grecista di grande valore. Mi aiutò in maniera notevole. In quattro mesi mi aiutò a tradurre tutto il Nuovo Testamento, i primi due libri dell'Iliade di Omero, parecchie odi di Pindaro e di Anacreonte. Poiché dimostravo buona volontà, quel degno sacerdote continuò ad aiutarmi. Per quattro anni, ogni settimana, gli mandavo una traduzione dal greco in italiano o dall'italiano in greco. Egli la correggeva puntualmente e me la rispediva con le opportune osservazioni. In questa maniera potei maneggiare la lingua greca con la stessa facilità con cui già maneggiavo la lingua latina.
In quel tempo studiai anche francese, e affrontai i primi elementi dell'ebraico. Dopo l'italiano e il latino, mi fu sempre caro occuparmi di queste tre lingue: greco, ebraico, francese.
9. PRETE PER SEMPRE
Una domanda all'Arcivescovo
Nel 1840, l'anno seguente alla morte di Luigi Comollo, ricevetti la tonsura e i quattro ordini minori. Era il mio terzo anno di studi teologici.
Subito dopo cominciai a pensare che potevo guadagnare un anno di studio durante le vacanze. Il permesso, in quei tempi, si concedeva molto raramente. Senza farne parola con nessuno, mi presentai da solo all'Arcivescovo mons. Fransoni. Gli chiesi di studiare le materie del quarto anno durante l'estate, così da concludere il quinquennio teologico nell'anno scolastico 1840-41. La ragione che portai era la mia età: avevo già compiuto 24 anni.
L'Arcivescovo mi accolse con bontà. Esaminò i risultati degli esami sostenuti finallora. Mi concesse il favore a patto che prima di novembre avessi dato tutti gli esami prescritti per il quarto anno. Il teologo Cinzano, parroco di Castelnuovo, fu designato come esaminatore.
In due mesi di studi intensi preparai e sostenni gli esami prescritti e fui ammesso a ricevere l'ordine del suddiaconato.
Un pensiero che fa tremare
Se ripenso a quel passo decisivo della mia vita, sono convinto che non ero abbastanza preparato, perché non avevo tutte le qualità positive necessarie. Tuttavia, non avendo nessuno che si curasse direttamente della mia vocazione, mi consigliai con don Cafasso. Egli mi disse di andare avanti senza paura, di stare alla sua parola.
Per dieci giorni mi chiusi nel silenzio degli Esercizi Spirituali nella Casa della Missione in Torino. Feci la confessione generale, cioè il riesame totale della mia vita, per domandare al confessore se gli sembravo in grado di impegnarmi per sempre. Desideravo andare avanti, ma tremavo al pensiero di legarmi per tutta la vita. Per questo non volli prendere la decisione di procedere sulla strada del sacerdozio prima di aver avuto il parere pienamente positivo del confessore.
Da quel momento ho messo il massimo impegno nell'osservare il consiglio di don Borel: «Frequentare la Comunione e sapersi raccogliere in silenzio davanti a Dio, conservano la vocazione e formano il vero prete».
Rientrai in seminario e fui iscritto al quinto anno. Fui anche nominato assistente, la « carica massima » che può capitare addosso a un povero chierico.
Il 19 marzo 1841 ricevetti l'ordine del diaconato. Il 5 giugno sarei stato ordinato prete.
Fu un giorno di tristezza quello in cui dovetti lasciare definitivamente il seminario. I superiori mi volevano bene, e me lo manifestavano in ogni occasione. I compagni mi erano molto amici. Si può dire che io vivevo per loro, e loro vivevano per me. Chi aveva da farsi radere la barba, ricorreva a me. Chi aveva bisogno di una berretta da prete, di cucire o rattoppare un vestito, cercava me.
La separazione da questa casa dove avevo vissuto sei anni della mia vita, dove avevo ricevuto educazione, cultura e spirito sacerdotale, insieme a segni di bontà e di affetto, mi costò moltissimo.
La prima Messa
Fui ordinato sacerdote il 5 giugno 1841, vigilia della festa della SS. Trinità. La mia prima Messa l'ho celebrata nella chiesa di san Francesco di Assisi, assistito da don Cafasso. Mi aspettavano ansiosamente al mio paese, dove da molti anni non si era avuta una prima Messa. Ma ho preferito celebrarla a Torino senza rumore. Quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel momento in cui si ricordano le persone care, ho ricordato a Dio i miei professori e tutti quelli che mi avevano fatto del bene. Ho ricordato specialmente il caro don Calosso, che ho sempre considerato grande e insigne benefattore.
Lunedì andai a celebrare la mia seconda Messa nel Santuario della Madonna Consolata. Ringraziai la Vergine Maria dei tanti favori che mi aveva ottenuto dal suo Figlio Gesù.
Martedì mi recai a Chieri e celebrai la Messa nella chiesa di san Domenico. Viveva ancora il mio professore don Giusiana. Mi abbracciò con affetto. Durante quella Messa pianse a lungo per la commozione. Ho passato con lui tutto quel giorno: una giornata di Paradiso.
Giovedì era la festa del Corpus Domini (allora festa di precetto). Cantai la santa Messa al mio paese, circondato dai miei cari. Siccome si svolgeva anche la solenne processione, portai il SS. Sacramento per le strade di Castelnuovo. Il parroco volle invitare a pranzo i miei parenti, i sacerdoti e le autorità del paese. Mi volevano tutti bene, e ognuno era contento insieme con me.
La sera di quel giorno tornai alla mia casa.
Quando fui vicino ai luoghi dove avevo vissuto da ragazzo, e rividi il posto dove avevo avuto il sogno dei nove anni, non potei frenare la commozione. Dissi:
- Quanto sono meravigliose le strade della Provvidenza! Dio ha veramente sollevato da terra un povero fanciullo, per collocarlo tra i suoi prediletti.
10. QUANDO IL CAVALLO S'IMPIZZARI'
« Avevo sempre intorno tanti ragazzi »
A Castelnuovo, nell'anno della mia ordinazione (1841), non c'era un viceparroco. Per cinque mesi esercitai quel ministero. Provavo molta soddisfazione nel lavorare per la parrocchia. Predicavo tutte le domeniche, facevo visita ai malati, amministravo i Sacramenti. Non potevo ancora confessare, perché non avevo dato l'esame di confessione. Assistevo anche alle sepolture, tenevo in ordine i registri parrocchiali, redigevo certificati di povertà e altri certificati che la gente richiedeva.
Ma la mia gioia era fare catechismo ai ragazzi, stare con loro, parlare con loro. Cominciavo a farmi amici i piccoli di Castelnuovo. Quando uscivo dalla casa parrocchiale, erano lì ad aspettarmi. Dovunque andassi, venivano con me, come ad una festa. Venivano anche a trovarmi i ragazzi di Morialdo. Quando poi tornavo alla mia casa, ai Becchi, li avevo sempre intorno.
Un frullare di passeri suda testa del cavallo
Trovavo molta facilità nel parlare alla gente, e quindi ero molto ricercato per fare omelie e discorsi nelle feste patronali. Verso la fine di ottobre fui invitato a Lavriano a parlare nella festa di san Benigno. Accettai volentieri perché era il paese di don Giovanni Grassino, mio collega e amico. Mi preparai bene. Scrissi il mio discorso in lingua popolare ma pulita, e lo studiai. Ero sicuro di fare una bella figura. Ma Dio diede una terribile lezione alla mia vanità.
Era domenica, e prima di partire dovetti dire la Messa per la gente di Castelnuovo. Per arrivare poi a tempo a Lavriano, non andai a piedi ma a cavallo.
Avevo percorso metà strada al trotto e al galoppo. Mi trovavo nella valle di Casalborgone tra Cinzano e Bersano, quando da un campo seminato a miglio si alzò di colpo uno stormo di passeri. Quel frullare rumoroso e improvviso spaventò il mio cavallo, che scattò in una corsa frenetica per campi e prati. Cercai di tenermi saldamente in sella, ma a un tratto mi accorsi che essa cedeva e scivolava di lato. Tentai di raddrizzarla, ma uno scarto improvviso mi catapultò in alto. Caddi riverso sopra un mucchio di pietre.
« Rinvenni in una casa sconosciuta »
Un uomo aveva assistito da una collina alla mia brutta avventura, e scese di corsa insieme ad un aiutante. Mi trovò svenuto. Con delicatezza mi portò in casa sua e mi distese sul letto migliore che aveva. Mi prestò tutte le cure possibili, e dopo un'ora rinvenni. Mi meravigliai di essere in una casa sconosciuta. - Non si spaventi - mi disse subito quel brav'uomo. - Vedrà che qui non le mancherà niente. Ho già mandato a chiamare il medico, e un mio lavorante è andato a ricuperare il cavallo. Io sono solo un contadino, ma in casa mia troverà tutto il necessario. Si sente molto male?
- Dio la ricompensi della sua carità, mio caro amico. Non credo di aver niente di grave. Non posso muovere una spalla, e ho paura che si sia rotta. Qui dove sono?
- Sulla collina di Bersano, in casa di Giovanni Calosso, soprannominato Brina. Lei non mi conosce, ma anch'io ho girato il mondo e ho avuto bisogno degli altri. Sono stato un frequentatore di fiere e di mercati, e me ne sono capitate tante! - Mentre attendiamo il medico, perché non mi racconta qualche sua avventura?
- Ne avrei tante da raccontare! Molti anni fa, tanto per fare un esempio, ero andato ad Asti con la mia asina. Dovevo far provviste per l'inverno. Tornando, la mia povera bestia era fin troppo carica. Mentre ero nelle valli di Moriondo, scivolò in un pantano e stramazzò nel bel mezzo della strada. I miei sforzi per rimetterla in piedi non servirono a niente. Era mezzanotte, pioveva ed era buio pesto. Non sapevo più a che santo raccomandarmi, e mi misi a gridare aiuto. Dopo alcuni minuti, qualcuno mi rispose da un casolare vicino. Con delle fiaccole accese per fare un po' di luce, vennero in mio aiuto un chierico, suo fratello e due altri uomini. Mi aiutarono a scaricare l'asina, la tirarono fuori dal fango e mi ospitarono in casa loro. Io ero mezzo morto, imbrattato di fango dalla testa ai piedi. Mi pulirono, mi prepararono un'ottima cena, poi mi fecero dormire in un letto morbidissimo. Prima di ripartire, il mattino dopo, volevo pagare il disturbo, come mi pareva mio dovere. Il chierico rifiutò gentilmente dicendo: «Domani anche noi potremmo avere bisogno di lei ».
Si accorse che avevo gli occhi rossi
A quelle parole mi sentii commosso. Quel brav'uomo si accorse che avevo gli occhi rossi e domandò:
- Si sente male?
- No. Questo suo racconto è bello e commovente.
- Era proprio una brava famiglia, quella che incontrai quella notte. Potessi far qualcosa per loro lo farei volentieri.
- Come si chiamava?
- La famiglia dei Bosco, chiamati in dialetto « Boschètt ». Ma perché si commuove di nuovo? Conosce per caso quelle persone? Quel chierico sta bene?
- Quel chierico, mio caro amico, è questo sacerdote che lei ha accolto in casa sua. Lei mi ha ricompensato mille volte per quello che ho fatto quella notte. Mi ha portato svenuto nella sua casa, mi ha messo nel suo letto. La divina Provvidenza ci ha voluto far vedere con i fatti che chi fa del bene, trova del bene.
È difficile immaginare la gioiosa meraviglia di quel buon cristiano, e anche la mia. Dio, nella disgrazia, mi aveva fatto reincontrare un così caro amico. Informati dell'accaduto, la moglie, una sorella che viveva con lui, altri parenti e amici furono molto contenti di venire a salutare il « chierico » di cui tante volte avevano sentito parlare. Usarono con me ogni gentilezza.
Il medico giunse poco dopo, e fortunatamente non trovò fratture. Dopo il tempo necessario ad assorbire la botta, potei rimettermi a cavallo e tornare a casa. Giovanni « Brina » mi volle accompagnare. Da allora siamo sempre stati in cordiali rapporti di amicizia.
Dopo quell'incidente feci un proposito molto deciso: i miei discorsi, d'ora innanzi, li avrei preparati per dar gloria a Dio, non per far bella figura.
11. IMPARARE AD ESSERE PRETE
Tre stipendi rifiutati
Sul finire di quell'estate mi vennero offerti tre incarichi. Una famiglia signorile di Genova mi chiese come maestro privato. L'onorario sarebbe stato di mille lire all'anno.
I miei compaesani di Morialdo, desiderando vivamente che mi fermassi tra loro, mi pregarono di accettare il posto di cappellano. Mi garantivano che avrebbero raddoppiato lo stipendio consueto.
Mi venne pure offerto il posto di viceparroco a Castelnuovo. Prima di prendere una decisione mi recai a Torino a consultare don Cafasso, che da parecchi anni era diventato mio consigliere nelle decisioni materiali e spirituali. Quel santo prete ascoltò tutto: l'offerta di buoni stipendi, l'insistenza di parenti e amici, la mia grande volontà di lavorare. Alla fine, senza esitazione, mi disse:
- Non accetti niente. Venga qui al Convitto Ecclesiastico. Lei ha bisogno di completare la sua formazione studiando morale (la scienza che insegna a vivere cristianamente) e predicazione.
Accettai volentieri il consiglio, e il 3 novembre entrai nel Convitto.
Don Guala, il grande professore
Nel Convitto Ecclesiastico si imparava ad essere preti. Nei seminari, infatti, si dava molta importanza allo studio delle verità della fede e alle discussioni per approfondirle. La morale si limitava ad affrontare i problemi più difficili e incerti. Il Convitto completava gli studi del seminario.
Il tempo era impiegato in meditazione, letture spirituali, due lezioni al giorno (di morale), lezioni di predicazione, momenti di raccoglimento e riflessione. C'era tempo e comodità di studiare e leggere buoni autori.
A capo del Convitto Ecclesiastico erano due persone celebri per sapienza e santità: il teologo Luigi Guala e don Giuseppe Cafasso.
Don Guala era il fondatore dell'opera. Durante l'occupazione francese del Piemonte (1797-1814) aveva dimostrato una carità inesauribile. Uomo disinteressato, ricco di scienza, prudenza, coraggio, aveva fondato il Convitto perché dopo gli studi del seminario i giovani sacerdoti potessero imparare a fare i preti. Da quest'opera venne un gran bene per la Chiesa: furono specialmente sradicate alcune radici giansenistiche che continuavano ad allignare nella Chiesa piemontese.
Una delle questioni più agitate nella scienza morale era quella detta « del probabilismo e del probabiliorismo ». Alla testa dei « probabilioristi » erano alcuni autori rigidi, tra cui Alasia e Antoine. Il loro comportamento rigoroso poteva portare ad atteggiamenti giansenistici. I « probabilisti » seguivano gli insegnamenti morali di sant'Alfonso. Oggi la Chiesa ha proclamato questo santo « dottore della Chiesa », e il suo pensiero si può chiamare «il pensiero del Papa», perché il Papa ha dichiarato che le sue opere si possono insegnare, predicare, praticare, seguire senza alcun pericolo.
Il teologo Guala si collocava in maniera ferma al di sopra di ogni discussione. Al centro di ogni problema metteva la carità del Signore, e riusciva così a non cedere né al rigorismo né al permissivismo. Grazie alla sua azione, sant'Alfonso divenne il maestro delle scuole teologiche piemontesi, con conseguenze ottime.
Don Cafasso, la guida spirituale
Braccio destro del teologo Guala era don Cafasso. Egli riuscì a sciogliere l'ultimo ghiaccio che rimaneva tra probabilioristi e probabilisti con una calma imperturbabile, una carità delicatissima, usando tanta prudenza e tanta finezza.
Un altro uomo molto prezioso del Convitto era il teologo Felice Golzio. La sua vita modesta fece poco scalpore, ma fu un aiuto inestimabile per don Guala e don Cafasso, con un lavoro instancabile, una profonda umiltà e una mente limpidissima.
Questi tre grandi preti di Torino lavorarono con vero zelo nelle carceri e negli ospedali, sui pulpiti e nelle case dei malati. I frutti della loro carità beneficarono città e paesi, entrarono nei palazzi dei ricchi e nelle case dei poveri.
Furono questi i tre modelli che la divina Provvidenza mi pose davanti. Dipendeva solo da me copiarli nella mia vita.
Ragazzi dietro le sbarre
Don Cafasso da sei anni era ormai la mia guida spirituale. Se ho fatto qualcosa di bene nella vita lo devo a lui. Domandavo il suo consiglio in ogni scelta, ogni progetto, ogni orientamento del mio lavoro sacerdotale.
Egli cominciò a condurmi a visitare i carcerati. Nelle prigioni imparai a conoscere quanto è grande la malignità e la miseria degli uomini. Vedere un numero grande di ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sani, robusti, intelligenti, vederli là oziosi, tormentati dalle cimici e dai pidocchi, senza pane e senza una parola buona, mi fece inorridire.
Quei giovani infelici erano una macchia per la nostra patria, un disonore per le famiglie. Erano umiliati fino alla perdita della propria dignità. Quello che più mi impressionava era che molti, quando riacquistavano la libertà, erano decisi a vivere in maniera diversa, migliore. Ma dopo poco tempo finivano di nuovo dietro le sbarre.
Cercai di capire la causa, e conclusi che molti erano di nuovo arrestati perché si trovavano abbandonati a se stessi. Pensavo: «Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro, li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi, o almeno sarebbero ben pochi a tornare in prigione ». Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo aiuto cercai il modo di tradurlo in realtà. Avevo molta confidenza nel Signore, perché sapevo che senza il suo aiuto ogni nostro sforzo è vano.
12. « HO 16 ANNI E NON SO NIENTE »
Il ragazzo che scappò a gambe levate
Un gruppo di ragazzi divennero miei amici già nei primissimi giorni della mia entrata al Convitto. Me li trovavo intorno quando dovevo uscire lungo i viali e le piazze. Mi seguivano anche nella sacrestia della chiesa del Convitto. Non disponevo però di un locale per radunarli e per dare un minimo di stabilità al mio progetto di aiutarli.
Fu uno strano incidente a provocare la realizzazione di quel progetto. Da quell'avvenimento derivò la mia azione a favore dei giovani che vagavano per le vie della città, e specialmente di quelli che uscivano dalle carceri.
Nella festa dell'Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841), nell'ora che mi era stata fissata, stavo indossando i paramenti per celebrare la santa Messa. II sacrestano, Giuseppe Comotti, vedendo un ragazzo in un angolo, lo invitò a servire la Messa.
- Non sono capace - rispose tutto mortificato. - Dai, vieni a servire questa Messa - insistette. - Ma non sono capace, non l'ho mai servita.
- Allora sei un bestione! - si infuriò il sacrestano. - Se non sai servire Messa, perché vieni in sacrestia? - Sempre in furia, afferrò la canna che gli serviva per accendere le candele e la menò sulle spalle e sulla testa del povero ragazzo, che scappò a gambe levate. Allora gridai al sacrestano:
- Ma cosa fa? Perché picchia quel ragazzo? Che male le ha fatto?
- Viene in sacrestia e non sa nemmeno servir Messa! - E per questo bisogna picchiarlo?
- A lei cosa importa?
- Importa molto, perché è un mio amico. Lo chiami subito. Ho bisogno di parlare con lui.
«Mia madre è morta »
Il sacrestano gli corse dietro gridando: «Ehi, ragazzo! ». Lo raggiunse, lo tranquillizzò e lo riportò accanto a me. Mortificato e tremante stava lì a guardarmi. Gli domandai con amorevolezza:
- Hai già ascoltato la Messa?
- No.
- Vieni ad ascoltarla. Dopo ho da parlarti di un affare che ti farà piacere.
Me lo promise. Desideravo far dimenticare a quel poveretto le botte ricevute e cancellare la pessima impressione che doveva avere sui preti di quella chiesa. Celebrai la santa Messa, recitai le preghiere di ringraziamento, poi lo condussi in una cappellina. Con la faccia allegra gli assicurai che più nessuno l'avrebbe picchiato, e gli parlai:
- Mio caro amico, come ti chiami? - Bartolomeo Garelli.
- Di che paese sei? - Di Asti.
- È vivo tuo papà? - No, è morto.
- E tua mamma?
- Anche lei è morta. - Quanti anni hai? - Sedici.
- Sai leggere e scrivere? - Non so niente.
- Hai fatto la prima Comunione? - Non ancora.
- E ti sei già confessato?
- Sì, ma quando ero piccolo. - E vai al catechismo?
- Non oso. - Perché?
- Perché i ragazzi più piccoli sanno rispondere alle domande, e io che sono tanto grande non so niente. Ho vergogna. - Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo? - Molto volentieri.
- Anche in questo posto?
- Purché non mi prendano a bastonate.
- Stai tranquillo, nessuno ti maltratterà. Anzi, ora sei mio amico, e ti rispetteranno. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?
- Quando lei vuole. - Stasera?
- Va bene.
- Anche subito?
- Con piacere.
Tutto nacque da una lezione di catechismo
Mi alzai e feci il segno della santa Croce per cominciare. Mi accorsi però che Bartolomeo non lo faceva, non ricordava come doveva farlo. In quella prima lezione di catechismo gli insegnai a fare il segno di Croce, gli parlai di Dio Creatore e del perché Dio ci ha creati.
Non aveva una buona memoria, tuttavia, con l'attenzione e la costanza, in poche lezioni riuscì a imparare le cose necessarie per fare una buona confessione e, poco dopo, la sua santa Comunione.
A Bartolomeo si aggiunsero altri giovani. Durante quell'inverno radunai anche alcuni adulti che avevano bisogno di lezioni di catechismo adatte per loro. Pensai soprattutto a quelli che uscivano dal carcere. Toccai con mano che i giovani che riacquistano la libertà, se trovano un amico che si prenda cura di loro, sta loro accanto nei giorni festivi, trova per loro un lavoro presso un padrone onesto, li va a trovare qualche volta lungo la settimana, dimenticano il passato e cominciano a vivere bene. Diventano onesti cittadini- e buoni cristiani.
Questo è l'inizio del nostro Oratorio, che fu benedetto dal Signore e crebbe come non avrei mai immaginato.
13. IL PRIMISSIMO ORATORIO
Dopo il catechismo, raccontare un bel fatto
Durante quel primo inverno cercai di consolidare il piccolo Oratorio. Il mio scopo era di raccogliere soltanto i ragazzi più esposti al pericolo di rovinarsi, specialmente quelli usciti dalle carceri.
Tuttavia, per avere una base di ordine e di bontà, invitai all' Oratorio anche altri ragazzi istruiti e di buona condotta. Questi mi davano una mano nel conservare un po' di ordine, e mi aiutavano a far lettura e a eseguire canti sacri. Mi accorsi fin dall'inizio, infatti, che senza canti e senza libri di lettura divertente, le nostre riunioni festive sarebbero state un corpo senz'anima.
Il 2 febbraio 1842, festa della Purificazione di Maria (allora festa di precetto), con una ventina di ragazzi cantammo in chiesa per la prima volta Lodate Maria, o lingue fedeli. All'Annunciazione, 25 marzo, eravamo già in trenta. In quel giorno abbiamo fatto un po' di festa. Al mattino i ragazzi si confessarono e fecero la Comunione. Alla sera eseguimmo un canto sacro, e dopo il catechismo raccontai un bel fatto. La cappellina dove ci eravamo riuniti finallora cominciava a diventare stretta, quindi ci trasferimmo nella cappella accanto alla sacrestia.
Giuseppe Buzzetti, il ragazzo fedelissimo
Tento di dare un'abbozzo della vita di quel primissimo Oratorio. Nella mattina dei giorni festivi ognuno aveva la comodità di accostarsi ai sacramenti della Confessione e Comunione. Tutti si impegnavano a compiere questo dovere cristiano una volta al mese. La sera, a un'ora fissata, c'era il catechismo, preceduto da un canto sacro, e seguito dalla narrazione di un bel fatto. Poi distribuivo qualche cosa a tutti, oppure a qualcuno tirato a sorte.
Fra i giovani che frequentavano il primissimo Oratorio ricordo Giuseppe Buzzetti, fedelissimo ad ogni incontro. Egli si affezionò talmente a don Bosco e all'Oratorio, che per non mancare mai arrivò a rinunciare al ritorno annuale in famiglia, a Caronno Ghiringhello (ora Caronno Varesino), quel ritorno tanto aspettato dai suoi fratelli e amici. Ricordo i suoi fratelli Carlo, Angelo e Giosuè. Ricordo Giovanni Gariboldi e suo fratello. Allora erano semplici garzoni, ora sono capomastri.
La maggioranza dei ragazzi era formata da scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori che venivano da paesi lontani. Non conoscevano le parrocchie di Torino, non sapevano quali erano i compagni di lavoro di cui si potevano fidare. Erano esposti a mille pericoli morali, specialmente nei giorni festivi. Don Guala e don Cafasso erano felici di quella mia attività. Mi davano volentieri immagini, foglietti, libretti, medaglie, piccoli crocifissi da regalare. Quando ci fu necessità mi diedero anche il necessario per comprare vestiti. Ad alcuni che stavano cercando lavoro procurarono il pane per molte settimane.
La festa dei piccoli muratori
Quando i ragazzi cominciarono ad essere numerosi, don Guala e don Cafasso mi permisero di portare il mio piccolo esercito a giocare nel cortile del Convitto. Il cortile era piccolo, altrimenti il numero sarebbe salito velocemente ad alcune centinaia. In quei pochi metri quadrati, invece, ci stavano a malapena ottanta ragazzi.
Nelle ore in cui i ragazzi si confessavano, don Guala e don Cafasso venivano ad assisterli, e li intrattenevano raccontando fatti ed esempi.
Nel giorno di sant'Anna, patrona dei muratori, don Guala volle che facessimo una bella festa. Dopo la Messa del mattino invitò tutti a fare colazione nel Convitto. La grande sala delle conferenze ospitò cento giovani. A tutti furono serviti caffè, latte, cioccolato, panini, brioche, cornetti, pasticcini. I ragazzi ne erano ghiottissimi, e li accolsero con entusiasmo. L'eccitazione raggiunse vertici altissimi, e il racconto della festa passò di bocca in bocca. Se il salone fosse stato più ampio, quanti ragazzi in più sarebbero venuti!
« Mantenevo i contatti con i ragazzi in carcere »
La festa la passavo tutta in mezzo ai miei giovani. Durante la settimana andavo a visitarli sul luogo del loro lavoro, nelle officine, nelle fabbriche. Questi incontri procuravano grande gioia ai miei ragazzi, che vedevano un amico prendersi cura di loro. Facevano piacere anche ai padroni, che prendevano volentieri alle loro dipendenze giovani assistiti lungo la settimana e nei giorni festivi.
Ogni sabato tornavo nelle prigioni con la borsa piena di frutti, pagnotte, tabacco. Il mio scopo era di mantenere i contatti con i ragazzi che per disgrazia erano finiti là dentro, aiutarli, farmeli amici, e invitarli a venire all'Oratorio appena fossero usciti da quel luogo triste.
14. LA VOLONTA' DI DIO INDICA VALDOCCO
Quaranta ragazzi attorno a un confessionale
Mentre iniziavo l'Oratorio, cominciavo pure a predicare nelle chiese di Torino, nell'Ospedale di Carità, all'Albergo di Virtù (istituzione che dava ospitalità a un centinaio di ragazzi poveri), nelle carceri, nel Collegio di san Francesco da Paola. Mi impegnavo nella predicazione di tridui, novene ed Esercizi Spirituali.
Dopo due anni di Convitto potei dare l'esame di confessione. Da quel momento ho potuto ricevere i giovani che volevano riconciliarsi con Dio e dare loro il suo perdono. Nelle carceri, nell'Oratorio e dovunque ne avevo la possibilità, potei aiutare i giovani con più efficacia a crescere nella bontà e nella vita di figli di Dio.
Era per me una gioia durante la settimana, e soprattutto nei giorni di festa, vedere il mio confessionale attorniato da quaranta o cinquanta giovani, che aspettavano pazientemente il loro turno per riconciliarsi con Dio.
Ciò che ho narrato nelle ultime pagine fu l'andamento normale dell'Oratorio per quasi tre anni, dal dicembre dei 1841 all'ottobre del 1844.
Intanto avvenimenti nuovi, mutamenti e anche sofferenze si affacciavano all'orizzonte. La Provvidenza ci guidava.
« Vedo una folla di ragazzi che mi domanda aiuto »
Dopo tre anni di preparazione, venne l'ora di scegliere un lavoro sacerdotale nella vita della chiesa torinese.
Don Giuseppe Comollo, il vecchio e cadente zio di Luigi, parroco di Cinzano, chiese all'Arcivescovo di mandarmi come economo amministratore nella sua parrocchia. Per l'età e la salute precaria non poteva più gestirla da solo. L'Arcivescovo diede il suo consenso. Fu don Guala stesso che mi dettò la lettera in cui ringraziavo l'Arcivescovo Fransoni, ma declinavo l'invito. Egli, con don Cafasso, mi preparava un altro campo d'apostolato.
Un giorno don Cafasso mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: - Il corso dei suoi studi è terminato. Ora bisogna andare a lavorare. Ci sono però tante possibilità di lavoro nel campo del Signore. A che cosa si sente particolarmente portato?
- A ciò che lei mi indicherà.
- In questo momento ci sono tre possibilità: viceparroco a Buttigliera d'Asti, professore di morale qui al Convitto, direttore dell'Ospedaletto che sta sorgendo accanto al Rifugio. Cosa sceglie?
- Ciò che lei giudicherà più opportuno per me.
- Ma non sente un'inclinazione maggiore per un posto o per l'altro?
- La mia inclinazione è occuparmi della gioventù. Lei lo sa e decida come vuole. Nel suo consiglio vedrò la volontà di Dio. - In questo momento che cosa c'è nella sua mente? Cosa vede con la sua fantasia?
- Mi sembra di trovarmi in mezzo a una folla di ragazzi che mi domandano aiuto.
- Allora vada a fare qualche settimana di ferie. Quando tornerà, le dirò la sua destinazione.
Dopo le ferie, don Cafasso lasciò passare alcune settimane senza dirmi niente. E io zitto.
- Perché non mi domanda qual è la sua destinazione? - mi disse un giorno.
- Perché voglio fare la volontà di Dio quando e come lei mi indicherà. Non voglio metterci niente di mio.
- Faccia la valigia e vada da don Borel al Rifugio. Sarà direttore del piccolo Ospedale di santa Filomena. Lavorerà anche nell'Opera del Rifugio. Intanto Dio le indicherà ciò che deve fare per la gioventù.
« Ma dove radunare i miei ragazzi? »
A prima vista, quella decisione era in contrasto con le mie inclinazioni. Dovevo assumere la direzione di un ospedale, e inoltre predicare e confessare in un Istituto che ospitava quattrocento ragazze. Come avrei trovato il tempo necessario per l'Oratorio? Eppure, questa era la volontà di Dio. L'avvenire l'avrebbe dimostrato.
Fin dal primo momento in cui avevo conosciuto don Borel, avevo visto in lui un sacerdote santo, un modello da ammirare e da imitare. Tutte le volte che ero stato accanto a lui, avevo ricevuto efficaci lezioni di vita sacerdotale. Dava buoni consigli, e insieme sapeva entusiasmare al lavoro per Dio.
Nei tre anni che avevo trascorso al Convitto, mi aveva più volte invitato a predicare e a confessare al Rifugio, dove faceva il prete in maniera eccellente. Il campo del mio futuro lavoro, quindi, non soltanto lo conoscevo, ma mi era familiare.
Mi sono consultato più volte con lui per migliorare il mio lavoro nelle carceri (dove faceva apostolato pure lui) e per fissare le norme essenziali per un lavoro efficace tra i ragazzi. Il problema dei giovani abbandonati e in pericolo di rovinarsi richiamava sempre più l'attenzione dei sacerdoti torinesi. Ora, nella situazione nuova in cui mi venivo a trovare, come dovevo comportarmi? Dove radunare i miei ragazzi?
- La camera che le è stata destinata - mi disse don Borel - può servire per qualche tempo come punto d'incontro per i ragazzi che si radunavano a san Francesco d'Assisi. Quando poi potremo disporre dell'edificio che si sta preparando per i preti, accanto all'ospedaletto, cercheremo una soluzione migliore.
15. UN SOGNO CHE RITORNA
« Andai a letto con il cuore inquieto »
Il 12 ottobre 1844 era sabato. Il giorno dopo dovevo comunicare ai ragazzi che il nostro Oratorio si trasferiva nella periferia di Valdocco. Ma non sapevo dove li avrei radunati, come sarebbero stati accolti, chi mi avrebbe seguito e chi no. Quell'incertezza mi preoccupava. Alla sera andai a letto con il cuore inquieto.
In quella notte feci un nuovo sogno, che mi sembrò la continuazione di quello fatto ai Becchi quando avevo nove anni. In sogno mi trovai in mezzo a un esercito di lupi, di capre e capretti, di agnelli, pecore, arieti, cani, uccelli. Tutti insieme facevano un rumore, o meglio uno schiamazzo così terribile da far spavento ai più coraggiosi. Io volevo fuggire, ma una signora vestita come una pastorella mi invitò ad accompagnare quello strano gregge, mentre essa lo precedeva. Girovagando ci recammo in luoghi diversi, e ci fermammo tre volte. Ad ogni fermata molti di quegli animali si trasformavano in agnelli, così che il numero di questi animali mansueti aumentava sempre più. Dopo molto cammino mi sono trovato in un prato, dove gli animali saltellavano e brucavano l'erba insieme, senza nemmeno tentare di farsi del male a vicenda.
«Gli agnelli si mutavano in piccoli pastori »
Ero molto stanco e volevo sedermi ai bordi di una strada, ma la signora mi invitò a continuare il cammino.
Percorso un ultimo, breve tratto, eccoci in un vasto cortile. Aveva tutto intorno un porticato, e all'estremità una chiesa. Il numero degli agnelli divenne grandissimo. Sopraggiunsero parecchi pastori per custodirli. Ma si fermavano poco, presto se ne andavano. Allora successe una meraviglia: molti agnelli si mutavano in piccoli pastori, che crescendo si prendevano cura del gregge. I piccoli pastori diventavano sempre più numerosi. Allora si divisero in gruppi diversi, e andavano in altri luoghi, a raccogliere altri strani animali e a guidarli in luoghi sicuri.
Volevo andarmene, ma la signora mi invitò a guardare verso sud. Vidi un campo seminato a granturco, patate, cavoli, barbabietole, lattughe ed erbe varie. « Guarda un'altra volta », mi disse. Guardai di nuovo e vidi una chiesa alta e stupenda. C'era un'orchestra che stava per suonare, un coro che stava per cantare, e io ero invitato per cominciare la Messa. All'interno della chiesa correva una fascia bianca su cui, a caratteri enormi, stava scritto: Questa mia casa. Di qui uscirà la mia gloria.
« Capii tutto quando gli avvenimenti si verificarono »
Nel sogno domandai alla signora dove mi trovavo, che cosa era tutto quel camminare, quelle fermate, e cos'erano quella casa, la prima chiesa, e la seconda chiesa. Mi rispose:
- Comprenderai tutto quando vedrai con gli occhi del tuo corpo quello che oggi vedi con gli occhi della mente.
Io però credevo di essere sveglio, e dissi:
- Vedo già adesso con gli occhi del mio corpo, e vedo chiaro. So dove vado e quello che faccio.
In quel momento suonò la campana dell'Ave Maria sul campanile di San Francesco, e mi svegliai.
Quel sogno era durato quasi tutta la notte. Vidi tanti particolari che qui non ho saputo descrivere. Allora credevo poco a ciò che avevo visto, e meno ancora capivo che cosa significasse. Ma capii tutto man mano che gli avvenimenti si verificarono. Anzi, questo sogno insieme a un altro, mi servì più tardi come programma delle mie decisioni.
16. NELLA CASA DELLA MARCHESA
La discesa verso Valdocco
13 ottobre, festa della Maternità di Maria. Comunico ai ragazzi il trasferimento dell'Oratorio presso il Rifugio della Marchesa Barolo. Noto un certo turbamento. Allora annuncio che là ci attende un vasto locale tutto per noi, per cantare, correre, saltare. Ne sono entusiasti. Ognuno attende domenica, impaziente di vedere le novità.
Terza domenica di ottobre, festa della purità di Maria SS. Subito dopo mezzogiorno una turba di ragazzi scende verso Valdocco, a cercare il nuovo Oratorio. Ci sono piccoli e grandi, apprendisti meccanici e garzoni muratori. Chiedono da ogni parte:
- Dov'è l'Oratorio? Dov'è don Bosco?
Nessuno ne sa niente. Di don Bosco e di Oratorio, nessuno in quella zona ha mai sentito parlare. I ragazzi, credendo di essere presi in giro, alzano la voce. La gente, pensando a un brutto scherzo, comincia a minacciare e a menare le mani. Le cose si mettono male. Fortunatamente sento gli schiamazzi e insieme a don Borel esco di casa. Ci corrono incontro, chiedendoci dove sia l'Oratorio.
Ho dovuto rispondere che il vero Oratorio non era ancora stato terminato, ma che intanto potevano salire nella mia camera. Era spaziosa e ci sarebbe servito benissimo. Quella domenica, infatti, le cose andarono abbastanza bene.
« Non è possibile andare avanti così »
La domenica successiva, però, ai ragazzi che arrivavano dalla città si aggiunsero molti giovani delle case vicine. Non sapevo più dove metterli. Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di ragazzi.
Il 1° novembre, festa dei Santi, a confessarli eravamo in due, don Borel ed io, ma quelli che volevano confessarsi erano duecento. Come fare? Come tenerli fermi? Uno voleva accendere il fuoco, un altro spegnerlo. Uno metteva a posto la legna, un altro rovesciava l'acqua. Secchio, paletta, molle, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri, tutto era sottosopra, perché tutti volevano mettere ordine. Il caro don Borel a un certo punto disse:
- Non è possibile andare avanti così. Bisogna trovare un locale più adatto.
Tuttavia, sei giornate festive le trascorremmo nella mia camera, collocata sopra l'entrata del Rifugio.
A colloquio con l'Arcivescovo
Nel frattempo, andammo ad esporre la situazione all'Arcivescovo Fransoni. Egli capì l'importanza della nostra iniziativa, e ci disse:
- Approvo tutto ciò che fate per il bene delle anime, e vi do tutte le facoltà che vi possono occorrere. Parlate con la Marchesa Barolo, forse potrà darvi un locale più adatto all'Oratorio. Però ditemi: questi ragazzi, non potrebbero recarsi nelle loro parrocchie?
- Quasi tutti sono ragazzi forestieri. Molti non hanno una residenza fissa, e passano a Torino solo una parte dell'anno. Non sanno nemmeno a che parrocchia appartengono. Parlano dialetti poco comprensibili, quindi capiscono poco e sono difficili da capire. Alcuni poi sono già grandi, e si vergognano di andare al catechismo insieme ai più piccoli.
L'Arcivescovo rifletté, poi disse:
- E’ proprio necessario un luogo a parte, adatto per loro. Cercatelo. Io benedico voi e il vostro progetto. Se potrò esservi di aiuto, tornate a parlarmi. Farò sempre ciò che potrò. Confortati da queste parole, ci recammo dalla Marchesa Barolo, e le esponemmo la situazione. Poiché 1'Ospedaletto non si sarebbe aperto fino all'agosto dell'anno successivo, essa permise che adattassimo a cappella due camere spaziose all'interno dell'edificio. (Nel progetto, esse erano destinate all'appartamento dei preti del Rifugio).
« Oratorio di San Francesco di Sales»: perché?
Questo era il luogo che la Provvidenza ci assegnava per la prima chiesa dell'Oratorio. Per raggiungerlo si doveva passare per la porta dell'Ospedale, percorrere il piccolo viale che separava l'edificio dal Cottolengo e salire per la scala interna fino al terzo piano.
Chiamammo l'Oratorio « di San Francesco di Sales » per due ragioni:
1. La Marchesa Barolo aveva l'intenzione di fondare una Congregazione di preti sotto la protezione di questo santo, e aveva fatto dipingere l'immagine di san Francesco di Sales all'entrata del locale che adattammo ad Oratorio.
2. Il nostro ministero esigeva grande calma e dolcezza. Ci eravamo perciò messi sotto la protezione di san Francesco di Sales perché ci ottenesse da Dio la sua straordinaria mansuetudine e il suo successo nell'apostolato.
C'era anche un'altra ragione. Gli errori contro la religione e specialmente il protestantesimo cominciavano ad insinuarsi pericolosamente nei nostri paesi, specialmente nella città di Torino. Ci mettevamo sotto la protezione di san Francesco di Sales perché ci aiutasse ad imitarlo nella difesa della fede.
8 dicembre 1844. E’ la festa di Maria Immacolata, fa molto freddo e sta nevicando in maniera impressionante. Con il permesso dell'Arcivescovo benediciamo la sospirata cappella. Celebro la santa Messa, e molti ragazzi fanno la loro confessione e Comunione. Durante la Messa, piango di consolazione perché l'Oratorio mi sembra ormai una cosa fatta. Potrò finalmente raccogliere i giovani più abbandonati e più in pericolo di incamminarsi per una cattiva strada. Potrò dar loro la possibilità di diventare amici del Signore.
17. L'ORATORIO SFRATTATO
Sette mesi di paradiso
Nella cappella vicino all'Ospedaletto di santa Filomena, l'Oratorio funzionava molto bene. Nei giorni di festa i ragazzi arrivavano numerosissimi per fare la confessione e la Comunione. Dopo la Messa facevo una breve spiegazione del Vangelo. Nel pomeriggio c'era tempo per il catechismo, l'esecuzione di canti sacri, una breve predica sulla dottrina cristiana, le litanie della Madonna, la benedizione con il SS. Sacramento.
Alternati a questi impegni c'erano giochi e gare che divertivano i ragazzi. Si svolgevano nel viale che correva tra il monastero delle Maddalene e la strada pubblica.
Trascorremmo così sette mesi. Ci sembrava di essere in paradiso. Invece, anche di là dovemmo partire per cercare un'altra sede.
La Marchesa di Barolo approvava ogni opera di carità. Ma il 10 agosto 1845 si sarebbe inaugurato il suo Ospedaletto per le ragazzine, e il nostro Oratorio doveva lasciare libero il locale avuto in prestito. Veramente, quelle due stanze (che ci servivano come cappella, scuola e luogo di ricreazione) non avevano nessuna comunicazione interna con 1'Ospedaletto. Persino le persiane erano state fissate con le stecche rivolte all'insù. Tuttavia abbiamo dovuto obbedire.
Emigrazione a San Martino
Rivolgemmo una domanda urgente al Municipio di Torino, accompagnata da una raccomandazione dell'Arcivescovo. Come risultato ci fu permesso di trasferire l'Oratorio alla chiesa di San Martino dei Molassi, cioè dei Mulini di città.
E così una domenica del luglio 1845 siamo andati a prendere possesso del nostro nuovo quartiere generale. Ognuno portava ciò che poteva, tra risate, tonfi, schiamazzi. Per il quartiere sfilavano bambini, ragazzi, panche, inginocchiatoi, candelieri, sedie, croci, quadri e quadretti. Una vera emigrazione fatta in allegria. In fondo al cuore, però, avevamo il rimpianto.
Don Borel e la predica dei cavoli
Alla partenza e all'arrivo don Borel tenne il suo bravo discorso. Con la vivacità popolaresca che lo rendeva tanto simpatico, quel bravissimo prete rialzò il morale a tutti:
- I cavoli, o amati giovani, per crescere con una testa bella e grossa, devono essere trapiantati. La stessa cosa dobbiamo dire del nostro Oratorio. È stato trapiantato da un luogo all'altro, ma ad ogni trapianto è cresciuto. I giovani che lo frequentano sono sempre più numerosi e più contenti. S. Francesco d'Assisi lo ha visto nascere con un po' di catechismo e un po' di canto. Là non si poteva fare di più. Nella prima stanzetta del Rifugio abbiamo fatto una fermata, come quelli che viaggiano in treno. In quelle settimane tutti hanno potuto avere un aiuto spirituale: la confessione, il catechismo, la spiegazione del Vangelo. E nei prati intorno abbiamo giocato allegramente.
Nel locale vicino all'Ospedaletto è cominciata la vera vita dell'Oratorio. Ci sembrava di aver trovato finalmente la nostra sede, avevamo tanta pace. Ma la divina Provvidenza ha permesso il nostro sfratto e ci ha mandati qui a San Martino.
Ci staremo molto tempo? Non lo sappiamo. Speriamo di sì. Comunque, noi crediamo che al nostro Oratorio capiterà come ai cavoli trapiantati: crescerà il numero dei giovani che vogliono diventare buoni, crescerà la nostra voglia di cantare e di suonare, cresceranno le scuole giornaliere e serali per tutti quelli che le desiderano.
Non pensiamo a quanto tempo passeremo qui, se ci staremo tanto o poco. Pensiamo invece che siamo nelle mani del Signore. Egli provvederà al nostro bene. È certo che egli ci benedice e ci aiuta. Penserà a darci sempre un luogo adatto per dare gloria a lui e per far del bene alle nostre anime.
Le grazie del Signore formano come una catena, in cui un anello è collegato con un altro anello. Se noi accettiamo le prime grazie che Dio ci dà, siamo sicuri che egli ce ne darà delle altre, ancora più grandi. Se noi oggi, frequentando l'Oratorio, miglioriamo la nostra condotta, Dio ci aiuterà a crescere nel bene per tutta la nostra vita. E alla fine raggiungeremo la patria che Dio ci ha preparato, e Gesù ci darà il premio che avremo meritato con le nostre opere buone.
Quelle parole furono ascoltate da un numero grandissimo di giovani. Al termine cantammo con commozione un inno di ringraziamento al Signore.
Voci strane e inquietanti
La vita religiosa, nel nuovo Oratorio, si svolgeva come al Rifugio. Ma c'erano delle difficoltà. Non ci era permesso celebrare la Messa, né dare la benedizione eucaristica. I ragazzi non potevano perciò fare la Comunione, che è l'elemento fondamentale del nostro Oratorio. La stessa ricreazione era molto disturbata: i ragazzi dovevano giocare sulla strada o sulla piazzetta davanti alla chiesa, mentre passavano carri e cavalli. Non avendo niente di meglio, ringraziavamo il Cielo per quel poco che ci aveva concesso, ma aspettavamo una località migliore. Ci caddero però addosso delle gravi opposizioni.
Gli addetti ai mulini e le loro famiglie erano disturbate dai giochi, dai canti e dalle grida dei nostri ragazzi. Cominciarono quindi a lamentarsi con il Municipio. Fu allora che cominciarono a diffondersi voci inquietanti nei nostri riguardi. I raduni dell'Oratorio, si diceva, erano pericolosi. Poiché i giovani obbedivano ad ogni mio cenno, la loro massa poteva essere usata per sommosse e rivoluzioni. Si diceva anche (senza nessuna prova) che i ragazzi guastavano tutto, in chiesa e fuori chiesa, che demolivano addirittura il selciato. Se non venivamo subito allontanati, sembrava che Torino dovesse crollare.
Una lettera con accuse gravi
Le voci giunsero a un punto tale che il segretario dei Mulini scrisse una lettera al Sindaco di Torino, elencando e ampliando tutte le accuse che ci venivano rivolte. Arrivò ad affermare che il nostro Oratorio era un centro di immoralità. La lettera terminava dichiarando che le famiglie addette ai Mulini non avrebbero più potuto adempiere ai loro doveri né vivere in pace finché noi non ce ne fossimo andati.
Il Sindaco capì benissimo che le accuse non avevano consistenza. Ma rispose con un'ordinanza che intimava la nostra immediata partenza. Ci fu molto rincrescimento, però abbiamo dovuto sgombrare.
È bene tuttavia notare che il segretario (qui don Bosco ne scrive il cognome, ma subito aggiunge « da non pubblicarsi mai ») dopo aver scritto quella lettera diffamatoria, non poté scriverne altre. Fu colpito da un violento tremito alla mano destra, e dopo tre anni morì. Suo figlio, abbandonato da tutti, venne a chiedere aiuto all'Oratorio di Valdocco, e ricevette pane e ospitalità. Così volle Dio.
18. FALLIMENTO A SAN PIETRO IN VINCOLI
La cuffia per traverso della domestica
Il Sindaco (come dicevo) e le autorità del Municipio sapevano benissimo che le accuse contro di noi erano senza fondamento. Così abbiamo fatto una nuova richiesta: di fare i nostri raduni nel cortile e nella chiesa del Cenotafio del SS.mo Crocifisso, chiamato dalla gente S. Pietro in Vincoli. Il Municipio, visto l'appoggio dell'Arcivescovo, diede il suo consenso.
Dopo due mesi passati a San Martino, quindi, abbiamo dovuto nuovamente emigrare. La nuova località sembrava più adatta all'Oratorio. Il lungo porticato, il cortile spazioso, la chiesa adatta alle sacre celebrazioni, eccitavano l'entusiasmo dei ragazzi. Sprizzavano gioia.
Ma in questa sede ci attendeva un potente nemico, che noi non conoscevamo ancora. Non era uno dei tanti defunti che riposavano nei vicini sepolcri. Era una persona viva: la domestica del cappellano. Appena questa donna senti i canti, le grida e (diciamolo pure) la baraonda degli oratoriani, si precipitò fuori della sua casa. Era furiosa. Con la cuffia di traverso e le mani sui fianchi cominciò a inveire contro la folla dei ragazzi che giocavano. Insieme con lei urlavano contro di noi una ragazzina, un cane, un gatto e tutto un branco di galline. Sembrava imminente lo scoppio di una guerra europea.
Cercai di avvicinare quella donna per calmarla. Le dissi che quei ragazzi non erano cattivi, che giocavano con vivacità ma non facevano nessun male. Allora si volse verso di me e mi coprì di contumelie.
L'ultima lettera di don Tesio
Capii che la cosa migliore era interrompere la ricreazione. Ho fatto un po' di catechismo, siamo andati in chiesa a recitare il Rosario, e poi ce ne siamo andati. Speravo di poter tornare la domenica dopo con più tranquillità. Invece la mia speranza naufragò miseramente.
Quando alla sera tornò il cappellano, la domestica gli sollevò attorno un polverone: diceva e ripeteva che don Bosco e i suoi ragazzi erano rivoluzionari, profanatori di luoghi santi, canaglie. Il buon cappellano finì per scrivere, sotto dettatura della domestica, una lettera al Municipio.
C'era tanto veleno in quella lettera, che fu immediatamente spiccato ordine di cattura per chiunque di noi fosse tornato in quel luogo.
Rincresce dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del cappellano don Tesio. La scrisse lunedì, e poche ore dopo mori stroncato da un colpo apoplettico. Due giorni dopo morì anche la domestica. La notizia si divulgò rapidamente e fece una profonda impressione, specialmente sui giovani. Tutti volevano conoscere i particolari della disgrazia. Ma a San Pietro in Vincoli era proibito radunarci. Dove potevamo fare le nostre riunioni? Non lo sapevano i ragazzi, ai quali non avevo potuto dare un punto di riferimento. E non lo sapevo nemmeno io.
19. TRE STANZE E UNO SFRATTO A PRIMAVERA
L'Oratorio sulle strade di Torino
La domenica dopo, moltissimi ragazzi si recarono a San Pietro in Vincoli: non erano stati avvertiti della proibizione ingiunta dal Municipio. Trovando tutto chiuso, si rovesciarono in massa all'Ospedaletto, dove continuavo ad abitare.
Cosa dovevo fare? Erano ammucchiati nella mia stanza quadri, panche e candelieri per le funzioni di chiesa, e bocce, trampoli e cerchi per la ricreazione. Un esercito di ragazzi mi seguiva dovunque. Ma io non avevo una spanna di terreno dove poterli radunare.
Riuscivo tuttavia a nascondere la mia delusione. Ero allegro con tutti, a tutti raccontavo le meraviglie dell'Oratorio, che per allora esisteva solo nella mente mia e nella mente di Dio.
Per occuparli allegramente nei giorni di festa, li conducevo in passeggiata fino a Sassi, alla Madonna dei Pilone, a Madonna di Campagna, al Monte dei Cappuccini e persino a Superga. In queste chiese, al mattino celebravo per loro la Messa e spiegavo il Vangelo, nel pomeriggio facevo un po' di catechismo, qualche racconto, cantavamo alcune lodi sacre. Quindi giri e passeggiate fino all'ora di far ritorno in famiglia. Sembrava che questa posizione critica dovesse mandare in fumo ogni idea di Oratorio, e invece aumentò in modo straordinario i ragazzi.
Le prime scuole serali in casa Moretta
Ma arrivò novembre (anno 1845). Il clima non era più adatto alle passeggiate e alle camminate fuori città. D'accordo con don Borel presi in affitto tre stanze nella casa di don Moretta, che è quella costruzione vicina, quasi di fronte all'attuale Santuario di Maria Ausiliatrice. A forza di riparazioni, oggi quella casa è stata praticamente rifatta.
Qui passammo quattro mesi. Eravamo molto allo stretto, ma almeno potevamo raccogliere i ragazzi, fare istruzione religiosa e offrire a tutti la possibilità di confessarsi. In quell'inverno abbiamo anche cominciato le scuole serali. Era la prima volta, nelle nostre zone, che si tentava un'iniziativa simile. Se ne parlò molto: parecchi erano favorevoli, altri contrari.
Fu in quel tempo che si diffusero alcune voci assai strane. Alcuni affermavano che don Bosco era un rivoluzionario, altri che era un eretico o un pazzo.
I parroci di Torino vogliono vederci chiaro.
Due rispettabili parroci di Torino ebbero un incontro con me a nome dei loro colleghi. Mi dissero:
- Questo Oratorio allontana i ragazzi dalle loro parrocchie. Il parroco vedrà presto la sua chiesa vuota. Non conoscerà nemmeno i giovani di cui deve rendere conto a Dio. Ci pensi, don Bosco. Smetta di raccogliere ragazzi e li mandi alle loro parrocchie.
- La maggior parte dei ragazzi che raccolgo - risposi - non possono turbare la vita parrocchiale, perché non conoscono né parroco né parrocchia.
- E come mai?
- Perché sono quasi tutti forestieri. I loro genitori sono venuti in città a cercare lavoro. Non l'hanno trovato, e andandosene li hanno lasciati qui. Oppure sono giovani che sono venuti da soli in città a cercare un'occupazione. Sono savoiardi, svizzeri, valdostani, biellesi, novaresi, lombardi.
- Perché non aiutarli a inserirsi nelle rispettive parrocchie? - Ma non le conoscono nemmeno.
- Bisogna aiutarli a conoscerle.
- Non è possibile. La diversità di dialetto, l'incertezza del domicilio, la non conoscenza della città rendono la faccenda difficile se non impossibile. Occorre aggiungere che molti di loro sono già grandi, toccano i diciotto, i venti, a volte i venticinque anni. E di religione non sanno niente. Chi è disposto a mettere giovani così nelle classi di catechismo accanto a bambini di otto o dieci anni?
- Non potrebbe condurli lei alle rispettive parrocchie, e poi venire là a fare lezioni di catechismo?
- Potrei al massimo recarmi in una parrocchia, non certo in tutte. Una soluzione sarebbe che ogni parroco venisse a raccogliersi i suoi, e li guidasse alla sua parrocchia. Ma anche così la cosa rimarrebbe difficile: non pochi sono dissipati, indisciplinati. Accettano catechismo e preghiere solo se sono attirati da ricreazioni e passeggiate. Ogni parrocchia dovrebbe quindi avere un luogo determinato dove radunarli con giochi e attrazioni.
- Questo è impossibile. Non abbiamo locali, e i preti nei giorni di festa hanno altro da fare.
- Dunque?
- Dunque lei continui a far del bene a questi giovani. Noi intanto discuteremo la situazione.
La primavera porta lo sfratto
I parroci torinesi discussero seriamente la questione: approvare o disapprovare gli Oratori? Non tutti erano dello stesso parere. La conclusione mi fu comunicata da don Agostino Gattino, curato di Borgo Dora, e da don Ponzati, curato di S. Agostino:
« I parroci di Torino, raccolti in conferenza, hanno discusso sull'opportunità degli Oratori. Si sono soppesate le ragioni del pro e del contro, i timori e le speranze. Non potendo ogni parroco dar vita a un Oratorio nella propria parrocchia, incoraggiano il sacerdote don Bosco a continuare nella sua opera, finché non sia stata presa una decisione diversa».
Mentre si succedevano questi avvenimenti, giungeva la primavera del 1846. Casa Moretta aveva molti inquilini. Stanchi degli schiamazzi dei ragazzi, del loro fracasso nell'entrare ed uscire, dichiararono che se ne sarebbero andati tutti se non cessavano immediatamente le nostre riunioni. Il buon prete don Moretta dovette venirmi ad esporre le lagnanze collettive. Se volevamo tenere in vita il nostro Oratorio, dovevamo cercare subito un'altra sede.
20. UN ORATORIO CHE HA PER TETTO IL CIELO
Confessare sulla riva di un fosso
Marzo 1846. Ancora una volta, con grande rincrescimento e notevole disagio, abbiamo fatto fagotto. Dai fratelli Filippi presi in affitto un prato (adesso è occupato da una fonderia di ghisa).'
L'Oratorio si trovò così a cielo scoperto, sull'erba di un prato, circondato da una siepe stentata che lasciava entrata. libera a tutti. I ragazzi andavano dai trecento ai quattrocento, e si trovavano benissimo in quell'Oratorio che aveva per tetto il cielo. Ma io dovevo risolvere questioni pratiche. Dove celebrare la Messa? Come dare la possibilità di fare la Comunione e di pregare? Tutto ciò che riuscivamo a fare era un po' di catechismo, qualche canto sacro, la recita dei vespri. Dopo le preghiere, don Borel oppure io salivamo su un rialzo del terreno o su una sedia, e parlavamo ai giovani. Ci ascoltavano sempre con tanta buona volontà.
Per le confessioni facevamo così. Di buon mattino, nei giorni di festa, mi recavo nel prato, dove già parecchi ragazzi mi aspettavano. Mi sedevo sulla riva di un fosso e ascoltavo chi voleva confessarsi. Gli altri facevano la preparazione o il ringraziamento. Al termine, cominciavano i giochi.
Con tromba e tamburo verso Superga
Ad una certa ora si suonava la tromba e i giovani si radunavano. Un altro squillo di tromba invitava al silenzio. Allora annunciavo dove saremmo andati ad ascoltare la santa Messa e a fare la Comunione.
Si partiva (come ho già detto) per il santuario della Consolata, per Madonna di Campagna, per Stupinigi o per un altro dei luoghi che ho sopra nominati.
Sovente, per raggiungere luoghi lontani, facevamo delle belle camminate. Ne descriverò una che ci portò fino a Superga. Dallo svolgimento di questa, sarà facile capire come si svolgevano anche le altre.
I giovani erano nel prato, giocavano alle bocce, alle piastrelle, si divertivano sui trampoli. Ad un tratto rullò il tamburo. Subito dopo la tromba diede i segnali di adunata e di partenza. Ci siamo recati tutti ad ascoltare la Messa, e dopo le 9 ci mettemmo in strada alla volta di Superga. Ci eravamo divisi i compiti di salmeria: chi portava i canestri del pane, chi gli involti del formaggio e del salame, chi i canestri della frutta. Finché fummo in città, cercammo di mantenerci in silenzio. Poi cominciarono gli schiamazzi, i canti, le grida. Ma continuavamo a stare in file ordinate.
Grida e schiamazzi: una splendida armonia
Ai piedi della salita che conduceva alla Basilica, trovammo un magnifico cavallino, bardato a festa. Lo aveva mandato don Anselmetti, parroco di Superga. Trovammo pure una lettera di don Borel, che ci aveva preceduti. Salii sul cavallo e lessi ad alta voce la lettera: « Venite su tranquilli. La minestra, la pietanza e il vino vi aspettano ». Quelle parole furono accolte da urla di gioia, applausi e ovazioni.
Ci avviammo insieme al cavallo cantando e schiamazzando. I più vicini facevano ruvide carezze all'animale, prendendolo per le orecchie, le narici, la coda. La brava bestia sopportava tutto con mansuetudine, dimostrando più pazienza di chi portava in groppa. In mezzo a tutto quel trambusto avevamo la nostra musica che cercava di farsi sentire: un tamburo, una tromba, una chitarra. Non andavano molto d'accordo, ma servivano a far rumore, e insieme alle voci scatenate dei ragazzi componevano una splendida armonia.
Mongolfiere verso il cielo
Alla sommità della collina eravamo sazi di ridere, scherzare, cantare, urlare. I ragazzi erano sudati, e per non esporci all'aria ci radunammo nel cortile del santuario. Fu subito distribuito il necessario per calmare il vigoroso appetito. Dopo un po' di riposo, li radunai e narrai minuziosamente la meravigliosa storia di quella basilica, delle tombe reali che conserva nei sotterranei, dell'Accademia Ecclesiastica' che vi era stata eretta da re Carlo Alberto con l'appoggio di tutti i vescovi dello Stato.
Don Guglielmo Audisio, preside dell'Accademia, regalò a tutti il pranzo. Il parroco aggiunse il vino e la frutta.
Per due ore, nel pomeriggio, visitammo i luoghi più interessanti. Poi ci radunammo in chiesa, dove era arrivata molta gente. Alle 15 salii sul pulpito e feci un breve discorso. Prima della benedizione eucaristica i nostri « cantori » eseguirono un bel Tantum Ergo per voci bianche. La gente ascoltò ammirata. Alle 18, sul piazzale, abbiamo lanciato verso il cielo alcune mongolfiere. Poi ringraziammo vivamente chi ci aveva ospitato con tanta cordialità, e ripartimmo per Torino. La strada fu percorsa tra un continuo cantare, ridere, correre, pregare. Giungemmo in città. Man mano che qualcuno passava vicino a casa sua, ci salutava. Quando arrivai al Rifugio rimanevano con me sette o otto giovani dei più robusti. Mi avevano aiutato a riportare gli attrezzi, i canestri, il tamburo.
21. TESTA A TESTA CON CAVOUR
« Se questo prete fosse generale d'armata... »
Quelle passeggiate accendevano nei giovani un entusiasmo enorme. L'Oratorio, quella mescolanza di preghiera, giochi, passeggiate, era ormai la loro vita. Ogni ragazzo era talmente mio amico che non solo obbediva a ogni mio cenno, ma era ansioso di fare qualcosa per me. Un giorno un carabiniere mi vide richiamare al silenzio quattrocento ragazzi con un solo gesto della mano, ed esclamò:
- Se questo prete fosse generale d'armata, potrebbe battere il più potente esercito del mondo.
Devo riconoscere che l'affetto e l'obbedienza dei miei ragazzi toccava vertici incredibili. Ma questo rafforzò la voce che don Bosco, coi suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una rivoluzione.
Il Marchese capo della polizia perde la pazienza
Era un voce ridicola, eppure trovò credito presso le autorità. In modo particolare destò i sospetti del marchese Michele di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, Vicario della città e quindi capo della polizia. Mi convocò nel Palazzo Municipale, mi fece una breve relazione sulle voci che circolavano sul mio conto, e concluse:
- Lei è un bravo prete. Accetti il mio consiglio: rimandi a casa loro quei mascalzoni. Possono dare soltanto dei dispiaceri a lei e alle autorità pubbliche. Ho le prove che le riunioni di questi giovani sono pericolose, e perciò non posso permetterle. - Signor Marchese - risposi, - io tento soltanto di migliorare la vita di questi poveri figli del popolo. Non cerco aiuti finanziari. Cerco solo un luogo dove radunarli. Con la mia attività rendo minore il numero di quelli che finiscono in prigione. - Si sbaglia, reverendo. Le sue fatiche sono inutili. Io non posso darvi una sede perché, lo ripeto, le vostre riunioni sono pericolose. E senza il mio aiuto non troverete più i mezzi per pagare fitti e spese. Vi ripeto: non posso più permettere le riunioni di questi vagabondi.
- Lei dice che le mie fatiche sono vane. Ma i risultati che ho ottenuto dicono il contrario. Molti giovani erano completamente abbandonati. Li ho raccolti, li ho tirati fuori da strade cattive, li ho avviati a una professione onesta. Non sono più finiti in carcere, come era già loro capitato. Quanto ai mezzi finanziari, non mi sono mai mancati: sono nelle mani di Dio, che a volte si serve di strumenti di scarso valore per realizzare i suoi disegni più grandi.
- Abbia pazienza e mi obbedisca. Io non posso più dare il mio permesso alle vostre riunioni.
- Lei non lo nega a me, Marchese, ma a questi giovani abbandonati. Così facendo, lei li spinge su una strada pericolosa. - Stia zitto. Non l'ho chiamata qui per discutere. Lei crea disordini che io devo e voglio stroncare. Non sa che è vietata ogni riunione pubblica se non è munita di regolare permesso? - Ma le mie riunioni non hanno scopo politico. Io insegno catechismo a dei poveri ragazzi, e lo faccio con il permesso dell'Arcivescovo.
- L'Arcivescovo è a conoscenza della sua attività?
- Certamente. Non ho mai fatto un passo senza il suo permesso.
- Io però non posso permettere queste riunioni.
- Signor Marchese, non vorrà mica proibirmi di far catechismo con il permesso dell'Arcivescovo?
- Se l'Arcivescovo le ordinerà di troncare questo ridicolo Oratorio obbedirà?
- Ho cominciato e sono andato avanti incoraggiato dal mio Superiore Ecclesiastico. Qualunque ordine vorrà darmi, mi troverà pronto.
- Allora vada. Parlerò io con l'Arcivescovo. Ma se non obbedirà nemmeno a lui, mi costringerà a usare mezzi più severi. Se lo ricordi.
A questo punto credevo di essere lasciato in pace almeno per qualche tempo. Invece, appena tornato a casa, trovai una lettera dei fratelli Filippi che mi licenziavano in tronco. Rimasi avvilito.
« I suoi ragazzi stanno facendo del nostro prato un deserto - scrivevano. - Anche le radici dell'erba sono consumate dal calpestio continuo. Le condoniamo volentieri il fitto scaduto, ma entro quindici giorni deve lasciar libero il prato. Non possiamo concedere dilazioni».
Molti amici, venuti a conoscenza di tutte queste difficoltà, mi consigliavano di sciogliere l'Oratorio. « 1 tuoi sono sforzi inutili », dicevano. Altri, vedendomi preoccupato e sempre in mezzo ai ragazzi, cominciarono a insinuare che ero diventato matto.
« Povero don Bosco, è proprio andato »
Un giorno, mentre erano presenti don Sebastiano Pacchiotti e altri preti, don Borel in camera mia disse:
- Qui, se non salviamo qualcosa, corriamo il rischio di perdere tutto. Sciogliamo l'Oratorio e teniamo con noi solo una ventina dei ragazzi più piccoli. Nessuno si preoccuperà se con-tinuiamo a far catechismo a un gruppetto di bambini. E intanto Dio ci indicherà la strada più opportuna per andare avanti. - Non sciogliamo niente - risposi. - Abbiamo già una sede: un cortile ampio e spazioso, una casa pronta per molti ragazzi, con chiesa e porticati. E ci sono preti e chierici pronti a lavorare per noi.
- Ma dove sono queste cose? - mi interruppe don Borel. - Non lo so. Ma so che esistono e sono a nostra disposizione. Allora don Borel scoppiò a piangere. Esclamò:
- Povero don Bosco, è proprio andato.
Mi prese per mano, mi baciò, e se ne andò con don Picchiotti e gli altri. Rimasi solo nella mia stanza.
22. DOPO IL MARCHESE, LA MARCHESA
« Non posso permettere che lei si ammazzi »
Le tante voci che correvano su don Bosco cominciarono a turbare la marchesa Barolo. Il fatto che più la inquietava era che il Municipio di Torino disapprovava i miei progetti.
Un giorno, entrata nella mia camera, cominciò a parlarmi cosi:
- Sono molto contenta di ciò che sta facendo per le mie opere. La ringrazio di essersi molto impegnata per insegnare alle ragazze la musica, i canti sacri, il canto gregoriano, l'aritmetica e persino il sistema metrico decimale.
- Non deve ringraziarmi. I preti devono lavorare perché è un loro preciso dovere. Penserà Dio a pagare tutto. Non parliamone più.
- Devo dirle anche altro. Sono addolorata perché l'enormità del suo lavoro sta rovinando la sua salute. Non è possibile che lei diriga le mie opere e contemporaneamente si dedichi ai ragazzi abbandonati. Ora poi il numero di questi ragazzi è cresciuto in maniera spropositata. Io le propongo di fare soltanto ciò che è suo stretto dovere: dirigere l'Ospedaletto. La smetta di andare nelle carceri, al Cottolengo. E soprattutto, per un po' di tempo non pensi più ai ragazzi. Cosa mi risponde?
- Signora Marchesa, finora Dio mi ha aiutato, e credo che continuerà a farlo. Non si preoccupi per le tante cose che ci sono da fare. Tra me, don Pacchiotti e don Borel faremo tutto.
- Ma io non posso permettere che lei si ammazzi. Che lo voglia o non lo voglia, i troppi impegni recano danno alla sua
salute e alle mie opere. E poi è ora che prenda coscienza delle voci che corrono sulla sua salute mentale, dell'opposizione delle autorità nei riguardi del suo Oratorio. Tutti elementi che mi costringono a farle una proposta precisa.
- Quale, signora Marchesa?
- Lei deve scegliere: o l'Oratorio o il Rifugio. Ci pensi con calma poi mi risponderà.
- La mia risposta è pronta da molto tempo. Lei ha denaro, e può trovare molti preti da mettere al mio posto. I miei ragazzi, invece, non hanno nessuno. Se li abbandono, per loro
è finita. Accetto quindi il suo licenziamento, anche se vorrei continuare a fare ciò che posso per il Rifugio. Mi dedicherò a tempo pieno ai ragazzi abbandonati.
- Ma senza stipendio come farà a vivere?
- Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà ancora.
« Le do un consiglio come se fossi sua madre »
- Ma lei ha la salute rovinata, è esaurito. Se va via di qui finirà ingolfato nei debiti. Allora tornerà da me. Ma io fin d'ora le dico chiaro e netto che per i suoi ragazzi non le darò un soldo. Accetti un consiglio che le do come se fossi sua madre. Io continuerò ad assegnarle il suo stipendio, l'aumenterò se vuole. Lei prende questo denaro e se ne va. Dove vuole, in riposo assoluto. Per uno, tre, cinque anni se occorre. Quando sarà pienamente ristabilito tornerà qui al Rifugio, e io le darò il bentornato. Se rifiuta questo consiglio, per il suo bene, sarò costretta a licenziarlo. Ci pensi bene.
- Le ripeto che ci ho già pensato, signora Marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle offerte generose che mi fa, ma non posso lasciare la strada che la divina Provvidenza mi ha tracciato.
- Concludendo, lei preferisce i suoi vagabondi alle mie opere. Se è così oggi stesso la farò sostituire.
Le feci notare che un licenziamento così improvviso avrebbe potuto far sospettare motivi disonorevoli per me e per lei. Era meglio agire con calma, conservare quella carità di cui dovremo un giorno rendere conto al tribunale di Dio.
- Va bene - concluse. - Fra tre mesi, se non avrà cambiato parere, le troverò un sostituto come direttore dell'Ospedaletto.
Accettai, abbandonandomi nelle mani di Dio.
La voce che don Bosco era diventato matto, intanto, si diffondeva sempre più. I miei amici soffrivano. Gli altri ridevano. Tutti stavano lontani da me. L'Arcivescovo non interveniva. Don Cafasso consigliava di aspettare. Don Borel taceva. Tutti i miei collaboratori mi lasciavano solo in mezzo a quattrocento ragazzi.
Non uno, ma due preti in manicomio
Alcune persone ragguardevoli decisero, in quei frangenti, di prendersi cura della mia salute. Una di esse propose:
- Don Bosco ha delle fissazioni. Se non affronta una buona cura lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Conduciamolo al manicomio. Là, coi dovuti riguardi, i medici faranno ciò che la medicina prescrive.
Due preti furono incaricati di venirmi a prendere con una carrozza e di condurmi al manicomio. Arrivarono, mi salutarono con cortesia. Poi mi domandarono notizie sulla salute, sul
l'Oratorio, sulla grande casa e la chiesa che io prevedevo come futura sede della mia opera. Alla fine sospirarono profondamente, e mormorarono:
- E’ proprio vero.
Mi indicarono la carrozza e mi invitarono a fare una passeggiata con loro. Dissero:
- Un po' d'aria ti farà bene. Avremo tempo di chiacchierare un po' insieme.
Mi accorsi subito dello « scherzo » che mi volevano fare, e senza far finta di niente li accompagnai alla carrozza. Insistetti perché entrassero essi per primi. Quando furono dentro, invece di seguirli, chiusi velocemente lo sportello, e dissi al cocchiere: - Al manicomio, presto! Questi due preti vi sono aspettati.
23. LA TETTOIA DOVE COMINCIO' TUTTO
Dio mandò un ometto balbuziente
Arrivò l'ultima domenica in cui potevo radunare l'Oratorio sul prato. Era il 5 aprile 1846, la domenica prima di Pasqua. Non avevo detto niente a nessuno, tutti però sapevano che ero nei guai.
La sera di quel giorno fissai a lungo la moltitudine dei ragazzi che giocavano. Era la « messe abbondante » del Signore. Ma operai non ce n'erano. C'ero io solo, operaio sfinito, con la salute malandata. Avrei ancora potuto radunare i miei ragazzi? Dove?
Mi ritirai in disparte, cominciai a passeggiare da solo, e mi misi a piangere. « Mio Dio - esclamai - perché non mi indicate il luogo dove portare l'Oratorio? Fatemi capire dov'è, op-pure ditemi cosa devo fare».
Avevo appena detto queste parole, quando arrivò un certo Pancrazio Soave, che balbettando mi disse:
- È vero che lei cerca un luogo per fare un laboratorio? - Non un laboratorio, ma un oratorio.
- Non so che differenza ci sia. Ad ogni modo il posto c'è. Venga a vederlo. E’ proprietà del signor Francesco Pinardi, persona onesta. Venga e farà un buon contratto.
Una scala e un balcone di legno tarlato
Arrivava proprio in quel momento don Pietro Merla, mio compagno fin dal seminario, fondatore dell'opera pia chiamata Famiglia di S. Pietro. Era un prete molto bravo. Aveva fondato un'opera per aiutare le donne che erano state in carcere, e che proprio per questo non riuscivano a trovare un lavoro per guadagnarsi il pane. Quando don Merla aveva mezz'ora di tempo libero, correva a darmi una mano nell'assistere i giovani. Appena mi vide esclamò:
- Cos'hai? Non t'ho mai visto così malinconico. È capitata una disgrazia?
- Non è ancora capitata, ma sta per capitare. Oggi è l'ultimo giorno in cui mi permettono di usare questo prato per l'Oratorio. Fra due ore è notte e devo mandare a casa i ragazzi,
e non so dove dare l'appuntamento per domenica prossima. C'è qui un amico che mi stava parlando di un luogo forse utilizzabile. Sostituiscimi un momento nell'assistere i ragazzi. Io vado a vedere e torno subito.
Accompagnato da Pancrazio Soave, arrivai davanti a una casupola a un solo piano, con scala e balcone di legno tarlato. Attorno c'erano orti, prati, campi. Stavo per salire su per la scala, quando il signor Pinardi mi disse:
- No. Il luogo per lei è qui dietro.
Una lunga tettoia
Era una lunga tettoia (metri 15 per 6) che da un lato si appoggiava al muro della casa, dall'altro scendeva fino a un metro da terra. Poteva servire da magazzino o da legnaia, non per altro. Ci sono entrato a testa bassa, per non picchiare contro il tetto.
- Troppo bassa, non mi serve - dissi.
- La farò aggiustare come vuole - rispose cortesemente il Pinardi. - Scaverò, farò gradini, cambierò pavimento. Ma ci tengo che faccia qui il suo laboratorio.
- Non un laboratorio, ma un oratorio, una piccola chiesa per radunare dei ragazzi.
- Meglio ancora. Io sono un cantore e verrò a darle una mano. Porterò due sedie: una per me e una per mia moglie. E poi in casa ho una lampada: la porterò qui. Su, facciamo questo contratto.
Quel brav'uomo era veramente contento di avere una chiesa in casa sua.
- Mio caro amico - gli dissi - la ringrazio della sua buona volontà. Se mi garantisce che abbasserà il terreno di 50 centimetri, posso accettare. Ma quanto vuole d'affitto?
- Trecento lire. Mi vogliono dare di più, ma preferisco affittare a un prete, specialmente se vuol fare una chiesa.
- Di lire gliene do trecentoventi, a patto che mi affitti anche la striscia di terra che corre intorno alla tettoia, per farvi giocare i ragazzi. Deve però darmi la sua parola che potrò ve-nirci coi miei ragazzi già domenica prossima.
- D'accordo. Contratto concluso. Domenica venga pure: sarà tutto a posto.
L'ultimo Rosario sull'erba
Tornai di corsa dai giovani, li raccolsi attorno a me e mi misi a gridare:
- Allegri, figli miei! Abbiamo l'Oratorio dal quale più nessuno ci manderà via. Avremo chiesa, scuole e cortile per saltare e giocare. Domenica, domenica ci andremo. E’ la, in casa di Francesco Pinardi! - E con la mano indicai il luogo.
Le mie parole furono accolte da un entusiasmo indescrivibile. Chi correva, chi saltava di gioia, chi rimaneva immobile come una statua per lo stupore, chi gridava, chi esultava.
Avevamo dentro un grande piacere, e non sapevamo come esprimerlo. La Santa Vergine, che quel mattino eravamo andati a pregare a Madonna di Campagna, ci aveva ascoltato. Per ringraziarla, ci siamo inginocchiati sull'erba per l'ultima volta, e abbiamo recitato il Rosario. Dopo, ognuno partì per casa. Abbiamo dato così l'ultimo saluto al nostro prato, senza rincrescimento perché ci aspettava un posto migliore.
La domenica seguente era Pasqua. Trasportammo verso la tettoia Pinardi le panche, i quadri, i candelieri, le bocce, i trampoli, la tromba e il tamburo. Andavamo a prendere possesso della nostra casa.
L'ALBERO CRESCE ED ESTENDE I RAMI (1846 - 1856)
1. UNA GIORNATA DELL'ORATORIO
Garanzia per tre anni
La nuova chiesa era una costruzione poverissima. Tuttavia c'era un contratto regolare che ce la garantiva per tre anni, e questo ci liberava dal timore di venire sfrattati quando meno ce l'aspettavamo. Le emigrazioni, a Dio piacendo, erano finite. A me questa chiesina sembrava il luogo dove in sogno avevo visto la scritta: « Questa è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria». I disegni di Dio, invece, erano diversi.
La sede del nostro Oratorio, purtroppo, era vicina a una casa dove abitavano donne di vita equivoca, e dove era aperta fino a notte l'osteria della Giardiniera. Lì, specialmente nei giorni festivi, si davano convegno gli ubriachi della città. Nonostante questi vicini allarmanti, abbiamo cominciato regolarmente le nostre riunioni.
Quando i lavori di adattamento furono terminati, l'Arcivescovo ci permise di benedire e di usare come chiesa quel povero locale. Questo avvenne la domenica di Pasqua, 12 aprile 1846.
Per dimostrare la sua soddisfazione, l'Arcivescovo ci rinnovò tutti i permessi che già ci aveva dato quando l'Oratorio era al Rifugio. In questa cappellina potevamo cantare la Messa, celebrare tridui e novene, organizzare gli Esercizi Spirituali, ricevere la santa Comunione e anche la Cresima. L'Arcivescovo permise persino, a tutti i ragazzi che frequentavano l'Oratorio, di ricevere la Comunione pasquale nella cappella Pinardi. (In quel tempo la Comunione di Pasqua si doveva fare nella propria parrocchia).
La Storia Sacra raccontata a puntate
La stabilità della sede, i segni di affetto dell'Arcivescovo, le celebrazioni solenni, la musica, l'allegra baraonda dei giochi, attraevano ragazzi da tutte le parti. Molti dei preti che mi avevano lasciato solo, cominciarono a tornare. Mi davano una valida mano don Giuseppe Trivero, don Giacinto Carpano, don Giovanni Vola, don Roberto Murialdo, e sempre l'infaticabile don Borel.
Ecco come si svolgeva la nostra giornata festiva.
Di buon mattino aprivo la chiesa e cominciavo a confessare i ragazzi. Le confessioni duravano fino all'ora della Messa. Era fissata alle otto, ma per accontentare tutti quelli che desideravano confessarsi, sovente la tramandavo alle nove, e anche più tardi.
Se c'era con me qualche prete, assisteva i ragazzi e li aiutava a pregare, recitando le orazioni a voce alternata. Durante la Messa quelli che erano preparati facevano la santa Comunione. Subito dopo salivo su un piccolo pulpito e spiegavo il Vangelo (dopo qualche domenica cominciai il racconto della Storia Sacra a puntate). Questi racconti erano fatti in maniera semplice e popolare, e resi pittoreschi dalla descrizione dei luoghi e della maniera di vivere dei vari tempi. Piacevano ai piccoli, ai grandi e persino ai preti che li ascoltavano. Dopo la predica cominciava la scuola, che durava fino a mezzogiorno.
Il catechismo, il Rosario, i Vespri
All'una del pomeriggio cominciava la ricreazione: bocce, trampoli, fucili e spade di legno, attrezzi da ginnastica. Alle due e mezzo iniziava il catechismo. I ragazzi che frequentavano l'Oratorio in quel tempo erano molto lenti nell'apprendere. Mi capitò parecchie volte di cominciare il canto dell'A ve Maria: su 400 ragazzi presenti, nessuno era capace di continuare se cessava la mia voce. Dopo il catechismo recitavamo il Rosario. A poco a poco, però, insegnai a cantare i Vespri. Cominciammo a imparare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi uno per uno i salmi. Infine le antifone. Nello spazio di un anno riuscimmo a cantare tutto il vespro della Madonna.
Ai Vespri (o al Rosario) seguiva una breve predica, che consisteva quasi sempre in un fatto, con cui insegnavo una virtù o invitavo a combattere una cattiva abitudine. Tutto terminava con il canto delle Litanie della Madonna e la benedizione con il SS. Sacramento.
La parola all'orecchio
All'uscita dalla chiesa cominciava il tempo libero, che ognuno occupava come voleva. Qualcuno continuava la scuola di catechismo, prendeva lezioni di canto o di lettura. La maggior parte dei ragazzi giocava, correndo e saltando fino a sera. Sotto la mia assistenza entravano in azione tutti gli strumenti di gioco, persino gli arnesi dei saltimbanchi, che avevo imparato ad usare sul prato dei Becchi. Solo con tanti strumenti di questo genere si potevano impedire le risse e mantenere un'allegria ordinata in quell'esercito di ragazzi. Di molti di essi si poteva dire con la Sacra Scrittura: «Come i cavalli e i muletti scalpitano, ma non capiscono».
Devo però testimoniare che anche nei ragazzi senza nessuna istruzione ho sempre ammirato un grande rispetto per la Chiesa e i preti, e un grande desiderio di conoscere la Religione Cristiana.
Io mi servivo di quelle ricreazioni lunghissime per avvicinare ogni ragazzo. Con una parola all'orecchio, a uno raccomandavo maggior obbedienza, a un altro maggior puntualità al catechismo, a un terzo di venirsi a confessare, a un altro ancora suggerivo un pensiero di riflessione, e così via. Posso dire che la ricreazione era il tempo in cui agganciavo un bel numero di ragazzi, che al sabato sera o alla domenica mattina venivano con molta buona volontà a fare la loro confessione.
«Inginòcchiati e confèssati»
Quando vedevo che qualcuno trascurava per molto tempo questi importanti doveri, interrompevo i suoi giochi e lo conducevo a confessarsi. Racconto uno dei tanti fatti.
Un ragazzo, invitato più volte da me a fare la confessione e la Comunione di Pasqua, prometteva ma non manteneva. Un pomeriggio, dopo le sacre funzioni, si mise a giocare con grande foga. Mentre correva rosso in faccia e molle di sudore, lo chiamai deciso: «Vieni con me in sacrestia. Ho bisogno di te per un affare».
Voleva venire com'era, in maniche di camicia. «No, gli dissi, mettiti la giacchetta e vieni». Giunti in sacrestia gli dissi: - Inginocchiati a questo inginocchiatoio.
Capì che doveva trasportare l'inginocchiatoio e stava per farlo.
- No, lascialo dov'è.
- Ma allora, cosa vuole da me? - Confessarti.
- Non sono preparato. - Lo so.
- E allora?
- E allora prepàrati e poi ti confesserò.
- Bene. Ha fatto bene a prendermi così. Altrimenti, per vergogna dei miei compagni, non mi sarei mai deciso a venire. Mentre recitavo il Breviario, si preparò un poco. Poi fece bene la sua confessione e il ringraziamento. D'allora in poi fu tra i più costanti nel compiere i suoi doveri cristiani. Raccontava lui stesso il fatto ai compagni, dicendo:
- Don Bosco è stato molto furbo, per prendere un merlo come me.
Al calare della notte, il suono di un campanello invitava ancora tutti in chiesa. Recitavamo alcune preghiere oppure il Rosario. Terminavamo la giornata cantando: « Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria ».
L'ultimo canto al rondò'
La partenza dall'Oratorio era una scena indimenticabile. Usciti di chiesa, ognuno diceva mille volte « buona sera », ma non si decideva a staccarsi dagli altri compagni. Avevo un bel dire: « Andate a casa che si fa notte e i parenti vi aspettano ». Era inutile. Si stringevano intorno a me, sei dei più robusti intrecciavano con le braccia una specie di sedia, sopra la quale, come sopra un trono, dovevo mettermi a sedere. Come ad un segnale, i ragazzi si ordinavano in alcune file, e portando su quel palco di braccia don Bosco, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al rondò (= un piazzale con aiuola che si trova all'incrocio di corso Regina Margherita, allora chiamato corso San Massimo, con altre strade. Era chiamato «rondò della forca» perché in quel luogo avveniva l'esecuzione dei condannati a morte). Là si cantavano ancora alcuni canti sacri, che si concludevano sempre con il solenne Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria.
Poi si faceva un profondo silenzio, e io auguravo a tutti buona sera e buona settimana. Con tutta la voce che avevano, rispondevano: buona sera! Allora potevo finalmente scendere dal mio trono. Ognuno tornava alla sua famiglia. Alcuni più grandi, però, mi accompagnavano fino a casa,' mezzo morto di stanchezza.
2. RE CARLO ALBERTO SALVA L'ORATORIO
« Mi sembrò l'inizio del giudizio universale »
Nell'Oratorio c'erano ordine, disciplina, tranquillità. Tuttavia il Marchese Cavour, Vicario di città, voleva mettere fine alle nostre riunioni, che egli riteneva pericolose. Era stato informato che io ero sempre andato avanti con l'appoggio dell'Arcivescovo. Ora, poiché l'Arcivescovo non poteva recarsi da lui essendo ammalato, egli convocò la Ragioneria nel palazzo arcivescovile. La Ragioneria era l'insieme dei più autorevoli consiglieri municipali. Nelle mani di questi consiglieri si concentravano tutti i poteri cittadini. Il capo della Ragioneria (che in quel momento era il Marchese Cavour) aveva un potere superiore a quello del Sindaco, e veniva chiamato Vicario di città, Maestro di Ragione o anche Primo Decurione.
Mi disse poi l'Arcivescovo:
- Quando vidi tutti quegli uomini potenti nella mia sala, mi sembrò l'inizio del giudizio universale.
Si discusse molto sul bene e sul male dell'Oratorio. Alla fine si decise che quelle riunioni dovevano essere assolutamente vietate e disperse, poiché compromettevano la tranquillità pubblica.
L'intervento del Re
Faceva però parte della Ragioneria il conte Giuseppe Provana di Collegno, insigne benefattore dell'Oratorio. In quel tempo il re Carlo Alberto gli aveva affidato la carica di «Ministro al Controllo generale», cioè di Ministro delle Finanze. Più volte il Conte mi aveva portato aiuti in denaro a nome del Re e a nome suo personale. Carlo Alberto ascoltava con piacere notizie dell'Oratorio. Quando celebravamo qualche festa, leggeva volentieri la relazione scritta che gli mandavo, o il racconto che gli faceva il Conte Provana. Mi fece più volte dire che egli aveva grande stima del nostro ministero tra i giovani del popolo, perché assomigliava a quello dei missionari in terra straniera. Egli sperava che opere come la nostra si diffondessero in tutte le città e paesi del suo Stato. Ad ogni capodanno ci man-dava gli auguri accompagnandoli con 300 lire destinate «ai monelli di don Bosco».
Quando venne a sapere che la Ragioneria stava per discutere la chiusura del nostro Oratorio, chiamò il conte Provana e gli ordinò di comunicare la sua volontà con queste parole:
- Il Re vuole che queste riunioni festive siano aiutate e protette. Se c'è pericolo di qualche disordine, si cerchi il modo di prevenirlo e di impedirlo.
Il conte Provana assistette in silenzio a tutta la vivace discussione. Quando vide che si era arrivati alla decisione di chiudere l'Oratorio e di sciogliere le sue riunioni, chiese la parola. Si alzò e comunicò la volontà del Re. Carlo Alberto prendeva sotto la sua protezione la nostra opera microscopica. Davanti alla volontà del Re, il Vicario e la Ragioneria an-nullarono ogni decisione.
Le guardie all'Oratorio
Con urgenza, il Vicario di città mi mandò nuovamente a chiamare. Usò ancora il tono minaccioso, mi chiamò ostinato. Ma alla fine passò a parole meno pesanti:
- Io non voglio il male di nessuno. Lei lavora con buona intenzione, ma ciò che fa è pieno di pericoli. L'obbligo di proteggere la pubblica tranquillità è tutto sulle mie spalle, quindi manderò le guardie a sorvegliare lei e le sue adunanze. Alla minima irregolarità, farà disperdere i suoi monelli, e lei me ne renderà conto.
Sarà stata l'agitazione di quei giorni, sarà stata qualche malattia che già lo tormentava, fatto sta che quella fu l'ultima volta che il Marchese Cavour si recò a Palazzo municipale. Assalito dalla podagra, soffrì molto, e nello spazio di pochi mesi morí. Nei sei mesi che visse ancora, ogni domenica mandava alcune guardie civiche a passare con noi tutta la giornata. Vigilavano su tutto ciò che dicevamo e facevamo in chiesa e fuori chiesa. Un giorno domandò a una di queste guardie:
- In conclusione, che cosa avete visto e udito tra quella marmaglia?
- Signor Marchese, abbiamo visto un esercito di ragazzi divertirsi in cento maniere diverse. E in chiesa abbiamo sentito delle prediche che mettono paura. Don Bosco racconta tante cose sull'inferno e sul diavolo, che ha fatto voglia anche a me di andarmi a confessare.
- E di politica?
- Di politica non si parla mai. Quei ragazzi non ne capirebbero niente. Si parlasse di pagnotte, allora si che ognuno potrebbe dire la sua.
Da quando mori il Marchese Cavour, il Municipio non ci creò più ostacoli, anzi, fino al 1877 ci aiutò sempre.
3. ANCHE GLI ANALFABETI HANNO DIRITTO ALLA SCUOLA
Testo fondamentale: il catechismo
Già quando iniziavo l'Oratorio a San Francesco di Assisi, capivo la necessità di fare scuola. Alcuni giovani erano avanti negli anni e non conoscevano ancora niente della loro religione. Le lezioni normali di catechismo, fatte a viva voce, per loro erano noiose e inconcludenti. Capitava che, dopo qualche lezione, non li vedevo più.
Pensai già allora di fare un po' di scuola seria, ma non avevo locali e non trovavo maestri che mi dessero una mano. L'esperimento non riuscì.
Al Rifugio e in casa Moretta cominciammo una regolare scuola domenicale, e poi anche la scuola serale.
Per ottenere buoni risultati, svolgevamo un solo argomento per volta. Per esempio: durante due domeniche ripassavamo l'alfabeto e la formazione delle sillabe. Poi prendevamo il piccolo Catechismo, e leggevamo e rileggevamo le prime due domande e risposte tante di quelle volte, che alla fine riuscivano a leggerle benissimo. Questa era anche la lezione della settimana. La domenica dopo aggiungevamo un'altra domanda e risposta. In questa maniera, nello spazio di otto domeniche, sono riuscito a far sì che alcuni leggessero e studiassero da soli intere pagine di catechismo. Fu un grande guadagno di tempo, specialmente per i più grandi. Con le normali lezioni di catechismo fatte a voce, essi dovevano impiegare anni per avere un'istruzione sufficiente ed essere ammessi alla confessione.
Leggere, scrivere, istruirsi nella religione
Per molti, la scuola domenicale dava buoni risultati. Per altri, invece, era insufficiente, perché avevano pochissima memoria: da una domenica all'altra dimenticavano tutto ciò che avevano imparato. Fu questa costatazione che mi fece cominciare le scuole serali giornaliere: le iniziammo al Rifugio, divennero più regolari in casa Moretta, si perfezionarono ancora di più a Valdocco, nella prima sede finalmente stabile.
Le scuole serali regolari davano due buoni risultati: incoraggiavano molti ragazzi ad intervenire per imparare a leggere e a scrivere, di cui avevano urgente bisogno; nello stesso tempo davano a tutti la comodità di istruirsi nella religione, ciò che formava lo scopo fondamentale del nostro lavoro.
Il tempo dei «maestrini»
Ogni giorno, si può dire, dovevo aprire nuove classi. Dove trovare tanti maestri? Usai questo sistema: mi misi a far scuola a un bel gruppo di ragazzi cittadini. Insegnavo loro gratuitamente italiano, latino, francese, aritmetica. L'unica condizione che mettevo era: poi verrete a darmi una mano nell'insegnare catechismo, nel fare la scuola domenicale e serale. Questi « maestrini » all'inizio erano otto o dieci, ma il loro numero aumentò progressivamente. Da essi cominciò la categoria degli « studenti » (che nell'Oratorio affiancò dal 1850 la categoria degli « artigiani »).
I primi « maestrini » cominciarono ad aiutarmi fin da quando ero al Convitto di San Francesco d'Assisi. Allora erano ragazzi, ora occupano posti onorati di lavoro nella città. Ricordo Giovanni Coriasco, ora maestro falegname, Felice Vergnano, negoziante in tendaggi, Paolo Delfino, professore di materie tecniche.
Al Rifugio ebbi come aiutanti Antonio Melanotte, oggi droghiere, Giovanni Melanotte, fabbricante di dolci, Felice Ferrero, mediatore, Pietro Ferrero, compositore, Giovanni Piola, padrone di un laboratorio di falegnameria. A essi si unirono Luigi Genta, Vittorio Mogna e altri, che però non mantennero la loro promessa di venire ad aiutarmi. Per far loro scuola dovevo spendere molto tempo e molto denaro, e purtroppo al momento di cominciare a darmi una mano, la maggior parte mi abbandonava.
A costoro si aggiunsero bravi cristiani di Torino. Per molto tempo mi aiutarono Giuseppe Gagliardi e Giuseppe Fino, venditori di chincaglieria, Vittorio Ritner, orefice, e altri. Alcuni preti mi aiutavano specialmente per la celebrazione della Messa, la predicazione e la scuola di catechismo ai più grandi.
Perché e come don Bosco scrisse la Storia Sacra
Una grande difficoltà la trovavo nei libri. Terminato il piccolo catechismo, non avevo più nessun libro di testo per la scuola di religione e di lettura. Esaminai tutte le «Storie Sacre» che si usavano nelle scuole, e non ne trovai una adatta ai nostri alunni. I difetti più comuni erano: linguaggio non popolare, racconto di fatti non adatti ai giovani, questioni che non interessavano i ragazzi e che invece erano tirate in lungo. Molti fatti erano narrati in maniera che potevano offendere la sensibilità morale dei giovani. Inoltre quasi nessuno badava a mettere in luce i punti fondamentali della fede. Venivano trascurati i fatti che insegnano il culto esterno che dobbiamo rendere a Dio, l'esistenza del purgatorio, l'istituzione da parte di Gesù della confessione e dell'Eucaristia.
I tempi in cui dovevamo vivere, esigevano assolutamente ché non trascurassimo questa parte dell'educazione cristiana. Perciò mi sono messo a scrivere una « Storia Sacra » che avesse stile popolare, lingua facile, ed evitasse i difetti che ho sopra elencato. Nacque così la Storia Sacra ad uso delle scuole. Non pretendevo di scrivere un libro elegante, ma impegnai nel lavoro tutta la mia buona volontà per far del bene ai giovani.
Dopo mesi di scuola abbiamo dato alcuni saggi pubblici sul nostro insegnamento festivo. Alla presenza di personaggi celebri come l'abate Aporti, il conte Boncompagni, il vicesindaco Pietro Baricco, il professore universitario Giuseppe Rayneri, gli allievi furono interrogati sulla storia sacra e la geografia della Palestina. Le loro risposte strapparono applausi.
Dalle strade ai libri
Incoraggiato dalla buona riuscita delle scuole serali, alla lettura e alla scrittura aggiunsi l'aritmetica e il disegno. Era la prima volta che nelle nostre zone si realizzavano scuole serali così popolari. Molti ne parlavano come di una grande novità. Professori e persone distinte venivano ad osservare i nostri metodi. Lo stesso Municipio di Torino mandò una commissione presieduta dal commendatore Giuseppe Dupré per osservare se i risultati erano così positivi come si diceva. I commissari interrogarono gli alunni sulla pronuncia italiana, sulle operazioni aritmetiche, fecero declamare alcuni brani. Alla fine erano mera-vigliati nel costatare che giovani rimasti analfabeti anche fino a 18, 20 anni, avevano fatto in pochi mesi rapidi progressi nell'educazione e nell'istruzione. Ciò che entusiasmava quei signori era vedere alla sera un grande numero di giovani raccolti sui libri, mentre tanti altri girovagavano per le strade.
La loro relazione, letta al Municipio, ci meritò un premio di 300 lire, che ci venne assegnato fino al 1878. Da quell'anno fu sospeso e assegnato a un altro istituto. Non ne ho mai saputo il perché.
In quel tempo era direttore dell'Opera La Mendicità Istruita (fondata nel 1783 per l'istruzione popolare) il cavaliere Gonella, conosciutissimo in Torino per la sua fede e la sua carità. Anche lui venne più volte a vedere la nostra scuola, e l'anno seguente introdusse le stesse classi e lo stesso metodo nell'Opera da lui diretta. Avendo parlato agli amministratori della Mendicità Istruita del nostro Oratorio e delle strettezze finanziarie in cui navigavamo, ci assegnarono un premio di lire mille.
Anche il Municipio imitò il nostro metodo. In pochi anni le scuole serali si propagarono in tutte le principali città del Piemonte.
Un libro di preghiera e uno di matematica
Intanto vedevo crescere di giorno in giorno una nuova necessità: un libro di preghiere e di riflessioni adatto ai giovani del nostro tempo. Ce n'erano moltissimi che passavano da mano a mano. Avevano anche autori illustri. Ma in genere gli au
tori non avevano tenuto presenti i lettori giovani, e, col massimo rispetto, avevano cercato di poter servire cattolici, ebrei e protestanti.
Io stavo vedendo un'altra cosa: che i protestanti cercavano di infiltrarsi insidiosamente tra la nostra gente. Tenuto conto di questo pericolo, ho compilato un libro appoggiato alla Bib-bia, adatto ai giovani, che desse nutrimento alla loro fede. doveva esporre le verità fondamentali della religione cattolica con la massima brevità e chiarezza. Lo intitolai II giovane provveduto.
La stessa necessità si manifestava per l'insegnamento dell'aritmetica e del sistema metrico decimale. L'uso ufficiale di questo sistema doveva cominciare all'inizio dell'anno 1850, ma già nel 18461e scuole dovevano insegnarlo, e mancavano i libri di testo. Scrissi allora il libretto II sistema metrico decimale ridotto a semplicità.
4.LA NOTTE IN CUI DON BOSCO DOVEVA MORIRE
Tra le vigne di Sassi a cercare don Bosco
Avevo troppi impegni. Lavoravo come prete nelle carceri, all'ospedale del Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio, in varie scuole. Rubavo ore alla notte per compilare i libri che erano necessari ai miei ragazzi. La mia salute, che non era mai stata robusta, peggiorò in maniera tale che i medici mi ordinarono riposo assoluto.
Don Borel, che mi voleva molto bene, mi mandò a passare qualche settimana come ospite del parroco di Sassi (ai piedi della collina di Superga). Durante la settimana riposavo, alla domenica tornavo a lavorare all'Oratorio. Ma presto non si rivelò una buona soluzione. I ragazzi venivano a trovarmi a gruppi sempre più numerosi. Anche i ragazzi di Sassi cominciarono a venirmi a cercare. Finii per essere più occupato che a Torino, mentre i miei piccoli amici dovevano percorrere quattro chilometri a piedi per vedermi.
Non solo i ragazzi dell'Oratorio venivano a piedi fino a Sassi. Presto a loro si aggiunsero gli alunni dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ecco un episodio tra i tanti.
Gli alunni della scuola «Santa Barbara», dove insegnavano i Fratelli, avevano fatto gli Esercizi Spirituali. Siccome erano abituati a confessarsi da me, al termine degli Esercizi vennero in massa all'Oratorio a cercarmi. Dissero loro che ero a Sassi, e tutti partirono per questo paese, distante dalla città, come ho detto, quattro chilometri. A tratti pioveva, ed essi non conoscevano la strada. Finirono per vagare nei prati, nei campi,
nelle vigne in cerca di don Bosco. Alla fine arrivarono in quattrocento, sfiniti dal cammino e dalla fame, sudati, infangati, ma decisi a confessarsi.
- Abbiamo fatto gli Esercizi - mi dissero. - Vogliamo farci buoni, vogliamo fare la nostra confessione. Abbiamo domandato il permesso ai nostri insegnanti di venire da lei, ed ec-coci qua.
Dov'erano finiti i ragazzi?
Con ogni probabilità i maestri e i genitori li stavano aspettando con ansia. Era necessario farli tornare al più presto alla scuola. Tentai invano di convincerli: ripetevano che erano li per confessarsi. Ci mettemmo in quattro preti: il parroco, il viceparroco, un prete-maestro ed io. Ma di confessori ce ne sarebbero voluti quindici.
Intanto bisognava pensare anche alla fame e allo sfinimento di quei ragazzi. Don Abbondioli, il parroco, mise a loro disposizione tutte le sue riserve: pane, polenta, riso e fagioli, patate, formaggio, frutta.
Alla scuola, intanto, qualcuno cominciò a entrare in ansia. Per la chiusura solenne degli Esercizi Spirituali si stavano radunando i professori, i predicatori, alcuni invitati. Si doveva celebrare la Messa con la Comunione di tutti i ragazzi. Ma i ragazzi dov'erano? Nessuno si faceva vivo. Fu un momento di imbarazzo generale. Quando finalmente i ragazzi riapparvero, fu loro severamente proibito di ripetere un simile disordine.
« Ero pronto a morire »
Dopo il ritorno da Sassi, fui preso da un grande sfinimento. Dovettero portarmi a letto. Ero seriamente malato: bronchite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la Comunione come Viatico e l'Unzione degli infermi. Ero pronto a morire. Mi rincresceva abbandonare i miei ragazzi, ma ero contento di morire dopo aver dato una forma stabile all'Oratorio.
Quando si sparse la notizia che la mia malattia era grave, tra i giovani si diffuse un dolore vivissimo, una costernazione incredibile. Ogni momento, alla porta della stanza dov'ero ricoverato arrivavano gruppi di ragazzi. Piangevano e chiedevano mie notizie. Non se ne volevano andare: aspettavano di momento in momento una notizia migliore. Io sentivo le domande che rivolgevano all'infermiere, e ne ero commosso.
L'affetto verso di me li stava spingendo a veri eroismi. Pregavano, facevano digiuni, partecipavano alla Santa Messa e facevano la Comunione. Nel Santuario della Consolata si davano il turno giorno e notte. C'era sempre qualcuno che pregava per me davanti all'immagine della Madonna. Al mattino, quelli che dovevano andare a lavorare accendevano una candela che rimanesse al loro posto davanti all'altare. Molti altri trovavno il tempo di andarci anche durante il giorno, e resistevano fino alla sera tardi. Pregavano e scongiuravano la Madre di Dio perché conservasse in vita il loro povero don Bosco.
« Dio li ascoltò »
Molti promisero alla Madonna di recitare il Rosario intero per mesi, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Ci fu persino qualcuno che promise di digiunare a pane e acqua per mesi, per anni, per tutta la vita. Sono certo che molti giovani muratori digiunarono a pane e acqua per settimane intere, continuando il lavoro pesante dal mattino alla sera. Il breve intervallo di tempo libero che veniva loro concesso andavano a passarlo davanti al Santissimo Sacramento. Dio li ascoltò. Era un sabato sera, i medici fecero consulto e pronunciarono la sentenza: quella sarebbe stata la mia ultima notte di vita. Ne ero convinto anch'io, perché non avevo più forze e avevo continui sbocchi di sangue. A notte avanzata sentii una gran voglia di dormire, e mi assopii. Quando mi svegliai ero fuori pericolo. I medici Botta e Caffasso mi visitarono al mattino, e mi dissero di andare a ringraziare la Madonna per grazia ricevuta.
La notizia gettò la gioia tra i miei ragazzi. Non volevano crederci se non mi vedevano. E mi videro infatti pochi giorni dopo. Appoggiandomi a un bastone mi recai all'Oratorio. Mi accolsero cantando e piangendo, con una commozione che è più facile immaginare che descrivere. Cantarono un inno di ringraziamento a Dio, mi avvolsero di acclamazioni e di entusiasmo.
Provvidi subito a una faccenda importante. Molti, quand'ero in pericolo di vita, avevano fatto voti e promesse enormi, praticamente impossibili da mantenere, spinti dall'emozione e dall'affetto. Le cambiai in promesse più semplici e leggere.
« Tra le mie colline»
Quella malattia mi aveva colpito all'inizio del luglio 1846. Abitavo ancora in una cameretta del Rifugio, ma stavo per trasferirmi a Valdocco (dove già era stato portato l'Oratorio).
Andai a trascorrere alcuni mesi di convalescenza presso la mia famiglia ai Becchi. Avrei dovuto stare molto a lungo tra le mie colline, ma i giovani cominciarono a venirmi a trovare in gruppi sempre più numerosi. Non avevo più né pace né tranquillità.
Tutti quelli che parlarono con me in quel tempo, mi consigliarono di lasciare Torino e di recarmi per qualche anno in luoghi lontani, per tentare un vero recupero della salute. Anche l'Arcivescovo e don Cafasso erano di questo parere. Ma mi rincresceva troppo abbandonare i ragazzi. Alla fine mi permisero di tornare all'Oratorio, con l'obbligo però di non confessare né predicare per due anni.
Ho disobbedito. Tornato all'Oratorio, ho ripreso a lavorare come prima, e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico né di medicine. Da tutto questo ho ricavato una con-vinzione: non è il lavoro che rovina la salute.
5. RITORNO CON MAMMA MARGHERITA
Tutta la fortuna in un canestro
Avevo passato alcuni mesi di convalescenza in famiglia. Ora ero deciso a tornare tra i miei amati ragazzi. Ogni giorno ce n'era qualcuno che veniva a trovarmi o che mi scriveva. Mi dicevano: « Faccia presto! ».
Ma dove andare ad abitare, ora che ero stato licenziato dal Rifugio? Con quali mezzi potevo sostenere un'opera che ogni giorno costava più fatiche e più denaro? Le persone che lavoravano per l'Oratorio, e io stesso, dovevamo pur vivere.
In quel tempo si erano rese libere due stanze in casa Pinardi, e le feci affittare per me e per mia madre.
- Mamma - le dissi un giorno -, dovrei andare ad abitare a Valdocco. Dovrei prendere una persona di servizio. Ma in quella casa abita gente di cui un prete non può fidarsi. L'unica persona che mi può garantire dai sospetti e dalle malignità siete voi.
Essa capì la serietà delle mie parole, e rispose:
- Se credi che questa sia la volontà del Signore, sono pronta a venire.
Mia madre faceva un grande sacrificio. Non era ricca, ma in famiglia era una regina. Piccoli e grandi le volevano bene e le ubbidivano in tutto.
Dai Becchi spedimmo alcune cose necessarie per preparare le stanze. Le altre poche masserizie vi furono trasportate dalla camera che avevo abitato al Rifugio. Prima di partire, mia madre riempì un canestro di biancheria e di oggetti necessari. Io presi il breviario, un messale, alcuni libri e alcuni quaderni. Questa era tutta la nostra fortuna.
Siamo partiti a piedi dai Becchi. Abbiamo fatto tappa a Chieri, e la sera del 3 novembre 1846 siamo arrivati a Valdocco. A vedere quelle camere sprovviste di tutto, mia mamma sorrise e disse:
- Ai Becchi avevo tante preoccupazioni per far andare avanti la casa, per comandare ciò che ognuno doveva fare. Qui sarò molto più tranquilla.
Il corredo da sposa della mamma
Ma come vivere, che cosa mangiare, come pagare l'affitto? E questo non era tutto: molti ragazzi mi domandavano ogni momento pane, scarpe, camicie, abiti. Ne avevano assoluto bisogno per presentarsi al lavoro.
Abbiamo fatto arrivare da casa un po' di vino, frumento, granturco, fagioli. Per far fronte alle prime spese abbiamo venduto una vigna e alcuni campi. Mia madre si fece mandare il suo corredo da sposa che fino allora aveva custodito gelosamente. Alcune sue vesti servirono a fare pianete. Con la biancheria si fecero tovaglie d'altare e indumenti che servirono per la celebrazione della santa Messa. Tutto passò per le mani di madama Gastaldi,' che fin d'allora prendeva a cuore le necessità dell'Oratorio.
Mia mamma possedeva pure una piccola collana d'oro e alcuni anelli. Li vendette per comprare oggetti necessari alla chiesa. Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, si mise a cantare: « Guai al mondo - se ci sente forestieri - senza niente».
Tante classi e poco spazio
Dopo le prime sistemazioni domestiche, presi in affitto un'altra stanza. La trasformai in sacrestia. Non avevo ambienti per la scuola, e per qualche tempo feci lezione in cucina o in camera mia. Ma fra gli alunni c'erano anche fior di monelli, che guastavano o mettevano sottosopra tutto. Quando dividemmo le classi, le sistemammo nella sacrestia e nelle varie parti della chiesina. Ma mentre una classe leggeva ad alta voce, un'altra cantava in coro, in una terza arrivavano ritardatari percorrendo tutta la chiesa. Era un disturbo continuo.
Alcuni mesi dopo riuscii ad affittare due altre stanze, e la scuola serale poté funzionare meglio.
Come ho già detto, nell'inverno 1846-47 le nostre scuole serali diedero ottimi risultati. Avevamo in media 300 alunni ogni sera. Le materie che insegnavamo erano lingua e aritmetica, ma anche musica e canto, che tra noi furono sempre fiorenti.
Nota di don Bosco (scritta al termine di questo capitoletto)
Si tenga presente che le prime scuole serali aperte in Torino furono quelle di casa Moretta, nel novembre 1845. In tre classi non potevamo ospitare più di 200 alunni. I buoni risultati ottenuti ci persuasero a riaprirle l'anno seguente, appena trovammo una sede stabile a Valdocco.
Fra quelli che ci aiutavano nelle scuole serali, e che preparavano i giovani alla declamazione e al teatro, devo ricordare don Chiaves, don Musso e don Giacinto Carpano.
6. IL PRIMO « GRUPPO GIOVANILE »
Un Regolamento e una Compagnia
A Valdocco avevamo finalmente una sede stabile e regolare. Mi misi quindi con tutta la buona volontà a realizzare quelle iniziative che dovevano creare nel nostro Oratorio unità di spirito, di azione e di amministrazione.
Per prima cosa ho scritto un Regolamento. In esso erano esposte semplicemente le cose che già si facevano all'Oratorio, e il modo in cui dovevano essere fatte. Questo Regolamento è stato stampato e chiunque può leggerlo.
Il servizio reso da questo piccolo Regolamento fu notevole: ognuno sapeva quello che doveva fare. Lo lasciavo a ognuno la piena responsabilità del suo ufficio. Con il Regolamento ognuno sapeva bene quali erano le responsabilità che gli erano affidate. Molti Vescovi e parroci me ne domandarono copia, e cercarono di introdurre l'opera degli Oratori nelle loro diocesi e nei loro paesi.
Stabilita la base per l'unità di spirito e di azione, occorreva prendere qualche iniziativa per accendere nei giovani l'amicizia del Signore. Per questo fondai la Compagnia di San Luigi. Scrissi delle brevissime Regole adatte ad un gruppo giovanile e le feci vedere all'Arcivescovo. Egli le lesse, le fece leggere ad altre persone che diedero il loro parere. Alla fine l'Arcivescovo le lodò, le approvò il 12 aprile 1847, e concesse alcune indulgenze speciali ai soci della Compagnia.
La Compagnia di San Luigi destò grande entusiasmo tra i nostri ragazzi. Tutti volevano iscriversi. Posi due condizioni perché un giovane potesse esservi accettato: buon esempio in chiesa e fuori chiesa; evitare i discorsi cattivi e frequentare i santi Sacramenti.
La Compagnia portò un notevolissimo miglioramento nella vita cristiana dei ragazzi.
Per la prima volta l'Arcivescovo all'Oratorio
Volevo animare i giovani a celebrare con entusiasmo le sei domeniche che precedevano la festa di san Luigi. Per questo comprai una statua del Santo, feci confezionare un gonfalone, e diedi ai ragazzi una possibilità straordinaria di confessarsi: potevano venire a ogni ora del giorno, della sera e anche della notte. Nessuno dei giovani che frequentavano l'Oratorio aveva ancora ricevuto la Cresima. Decisi quindi di preparare tutti quelli che se la sentivano per la festa di san Luigi. Un numero straordinario accettò la proposta. Riuscii a prepararli con l'aiuto di parecchi sacerdoti e laici. Per il giorno della festa di san Luigi furono realmente tutti pronti.
Era la prima volta che l'Arcivescovo veniva a far visita all'Oratorio e la prima volta che amministrava la Cresima ai nostri giovani. Davanti alla piccola chiesa avevamo preparato una specie di elegante padiglione: lì abbiamo ricevuto l'Arcivescovo. Ho letto alcune parole di ringraziamento, poi alcuni ragazzi recitarono in suo onore una breve commedia intitolata Un caporale di Napoleone. Era la storia buffa di un caporale che raccontava mille barzellette e diceva la sua meraviglia per essere capitato in questa festa. L'Arcivescovo rise di gusto, si divertì un mondo. Alla fine disse che non aveva mai riso tanto in vita sua.
Poi ci parlò, e disse la sua grande gioia nel vedere l'Oratorio fiorente. Incoraggiò tutti a frequentarlo, e ringraziò della festosa accoglienza che gli avevamo fatto.
Celebrò la santa Messa durante la quale diede la Comunione a più di trecento ragazzi. Poi amministrò la santa Cresima. All'inizio della celebrazione, dimenticando che non era in Duomo, quando gli posero in capo la mitria alzò energicamente il capo, e battè contro il soffitto della chiesetta. Scoppiammo a ridere, lui e tutti noi. L'Arcivescovo raccontava sovente questo episodio, ricordando con piacere il nostro Oratorio. L'abate Rosmini paragonava la nostra opera alle Missioni che si aprono in terra straniera.
I preziosi «verbali»
Insieme a monsignor Fransoni erano venuti due canonici del Duomo e molti altri preti. Quando l'Arcivescovo ebbe amministrato la Cresima, si fecero tanti piccoli verbali. Accanto al nome e cognome di ogni ragazzo cresimato si annotò il luogo e la data del giorno, il nome dell'Arcivescovo e quello del padrino. Alla fine quei verbali furono divisi secondo le varie parrocchie (in cui i giovani abitavano). Vennero quindi portati alla Curia e di qui trasmessi ai rispettivi parroci.
7. IL PRIMO ORFANO ARRIVA DALLA VALSESIA
Piccoli ladri sul fienile
Mentre organizzavamo l'istruzione religiosa e scolastica, fui costretto a pensare a un'altra necessità grande e urgente. Molti ragazzi immigrati a Torino volevano sinceramente lavorare e vivere da buoni cristiani. Ma trovavano serie difficoltà: nei primi tempi non avevano né pane né vestiti convenienti. Specialmente non avevano un alloggio. Tentai di ospitarne alcuni che alla sera non sapevano dove andare a dormire. Preparai un fienile con paglia e qualche cosa da coprirsi. Ma erano poveri ragazzi: molte volte mi rubavano coperte e lenzuola. Alla fine mi portavano via anche la paglia, per andare a rivenderla.
Dormì accanto al focolare di mamma Margherita
Una piovosa sera di maggio bussò alla nostra porta un ragazzo di 15 anni, tutto bagnato e intirizzito. Ci chiese pane e ospitalità. Mia madre lo fece entrare in cucina, vicino al focolare. Mentre si scaldava e si asciugava, gli diede pane e minestra. Intanto gli domandai se era andato a scuola, se aveva parenti, che mestiere faceva. Mi rispose:
- Sono un povero orfano. Vengo dalla Valsesia a cercare lavoro. Avevo tre lire, ma le ho spese tutte e non ho trovato lavoro. Adesso non ho più niente e non sono più di nessuno.
- Hai già fatto la prima Comunione?
- No.
- E la Cresima?
- Nemmeno.
- Sei già andato a confessarti? - Qualche volta.
- E adesso dove vuoi andare?
- Non lo so. Per carità, lasciatemi passare la notte in un angolo.
Silenziosamente si mise a piangere. Anche mia madre piangeva, e io ero profondamente turbato.
- Se sapessi che non sei un ladro, ti terrei. Ma degli altri ragazzi mi hanno portato via le coperte, e forse tu farai come loro.
- No, signore. Stia tranquillo. Io sono povero ma non ho mai rubato.
- Se sei d'accordo - disse mia madre - per questa notte lo faccio dormire qui. Domani Dio provvederà.
- Qui dove? - In cucina. - E se porta via le pentole?
- Farò in maniera che non succeda. - Allora d'accordo.
Aiutata dal ragazzo, mia mamma usci fuori e raccolse dei mezzi mattoni. Li portò dentro, fece quattro pilastrini, vi distese alcune assi, mise sopra un pagliericcio e preparò così il primo letto dell'Oratorio. La mia buona mamma, a questo punto, fece a quel ragazzo un discorsetto sulla necessità del lavoro, dell'onestà e della religione. Poi lo invitò a recitare le preghiere.
- Non le so - rispose.
- Allora le reciterai con noi - gli disse. E pregammo insieme.
Per non correre pericoli, la cucina fu chiusa a chiave fino al mattino dopo.
Questo fu il primo ragazzo ospitato nella nostra casa. A lui se ne aggiunse presto un secondo, e poi altri. Ma in quell'anno, 1847, per mancanza di spazio, abbiamo dovuto limitarci a due.
Nuove stanze e nuova musica
Ero persuaso che per molti ragazzi ogni aiuto era inutile se non gli si dava una casa. Per questo mi sono dato da fare per prendere in affitto altre stanze, e poi altre ancora, nella casa Pinardi, anche se il prezzo era esagerato.
Di giorno, queste stanze servivano anche da classi, e così potemmo iniziare la scuola di musica e di canto.
Quella nostra scuola pubblica di musica (iniziata nel 1845) fu la prima. Per la prima volta la musica veniva insegnata in classe a un gran numero di allievi contemporaneamente. Prima d'allora, ogni allievo si cercava un maestro che gli desse lezioni individuali.
Moltissimi giovani si iscrissero. Ogni sera, alle mie lezioni, avevo degli spettatori illustri: i maestri Luigi Rossi, Giuseppe Blanchi, Cerutti, il canonico Luigi Nasi. Era un fatto contrario al Vangelo, dove si legge che il discepolo non pub essere superiore al maestro. Io non possedevo nemmeno un milionesimo della sapienza musicale di quelle celebrità, eppure facevo da maestro davanti a loro. Ma essi non venivano certo per imparare musica. Volevano invece conoscere il nostro metodo di insegnare, quello stesso che oggi è usato in tutte le nostre case.
8. IL SECONDO ORATORIO
Battaglia delle lavandaie
Man mano che le nostre scuole si moltiplicavano, si moltiplicava anche il numero dei ragazzi. Nei giorni di festa era ormai impossibile accoglierli tutti nel cortile e nella chiesa.
D'accordo con don Borel pensai allora di aprire un secondo Oratorio in un altro quartiere della città. Affittammo una piccola casa a Porta Nuova sul viale del Re (ora Corso Vittorio Emanuele Il), che la gente chiamava viale dei Platani per le piante che lo fiancheggiavano.
Per avere quella casa abbiamo dovuto ingaggiare un'accanita battaglia con le persone che l'abitavano. Erano lavandaie, e non volevano cederci la casa a nessun costo, disposte a far crollare il mondo. Ma le prendemmo con le buone, pagammo loro una indennità, e risolvemmo la faccenda senza far scoppiare la guerra.
Della casa e del prato per i giochi era proprietaria la signora Vaglienti, che poi lasciò erede il cavalier Giuseppe Turvano. L'affitto era di lire 450 all'anno. L'Oratorio fu dedicato a san Luigi Gonzaga.
I tentativi non sempre riescono
L'inaugurazione fu fatta da me e da don Borel il giorno dell'Immacolata Concezione 1847. Moltissimi ragazzi cominciarono a frequentarlo, e così la massa compatta che invadeva ogni domenica l'Oratorio di Valdocco si diradò un poco.
La direzione fu affidata a don Giacinto Carpano, che per alcuni anni prestò la sua opera completamente gratuita. Il regolamento scritto per l'Oratorio di Valdocco fu integralmente adottato anche per quello di san Luigi.
In quel medesimo anno, per ospitare un numero più consistente di ragazzi, comprammo tutta la casa Moretta. Ma i muratori che cercarono di adattarla trovarono le mura troppo fragili. Finimmo per rivenderla, tanto più che ci venne offerto un prezzo molto vantaggioso. Comprammo invece 3800 metri quadrati di terreno dal Seminario di Torino. È il luogo dove furono poi fabbricati la chiesa di Maria Ausiliatrice e l'edificio dei laboratori per i nostri giovani artigiani.
9. 1848, ANNO DIFFICILE
Un colpo di fucile in cappella Pinardi
In quest'anno la politica e l'opinione pubblica iniziarono un'azione drammatica di cui era difficile prevedere la conclusione.
Carlo Alberto concesse la Costituzione. Molti pensarono che insieme alla Costituzione veniva concessa la libertà di fare il bene e il male secondo il proprio capriccio. Questa convinzione nasceva dalla libertà accordata agli ebrei e ai protestanti. « Non c'è più distinzione tra essere cattolici e essere di un'altra religione », si diceva. Questo era vero per ciò che riguardava la vita politica, ma non modificava i doveri religiosi.
In quei giorni, una specie di frenesia si diffuse tra i giovani. Si radunavano in vari punti della città, nelle vie e nelle piazze, prendevano d'assalto preti e chiese. Ogni offesa alla religione era considerata « una bella impresa ». Io fui assalito più volte in casa e in strada.
Un giorno, mentre facevo catechismo, un colpo di archibugio (= vecchio fucile) entrò per una finestra, mi stracciò la veste tra il braccio e il torace, e andò a fare un largo squarcio nel muro.
Un'altra volta, mentre ero in mezzo a una folla di ragazzi, in pieno giorno, un tale che ben conoscevo mi assali con un lungo coltello. Mi salvai per miracolo, fuggendo in camera mia e sbarrando la porta.
Don Borel sfuggì per miracolo a un colpo di pistola. Sfuggì anche ad alcune coltellate assassine un giorno che fu scambiato per un'altra persona. Era difficile calmare e far cambiare idea a quei giovani scatenati.
I luoghi di lavoro diventano pericolosi
Mentre si verificava quel pervertimento generale, cercai di dare ospitalità al maggior numero possibile di giovani lavoratori. Affittai altre stanze e ne ospitai quindici: tutti giovani senza famiglia e in pericolo di mettersi per una cattiva strada.
C'era però una grossa difficoltà. Non avevamo laboratori interni, e i nostri giovani andavano al lavoro a Torino. Questo creava pericoli seri per la loro vita cristiana: i compagni di lavoro, i discorsi che sentivano, quello che vedevano, molte volte distruggevano le convinzioni cristiane che cercavamo di costruire nell'Oratorio.
E’ in questo tempo che ho cominciato a fare un discorsetto brevissimo alla sera, dopo le preghiere. Esponevo o rafforzavo qualche verità cristiana che era stata messa in discussione durante la giornata.
Ciò che capitava ai giovani lavoratori, capitava anche agli studenti. Non avevamo classi interne, quindi i più avanzati nello studio si recavano dal professor Giuseppe Bonzanino a frequentare grammatica, e gli altri dal professor don Matteo Picco a scuola di retorica. Erano scuole ottime, ma nell'andare e nel tornare anche gli studenti incontravano le loro difficoltà.
Solo nell'anno 1856 potemmo avere tutte le scuole e i laboratori nella casa dell'Oratorio, con grande vantaggio.
Scodellare la minestra e dire una buona parola
Nell'anno 1848 ci fu un tale pervertimento di idee e di azioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me e da mia madre. Toccava a me fare cucina, preparare la tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola, e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo, e invece trovai in quelle attività una possibilità grande di aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, mentre scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola.
I primi Esercizi Spirituali e perché
Sentivo sempre più necessità che qualcuno mi desse una mano nella gestione della casa e nell'aprire scuole all'Oratorio. Con questo pensiero cominciai a invitare qualcuno a passare le ferie con me nella casa dei Becchi. Altri li invitavo a tenermi compagnia a pranzo o alla sera. Venivano a leggere, a scrivere, a studiare, e intanto discutevamo le opinioni velenose che circolavano in quei giorni contro la religione. Tutto questo durò dal 1841 al 1848. Lo facevo avendo in mente lo scopo che ho già detto: osservare, conoscere, scegliere alcuni individui adatti alla vita comune, e proporre loro di rimanere con me.
Puntando sempre in questa direzione, nel 1848 ho tentato un piccolo corso di Esercizi Spirituali. Raccolsi una cinquantina di ragazzi. Facevano pranzo e cena con me, ma poiché non c'erano letti per tutti, alcuni andavano a dormire a casa e tornavano al mattino seguente. Quell'andare e venire alla sera e al mattino, però, metteva a rischio il clima di raccoglimento e di riflessione che le prediche e il silenzio creano in quei giorni. Gli Esercizi cominciarono domenica sera e terminarono sabato sera.
Riuscirono molto bene. Diversi ragazzi, attorno ai quali avevo lavorato inutilmente per tanto tempo, cominciarono una seria vita cristiana. Alcuni seguirono la vocazione religiosa. Altri rimasero laici, ma divennero modelli di vita cristiana per i loro compagni dell'Oratorio. Di questo parlerò più distesamente nella Storia della Società Salesiana.
La parrocchia dei ragazzi senza parrocchia
Alcuni parroci (ricordo quelli di Borgo Dora, del Carmine e di Sant'Agostino) espressero nuovamente all'Arcivescovo la loro preoccupazione perché negli Oratori si amministravano i Sacramenti. L'Arcivescovo rispose con un decreto con cui ci autorizzava a dare la Comunione anche nei giorni di Pasqua e a preparare alla Cresima i ragazzi che frequentavano i nostri Oratori. Ci rinnovò pure la facoltà di fare tutte le funzioni religiose che si fanno in una parrocchia. «Gli Oratori - disse l'Arcivescovo - saranno la parrocchia dei ragazzi senza parrocchia ».
10. LEZIONI CORAGGIOSE DI VITA CRISTIANA
Il primo coro di voci bianche
La vita religiosa e morale dei giovani era esposta a seri pericoli. Occorreva moltiplicare gli sforzi per aiutarli. Accanto alla scuola serale e diurna, alla scuola di musica vocale, aprimmo anche la scuola di pianoforte, di organo e di altri strumenti musicali. Divenni così maestro di musica vocale e strumentale, di organo e pianoforte, senza esserne mai stato un vero allievo. La buona volontà suppliva. Preparammo un piccolo coro di voci bianche, che si esibì prima nella chiesetta dell’oratorio, poi a Torino, Rivoli, Moncalieri, Chieri e in altri luoghi. I nostri cantori erano preparati e diretti dal canonico Luigi Nasie da don Michelangelo Chiatellino. Finallora non si erano mai ascoltati cori di ragazzi. Le sue esecuzioni erano una grande novità. Dappertutto si parlava della nostra musica, il coro di voci bianche era desiderato e invitato alla solennità. Don Nasi e don Chiatellino divennero anche gli accompagnatori ufficiali della nostra nascente “società filarmonica”.
Andavamo ogni anno al Santuario della Consolata a celebrare una funzione religiosa. Quell’anno ci recammo in processione partendo dall’Oratorio. I nostri canti risuonarono per le strade e attirarono una vera folla di gente. In chiesa celebrai la messa. I ragazzi fecero la Comunione e cantarono. Poi scendemmo nella cappella sotterranea e dissi a tutti una buona parola. Gli oblati di Maria ci ringraziarono offrendo ai ragazzi una splendida colazione sotto i portici del Santuario.
Il Municipio dà una mano e mille lire
Così i giovani imparavano a mostrare francamente la loro fede, e altri ragazzi si univano a noi. Erano manifestazioni in cui, pur con la massima prudenza, davamo lezione di vita cristiana, rispetto alle autorità e frequenza ai santi Sacramenti. Erano avvenimenti insoliti, che facevano parlare e discutere.
Il Municipio di Torino, per verificare ciò che si diceva di noi, mandò in quell'anno una commissione composta dal cavaliere Pietro Ropolo del Capello, detto Moncalvo, e dal commendatore Duprè. Esaminarono la nostra attività, ne furono soddisfatti, e scrissero una buona relazione sulla vita dell'Oratorio. Risultato: un premio di lire mille e una lettera di elogi.
Da quell'anno il Municipio ci mandò un sussidio annuale fino al 1878. Dopo quell'anno (come ho già detto) ci fu tolto il sussidio. Cessava così ciò che quei saggi amministratori avevano messo in bilancio per sostenere una scuola serale che istruiva i figli del popolo.
Pure l'Opera della Mendicità, che aveva iniziato scuole serali e musicali adottando i nostri metodi, mandò una delegazione a farci visita. La capeggiava il cavaliere Gonella. Come segno di simpatia e di sostegno ci diede anch'essa un premio di mille lire.
Pellegrinaggio di ragazzi coraggiosi
Ogni anno, nel giorno del Giovedì santo, i nostri giovani si recavano nelle varie chiese di Torino per venerare e ammirare i « santi sepolcri ». Ma in quei tempi difficili, gruppi di giovinastri prendevano in giro i ragazzi dell'Oratorio, li insultavano. Alcuni avevano paura, non osavano più entrare in una chiesa. Allora presi una decisione coraggiosa. Per dare a tutti la forza di vincere il disprezzo, tutto l'Oratorio si recò in processione alle varie chiese, cantando lo Stabat Mater e il Miserere.
Il risultato superò le mie previsioni: molti ragazzi piccoli e grandi, ricchi e poveri, lungo la strada si unirono a noi, e vennero con noi ad adorare l'Eucaristia. Abbiamo potuto pregare e cantare con ordine e tranquillità.
La sera di quel Giovedì santo (era la prima volta per l'Oratorio) ripetemmo la « lavanda dei piedi » fatta da Gesù. Furono scelti dodici ragazzi, che ricevettero il titolo di « dodici apostoli ». Dopo la lavanda, dissi alcune buone parole ai giovani e alla gente che si era unita a noi. Quindi invitai i « dodici apostoli » a partecipare alla nostra povera cena, e diedi a ciascuno un piccolo regalo, che accettarono con gioia.
Pure in quell'anno, lungo le pareti della cappellina, collocammo le « stazioni della Via Crucis », e le benedicemmo con grande solennità. Ad ogni stazione dicevo una breve parola, e i ragazzi cantavano la strofa di un canto sacro.
Così il nostro povero Oratorio si irrobustiva poco alla volta, mentre si verificavano gravi avvenimenti che dovevano cambiare l'aspetto politico dell'Italia e forse del mondo.
11. 1849. TRENTATRE' LIRE PER PIO IX
All'Oratorio i seminaristi sbandati
Sarà difficile dimenticare quell'anno. La guerra del Piemonte contro l'Austria, cominciata l'anno prima, aveva messo sottosopra tutta l'Italia. Le scuole pubbliche furono sospese. I seminari, in particolare quelli di Chieri e di Torino, furono chiusi e occupati dai militari. Per conseguenza, i seminaristi della nostra diocesi rimasero senza sede e senza maestri. Spinto da questa situazione, presi in affitto tutta la casa Pinardi. Non era molto, ma era tutto quello che potevo per fare del bene in quel momento così triste. Con tutta la casa a disposizione potevo moltiplicare le classi scolastiche, ingrandire la chiesa, raddoppiare lo spazio per i giochi, e portare il numero dei ragazzi ospitati giorno e notte a trenta.
Lo scopo principale, però, era di poter accogliere i chierici della diocesi. Questo scopo fu raggiunto, e si può dire che per quasi vent'anni la casa dell'Oratorio divenne il Seminario diocesano.
Quando chiesi di affittare tutta la casa Pinardi, gli inquilini protestarono rumorosamente. Fecero minacce a me, a mia madre, allo stesso Pinardi. Dovetti sborsare molto denaro, ma alla fine tutto l'edificio fu messo a nostra disposizione. Così, tutto quell'ambiente malfamato, che per vent'anni era stato luogo di vizio e di peccato, divenne nostro. Potevo disporre di tutta la zona dove ora sono il cortile e la casa dietro la chiesa di Maria Ausiliatrice.
Colletta per il Papa
Verso la fine dei 1848 gli avvenimenti politici costrinsero Pio IX a fuggire da Roma e a rifugiarsi a Gaeta. Questo grande Papa aveva molte volte dimostrato bontà e simpatia verso di noi. Quando si sparse la notizia che a Gaeta si trovava in difficoltà finanziarie, a Torino si fece una questua sotto il nome di Obolo di San Pietro.
Una commissione composta dal canonico Francesco Valinotti e dal marchese Gustavo Cavour venne all'Oratorio a chiedere anche il nostro contributo. La questua tra i ragazzi risultò di 33 lire. Era una cosa da poco, e noi cercammo di renderla gradita al Papa con una lettera di auguri che gli piacque molto. Manifestò il suo gradimento con una lettera indirizzata al cardinale Antonucci, allora Nunzio di Torino e poi arcivescovo di Ancona. Il cardinale veniva incaricato di dirci quanto l'aveva commosso la nostra offerta, e più ancora le parole che l'accompagnavano. Ricambiava mandandoci la sua benedizione papale e un pacco di 720 corone del Rosario. Furono distribuite solennemente ai giovani il 20 luglio 1850.
Il terzo Oratorio
I giovani che affollavano gli Oratori di Valdocco e di San Luigi erano sempre più numerosi. Passammo allora ad un terzo Oratorio. Fu quello dell'Angelo Custode, in borgo Vanchiglia, poco distante dal luogo dove la Marchesa Barolo fece poi costruire la chiesa di Santa Giulia.
Quell'Oratorio era stato fondato anni prima da don Giovanni Cocchi, e aveva più o meno lo stesso scopo dell'Oratorio di Valdocco. Ma don Cocchi, infiammato di amor patrio, aveva creduto bene di insegnare ai suoi giovani l'uso del fucile e della spada. Aveva marciato alla loro testa per partecipare alla guerra contro gli Austriaci.
L'Oratorio di don Cocchi rimase chiuso per un anno. Poi l'abbiamo affittato noi. Ne prese la direzione don Giovanni Vola, di cara memoria. Rimase funzionante fino al 1871, quando fu trasferito presso la chiesa parrocchiale. La marchesa Barolo lasciò un legato a favore dell'Oratorio, a patto che la cappella e il locale fossero a servizio dei ragazzi della parrocchia. Così si è fatto.
Il primo chierico dell'Oratorio
All'Oratorio di Valdocco, in quel tempo, arrivò una commissione di Deputati, incaricati dal Ministero degli Interni di visitare la nostra opera. Con gentilezza e amicizia videro tutto e tutti. Poi fecero una consistente relazione alla Camera dei Deputati. La relazione fu seguita da una lunga e vivace discussione, riportata dalla Gazzetta Piemontese dei 29 marzo 1850. A seguito di questa visita, la Camera dei Deputati ci assegnò un sussidio di lire 300. Urbano Rattazzi, in quel tempo Ministro degli Interni, ci fece assegnare lire 2000.
Alla fine dell'ottobre di quell'anno,' uno dei miei allievi, finalmente, vestì l'abito dei chierici. Si chiamava Ascanio Savio, e divenne poi Rettore del Rifugio. Fu il primo chierico dell' Oratorio.
12. « VOGLIO TENERMI FUORI DALLA POLITICA »
Panciotti patriottici
In quei giorni venne a disturbare pesantemente la nostra vita un fatto strano. Si voleva che il nostro povero Oratorio prendesse parte alle manifestazioni pubbliche che si ripetevano nei quartieri della città e nei paesi sotto il nome di « feste nazionali ». Chi vi prendeva parte e voleva dimostrare pubblicamente il suo amor patrio, si divideva i capelli sulla fronte e se li lasciava cadere inanellati sulle spalle, indossava un panciotto attillato e variopinto, poneva sul petto una coccarda azzurra e una medaglia, impugnava la bandiera tricolore. Così abbigliati si partecipava ai cortei cantando inni all'unità della nazione.
Dialogo con il marchese
Il marchese Roberto d'Azeglio, principale promotore di quelle manifestazioni, ci fece un invito formale perché vi partecipassimo. Rifiutai, ma ciò nonostante ci procurò tutto quello che occorreva perché potessimo fare la nostra bella figura. In Piazza Vittorio era preparato un posto per noi accanto a tutti gli istituti di Torino.' Che fare? Rifiutare era come dichiararsi nemico dell'Italia. Acconsentire significava accettare certi principi che io consideravo molto pericolosi.
- Signor marchese - risposi al d'Azeglio - questo non è un istituto, ma una famiglia. I giovani che si raccolgono nella mia casa non sono un ente morale. Mi farei prendere in giro se presentassi come mia un'opera che invece è affidata alla carità cittadina.
- Proprio per questo lei deve intervenire. La carità pubblica deve sapere che quest'opera non è contraria alle istituzioni moderne. Ciò vi farà del bene. Aumenteranno le offerte. Il Municipio e io stesso saremo generosi nei vostri riguardi.
- Signor marchese, è mio fermo sistema tenermi fuori da ogni cosa che si riferisce alla politica. Mai in favore, mai contro. - Che cosa vuol fare allora?
- Fare tutto il bene possibile ai ragazzi abbandonati. Adoperare tutte le forze perché diventino buoni cristiani di fronte alla religione e onesti cittadini in mezzo alla società civile.
- Capisco ciò che vuol dire. Ma lei si sbaglia. Se persiste in questo principio sarà abbandonato da tutti, e la sua opera diverrà insostenibile. Bisogna scrutare il mondo, conoscerlo, e rendere le istituzioni antiche e moderne adeguate ai tempi.
- La ringrazio della sua buona volontà e dei consigli che cerca di darmi. Mi inviti a qualche cosa dove il prete possa esercitare concretamente l'amore del prossimo, e mi vedrà pronto a sacrificare tutto ciò che possiedo, anche la vita. Ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
Quell'uomo celebre e potente se ne andò senza essere riuscito a farmi cambiare parere. D'allora in poi non ebbe più relazioni con noi. Anche molti laici ed ecclesiastici, dopo di lui, mi abbandonarono. Dopo il fatto che adesso narrerò, rimasi praticamente solo.
13. PRETI E GIOVANI SE NE VANNO
Un giornale fatto a pezzi
La domenica dopo, alle due pomeridiane, ero in cortile con i ragazzi. Un tale, accanto a me, leggeva il giornale l'Armonia. Ed ecco arrivare i preti che mi aiutavano nel lavoro tra i giovani. Li guardai sbalordito: avevano coccarde e medaglie sul petto, tricolore in mano. E tra le mani avevano anche un giornale anticlericale, l'Opinione.
Uno di essi, che stimavo assai per l'intelligenza e l'impegno tra i giovani, viene accanto a me e mi dice aspro, indicando colui che teneva in mano l'Armonia:
- Vergogna! è tempo di finirla con questi nostalgici! Così dicendo, gli strappa dalle mani il giornale, lo fa a pezzi, lo getta in terra, ci sputa sopra, lo calpesta. Sfogata così la sua rabbia politica, torna verso di me e mi agita sotto il naso l'Opinione.
- Questo sì che è un buon giornale. Questo si deve leggere dai cittadini veri e onesti.
Rimasi sbalordito da quel modo di parlare e di comportarsi. Non volendo aumentare lo scandalo tra i ragazzi, in quel luogo dove si doveva dare solo buon esempio, pregai lui e i suoi colleghi di rimandare quegli argomenti a quando saremmo stati solo noi, in privato.
- Nossignore - mi rispose -. Non ci deve essere più niente di privato o di segreto. Ogni cosa dev'essere fatta e detta alla luce del sole.
Fuga in massa
In quel momento il campanello chiamò tutti in chiesa. Uno di quei preti era stato incaricato di dire una buona parola ai giovani. Ma la sua fu una parola cattiva. Egli tenne un discorso squillante di libertà, emancipazione, indipendenza.
In sacrestia, aspettavo impaziente di poter parlare io, e di mettere fine a quel disordine. Ma il predicatore, terminato il discorso, diede la benedizione, e subito dopo invitò preti e giovani a seguirlo. Cantando a pieni polmoni inni nazionali e facendo sventolare freneticamente la bandiera, andarono fino al Monte dei Cappuccini. Là fecero tutti una promessa solenne: sarebbero rientrati all'Oratorio solo se fossero stati invitati e ricevuti «in forma nazionale».
Tutto questo accadde senza che io potessi dire una parola. Ma non provai nessuna paura. Sapevo qual era il mio dovere. Feci dire a quei preti che proibivo severamente il loro ritorno all'Oratorio. Quanto ai giovani, quelli che volevano rientrare dovevano venire a parlare con me uno alla volta.
La faccenda si concluse bene. Nessuno di quei preti tentò di tornare. I giovani chiesero scusa, riconobbero di essere stati ingannati, e promisero obbedienza e disciplina.
14. IL PESO DELLA SOLITUDINE
« Anche i chierici se ne andarono »
Ma io rimasi solo. Nei giorni di festa dovevo cominciare le confessioni al mattino presto. Alle 9 celebravo la Messa e facevo la predica. Poi scuola di canto e di italiano fino a mezzogiorno. All'una dopo pranzo c'era la ricreazione dei ragazzi, quindi il catechismo, il canto dei vespri, l'istruzione, la benedizione. Quindi giochi, canti e scuola fino a notte. Nei giorni feriali, lungo la giornata dovevo badare al lavoro dei piccoli artigiani e far scuola a una decina di studenti. Alla sera dovevo pensare alla scuola di francese, aritmetica, canto, musica, pianoforte e organo. Non so come abbia potuto reggere. Dio mi aiutò.
Un grande conforto e un notevole aiuto lo ebbi in quei momenti da don Borel. Quel meraviglioso prete, sebbene carico di mille altre occupazioni, approfittava di ogni ritaglio di tempo per venirmi in aiuto. Sovente rubava le ore al sonno per venire a confessare i ragazzi, rinunciava a un poco di riposo per predicare.
Questa posizione difficile durò finché non ebbi l'aiuto dei chierici Savio, Bellia e Vacchetta. Ma anch'essi mi abbandonarono presto: senza dirmi una parola, esortati da qualcuno, en-trarono tra gli Oblati di Maria.
Rosmini fa catechismo ai ragazzi dell'Oratorio
Una domenica ricevetti la visita di due sacerdoti. Era l'ora del catechismo, e tutti i giovani erano in movimento per dividersi nelle varie classi. I due preti, con grande cortesia, mi vennero vicino, si rallegrarono con me per quello che vedevano, e cominciarono a domandarmi notizie sull'origine e sul sistema dell'Oratorio. Riuscii solo a rispondere:
- Abbiate la bontà di darmi una mano. Lei venga dietro l'altare: le affido la classe dei più grandi. A lei - dissi al più alto in statura - do il gruppo dove ci sono i più dissipati.
Mi accorsi che facevano catechismo a meraviglia. Subito dopo pregai uno di dire una buona parola ai ragazzi, e l'altro di dare la benedizione col Santissimo. Tutti e due accettarono molto gentilmente.
Il più alto in statura era il canonico De Gaudenzi, poi Vescovo di Vigevano. L'altro era l'Abate Antonio Rosmini, fondatore dell'Istituto della Carità. D'allora in poi entrambi furono amici e benefattori dell'Oratorio.
15. COMPRARE UNA CASA E AFFITTARE UNA BETTOLA
« Centomila di multa a chi si tira indietro »
L'anno 1849 fu spinoso e sterile, sebbene mi sia costato grandi fatiche ed enormi sacrifici. Ma fu una preparazione all'anno 1850, meno burrascoso e molto più ricco di buoni risultati.
Cominciamo da casa Pinardi. Quelli che avevano perso l'alloggio non riuscivano a rassegnarsi. Dicevano in giro:
- Era una casa di sollievo e di allegria. E adesso guarda! È finita nelle mani di un prete, per di più di un prete intollerante! Al Pinardi fu proposto un affitto due volte maggiore di quanto gli davo io. Ma era un brav'uomo: non si sentiva di far denari dando la sua casa per usi equivoci. Più volte mi propose di comprare tutto, per farla finita. Ma il prezzo che proponeva era esagerato. Chiedeva 80 mila lire per un edificio che valeva un terzo. Ma Dio dimostra sovente che è lui il padrone dei cuori. Ed ecco quello che avvenne.
Un giorno festivo, mentre don Borel predicava, stavo sulla porta del cortile per impedire che qualcuno entrasse a disturbare. Ed ecco il signor Pinardi:
- Altolà! - mi dice scherzosamente - Don Bosco deve comprare la mia casa.
- Altolà - risposi con lo stesso tono -. Io la compro se il signor Pinardi me la dà per il suo prezzo.
- Per il suo prezzo io gliela do. - Quanto?
- Gliel'ho già detto molte volte.
- Quella cifra non posso prenderla in considerazione.
- Perché?
- Perché è esagerata! Non voglio offenderla facendo un'offerta inferiore di molto.
- Faccia l'offerta.
- Mi dà questa casa per il suo prezzo? - Parola d'onore: gliela do.
- Mi stringa la mano e faccio l'offerta. - Dica la cifra.
- L'ho fatta stimare da un amico mio e suo. Mi assicura che nello stato attuale il suo valore è tra le 26 e le 28 mila lire. Io, per farla finita, gliene do 30 mila.
- Regalerà in più a mia moglie una spilla da 500 lire? - Va bene.
- Mi pagherà in contanti? - In contanti.
- Quando facciamo l'atto? - Quando lei vuole.
- Fra quindici giorni, in un solo pagamento? - Come lei vuole.
- Centomila lire di multa a chi si tira indietro! - Va bene.
L'affare fu combinato in cinque minuti. Ma dove trovare 30 mila lire in quindici giorni? Ci pensò la Provvidenza. Quella sera stessa don Cafasso (cosa insolita nei giorni di festa) viene a farmi visita, e mi dice che una pia persona, la contessa Casazza Riccardi, l'aveva incaricato di darmi diecimila lire da spendersi in quello che avrei giudicato meglio nel Signore. Il giorno dopo giunse un religioso rosminiano, che veniva a Torino per impiegare 20 mila lire. Mi domandò consiglio su come spenderle. Gli proposi di imprestarle a me, ad interesse (del quattro per cento) per pagare la casa Pinardi. La somma era completa. Le tremila lire di spese accessorie furono aggiunte dal cavalier Cotta, nella cui banca venne stipulato l'atto, tanto sospirato.
La bettola dei buontemponi
Acquistata la casa Pinardi, cominciai a pensare alla cosiddetta «Giardiniera». Era una bettola dove ogni festa si radunava un bel numero di buontemponi. Nella giornata, a soste-nere l'allegria, si succedevano suonatori di organetto, piffero, clarino, violino, chitarra, basso e contrabbasso. Sovente si ritrovavano tutti insieme a sostenere una specie di concerto, a cui si univano i canti degli avvinazzati.
L'edificio in cui si trovava la bettola, casa Bellezza, era separato dal nostro cortile solamente da un muretto di cinta. Così, sovente, i canti della nostra cappella erano disturbati e soffocati dagli schiamazzi, dalla musica e dal fracasso di bottiglie della Giardiniera. Inoltre davanti a casa Pinardi era un continuo viavai di gente diretta alla bettola. È facile immaginare il disturbo che ci dava, e anche il pericolo che correvano i nostri ragazzi.
Per risolvere la faccenda ho tentato di comprare la casa. Non ci riuscii. Cercai di prenderla in affitto. La padrona della casa era d'accordo, ma la padrona della bettola no: reclamava il risarcimento di danni favolosi. Allora proposi di rilevare l'osteria. Avrei pagato l'affitto, avrei comprato tavole, panche, sedie, bancone, attrezzatura di cantina e di cucina.
Dovetti pagare tutto a carissimo prezzo, ma potei finalmente chiudere quella bettola infame e destinare il locale ad un uso ben diverso. Procedeva così il risanamento di quella zona malfamata.
16. UNA CHIESA E UNA LOTTERIA
Nella cappella-tettoia i ragazzi svenivano
I disagi morali che ci davano casa Pinardi e la Giardiniera erano finiti. Ora bisognava pensare a una chiesa più decorosa per le celebrazioni liturgiche e più adatta alla quantità sempre crescente di giovani.
La cappella-tettoia era stata ingrandita un poco, ma era sempre troppo piccola e troppo bassa. Chi vi entrava doveva scendere due gradini, e così, quando fuori pioveva, l'acqua vi entrava e ci allagava. D'estate eravamo invece soffocati dal caldo e dall'odore sgradevole. In ogni festa c'era qualche ragazzo che sveniva. Dovevamo portarlo fuori a braccia, come un asfissiato.
Era quindi necessario costruire un edificio arioso, salubre e proporzionato al numero dei giovani. Il disegno fu fatto dal cavalier Blachier. Comprendeva l'attuale chiesa di S. Francesco di Sales e il rifacimento completo della casa Pinardi. Impresario era il signor Federico Bocca. Furono scavate le fondamenta. La prima pietra fu benedetta il 20 luglio 1851 dal canonico Moreno, economo generale della diocesi, e collocata dal cavalier Giuseppe Cotta. Il celebre padre Barrera, commosso dalla vista di un gran numero di gente venuta per quella circostanza, montò su un rialzo del terreno e improvvisò uno stu-pendo discorso.
Una pietra come un granello
Le sue prime parole furono: « Signori. La pietra che abbiamo benedetta e collocata a fondamento di questa chiesa, ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in albero, presso cui verranno molti ragazzi a rifugiarsi. Significa che questa opera si fonda sopra una pietra angolare che è Gesù Cristo. I nemici della fede cercheranno di abbatterla, ma i loro sforzi saranno vani ».
Poi padre Barrera svolse queste due affermazioni tra l'attenzione rispettosa degli ascoltatori, che sentivano in lui un predicatore ispirato.
Quella festa allegra e rumorosa attirò giovani da tutte le parti. Molti venivano ormai all'Oratorio a ogni ora del giorno, altri mi pregavano di dare loro ospitalità come interni. Il loro numero, in quell'anno, superò i cinquanta. Si cominciò qualche laboratorio in casa, perché l'uscita dei ragazzi a lavorare in città si dimostrava sempre più pericolosa.
La costruzione della chiesa era ormai a livello del terreno quando mi accorsi che non avevo più soldi. Con la vendita di case e terreni avevo messo insieme 35 mila lire, ma esse erano sparite come neve al sole. L'Economato (della città) ci assegnò un aiuto di 9 mila lire, ma ce le avrebbe versate quando l'opera fosse quasi terminata. Il Vescovo di Biella, poiché nell'Oratorio erano ospitati e aiutati molti giovani lavoratori biellesi, diramò una circolare ai suoi parroci, invitandoli a raccogliere offerte. Ecco le sue parole.
La lettera del Vescovo di Biella
«Molto Reverendo Signore,
l'egregio e pio sacerdote don Bosco, animato da una carità veramente angelica, cominciò a raccogliere nei giorni festivi i giovani che incontrava, abbandonati e dispersi per le piazze e le strade, nella zona grande e popolosa che si estende tra Borgo Dora e il Martinetto. Li ha raccolti in un luogo adatto ai ragazzi, per farli divertire e per educarli cristianamente. Ne ha raccolti così tanti che la cappellina di cui dispone è diventata troppo piccola. Non contiene nemmeno un terzo dei seicento e più ragazzi che vi accorrono. Spinto dall'amore, don Bosco ha iniziato la difficile impresa di costruire una chiesa corrispondente al bisogno dei ragazzi. Si è rivolto alla carità dei Cattolici per poter sostenere le spese' gravi che la costruzione esige.
Con particolare fiducia egli si rivolge per mio mezzo alla nostra Diocesi e provincia, poiché tra i seicento e più che si riuniscono attorno a lui e frequentano il suo Oratorio, più di un terzo (oltre duecento) sono giovani biellesi. Parecchi di essi sono anche ospitati in casa sua, e sono forniti gratuitamente di vitto e vestito, per poter imparare una professione. Egli chiede quindi a noi un aiuto non solo per carità, ma anche per giustizia.
La prego quindi di informare i suoi buoni parrocchiani su questa opera così interessante, di insistere presso le persone più benestanti, e di destinare la questua di una domenica a questo fine. Il ricavato della questua verrà mandato in Curia con un mezzo sicuro e con un biglietto che indichi la somma e il luogo da cui proviene. Mentre i protestanti tentano di aprire un tempio per insegnare l'errore che porterà alla perdizione i loro fratelli, i cattolici non saranno capaci di contribuire alla costruzione di una chiesa in cui sarà insegnata la verità e la via della salvezza a loro, ai loro fratelli, ai loro compatrioti? Ho la viva speranza di poter sostenere degnamente l'opera dell'uomo di Dio con le offerte che ci perverranno. Spero pure di toccare con mano un segno della buona volontà illuminata e riconoscente dei miei diocesani verso un'opera che è santa, utile, anzi necessaria ai tempi in cui viviamo. Colgo questa opportunità per riaffermarvi la mia stima e il mio affetto.
Biella 13 settembre 1851. Dev.mo Giovanni Pietro vescovo ».
La prima lotteria
La questua fruttò mille lire. Ma furono gocce d'acqua su un terreno riarso. Quindi mi misi a pensare a una lotteria pubblica. Riuscimmo a raccogliere 3300 doni. Il Papa, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte e tutta la Corte Sovrana si segnalarono mandando doni.
Lo spaccio dei biglietti (ciascuno costava mezza lira) fu portato a termine. Quando si fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città, molti cercavano ancora di comprare biglietti, disposti a pagarli dieci volte il loro prezzo.
(A questo punto, don Bosco suggerisce all'eventuale trascrittore delle sue memorie. « Si può mettere il Programma e il Regolamento di questa Lotteria». Ma mi sembrano documenti aridi e burocratici, senza particolare interesse).
Molti vincitori lasciarono il loro premio a vantaggio della chiesa. Questo ci procurò un ulteriore aiuto. Le spese furono ingenti, ma la somma netta ricavata fu di lire 26 mila.
17. « GUAI A TORINO IL 26 aprile! »
Lo scoppio della polveriera
Il 26 aprile 1852, mentre gli oggetti della lotteria erano esposti al pubblico, avvenne lo scoppio della polveriera che si trovava presso il cimitero di San Pietro in Vincoli. L'urto che seguì fu violentissimo e terribile. Molti edifici, vicini e lontani, furono scossi come da un terremoto, e riportarono gravi danni. Tra i lavoratori della polveriera, ventotto rimasero uccisi. Il danno sarebbe stato molto maggiore se un sergente di nome Sacchi, esponendo la vita a grave pericolo, non avesse impedito al fuoco di raggiungere un altro deposito di polveri, di proporzioni molto maggiori. Se fosse esploso anche quel secondo deposito, l'intera città di Torino avrebbe potuto essere rovinata.
La casa dell'Oratorio, che era stata costruita male, ne soffrì molto. I deputati, per aiutarne la riparazione, ci mandarono un'offerta di lire 300.
Voglio raccontare a questo proposito un fatto che riguarda un nostro ragazzo artigiano, Gabriele Fascio. L'anno precedente questo ragazzo si era ammalato gravemente, ed era arrivato in fin di vita. Smaniando sotto l'effetto della febbre alta, ripeteva: - Guai a Torino! Guai a Torino!
I compagni che l'assistevano gli domandarono: - Ma perché?
- Perché è minacciata da un grave disastro. - Quale?
- Un orribile terremoto.
- Quando avverrà?
- L'anno prossimo. Guai a Torino il 26 aprile! - Che cosa dobbiamo fare?
- Pregare San Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi abitano.
Fu allora che, per iniziativa dei ragazzi, aggiungemmo alle preghiere che recitavamo mattino e sera, un Pater, Ave e Gloria in onore di San Luigi. In realtà la nostra casa, pensando al pericolo che corremmo, subì danni poco gravi, e nessun giovane rimase. ferito.
Poesie e feste per la nuova chiesa
Intanto i lavori della Chiesa di San Francesco di Sales progredivano velocemente. In undici mesi giunsero al termine. Il 20 giugno 1852 ci fu la consacrazione, con una festa che per noi fu più unica che rara.
All'entrata del cortile avevamo elevato un arco di altezza colossale. Sopra di esso, con lettere cubitali, avevamo scritto:
In caratteri dorati scriveremo in tutti i lati
« Viva eterno questo dì ».
Il maestro Giuseppe Blanchi, che ricordo con gratitudine, aveva musicato alcuni versi che divennero l'inno ufficiale di quei giorni. Si sentivano cantare in ogni angolo della casa:
Prima il sole dàll'occaso
fia che torni al suo oriente,
ogni fiume a sua sorgente
prima indietro tornerà,
che da noi ci si cancelli
questo dì, che tra i più belli
tra di noi sempre sarà.
Si recitò e si cantò con entusiasmo anche un'altra poesia:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido,
per poggiare ansiosoil nido
e tranquillo riposar;
Così noi oltre dieci anni
questo nido abbiam cercato,
né dal ciel mai ci fu dato
di poterlo ritrovar.
Ora un prato, or un giardino,
or cortile, stanza o strada,
talor piazza oppur contrada
Oratorio era per noi.
Quando alfin pietoso Iddio
volse a noi benigno un guardo,
e due lustri di ritardo largamente compensò.
Compensò... ci dié le scuole,
un giardino per trastulli,
quasi nido per fanciulli
una casa apparecchiò.
Molti giornali parlarono della nostra festa.
Terminata la chiesa, occorrevano arredi di ogni genere. La carità dei cittadini ci venne in aiuto. Il commendator Giuseppe Duprè fece abbellire la cappella dedicata a San Luigi, e comperò l'altare di marmo che adorna ancora la cappella. Un altro benefattore fece costruire l'orchestra, su cui fu collocato il piccolo organo che avrebbe rallegrato le funzioni dei giovani esterni. Il signor Michele Scannagatti comprò tutti i candelieri occorrenti. Il marchese Fassati fece costruire l'altare della Madonna, lo fece adomare di candelieri di bronzo, e più tardi procurò la statua della Madonna. Don Cafasso fece costruire il pulpito. L'altare maggiore fu procurato dal dottor Francesco Vallauri, e completato da suo figlio, il sacerdote don Pietro. Così la nuova chiesa, in breve tempo, ebbe tutto il necessario per le celebrazioni private e per le feste solenni.
La Società di Mutuo Soccorso
Il primo giugno di quello stesso anno cominciammo la « Società di Mutuo Soccorso », per impedire che i nostri giovani lavoratori andassero ad iscriversi alla società chiamata « degli Operai », che fin dall'inizio manifestò carattere antireligioso. Servì molto bene per i nostri scopi. Più tardi (nel 1857) si mutò in « Conferenza di San Vincenzo de' Paoli annessa », che oggi, nel 1875, continua ad esistere.
18. UN TERRIBILE CROLLO NELLA NOTTE
Il diluvio sui muri freschi
La nuova chiesa di San Francesco di Sales con la sua sacrestia e il suo campanile era proprio ciò che ci voleva per le celebrazioni festive dei ragazzi. Era anche un ottimo luogo per le scuole serali e diurne. Ma rimaneva un altro problema da risolvere: dove ospitare tutti i ragazzi poveri che ogni giorno mi chiedevano di accettarli come interni? Il problema era aggravato dal fatto che lo scoppio della polveriera, avvenuto un anno prima, aveva mezzo rovinato la casa comprata da Pinardi.
In quel momento di necessità urgente presi la decisione di costruire un nuovo fabbricato. Per continuare a utilizzare i vecchi locali, si cominciò a costruire il nuovo braccio come un prolungamento della casa Pinardi. (È il tratto che, dalla scala che ora é al centro della casa, va fino alle « camerette di don Bosco »). Si era in autunno inoltrato, ma i lavori procedettero con molta sveltezza, e presto si giunse al tetto. Erano già state collocate al loro posto le travi del tetto, i listelli erano stati inchiodati, le tegole erano ammucchiate sulle travi e stavano per essere collocate, quando un violento acquazzone fece interrompere i lavori. L'acqua diluviò più giorni e più notti, e scorrendo e colando rose la calcina fresca, lasciando le mura di soli mattoni e ciottoli lavati.
Ognuno fugge senza sapere dove va
Era circa la mezzanotte. Tutti eravamo a riposare. Ed ecco: si ode un rumore violento, che si fa di momento in momento più intenso e spaventoso. Ognuno si sveglia e, non sapendo cosa stia capitando, pieno di terrore si avvolge nelle coperte o nelle lenzuola e esce dal dormitorio. Nella confusione, ognuno fugge senza sapere dove, solo con il desiderio di allontanarsi dal pericolo che incombe. Cresce il disordine, il fracasso. L'arma-tura del tetto, le tegole, i muri cadono rovinosamente, con immenso disastro. La nuova costruzione poggiava contro il muro dell'edificio basso e vecchio, e c'era pericolo che tutti rimanessero schiacciati sotto le rovine cadenti. Ma non ci fu nessuna disgrazia personale, al di fuori di quell'orrendo frastuono che tanto ci spaventò.
Arrivato il mattino, giunse una commissione di ingegneri inviati dal Municipio per un sopralluogo. Il cavalier Gabbetti, vedendo un alto pilastro che era stato scalzato dalla sua base e pendeva sopra un dormitorio, esclamò:
- Andate pure a ringraziare la Madonna Consolata. Quel pilastro si regge per miracolo. Se fosse caduto avrebbe sepolto sotto le rovine don Bosco e i trenta ragazzi che dormivano nel camerone sottostante.
I lavori erano a carico dell'impresa, e chi ricevette maggior danno fu il capomastro. Il danno nostro fu valutato in lire 10 mila. Il fatto avvenne alla mezzanotte del 2 dicembre 1852.
In mezzo agli avvenimenti tristi che accompagnano la vita umana, c'è sempre la mano del buon Dio che mitiga le nostre sventure. Se quel disastro fosse capitato due ore prima, avrebbe sepolto gli allievi delle scuole serali. Queste terminavano alle dieci, e gli alunni, quando uscivano dalle classi, scorrazzavano per oltre mezz'ora sotto le volte dell'edificio in costruzione. Erano circa trecento. Il disastro iniziò un paio d'ore dopo che se n'erano andati.
E adesso, che fare?
La stagione era molto inoltrata. Non si poteva né terminare né ricominciare i lavori. Cosa fare per risolvere la nostra situazione? Dove alloggiare tanti ragazzi in una casa piccola e mezzo rovinata?
Abbiamo fatto di necessità virtù. Rafforzammo i muri dell'antica cappella-tettoia e la trasformammo in dormitorio. Le scuole le trasferimmo nella chiesa nuova, che cominciò ad essere chiesa nei giorni festivi, e collegio nel resto della settimana. In quell'anno fu pure costruito il campanile che fiancheggia la chiesa di san Francesco di Sales. Il signor Michele Scannagatti, nostro benefattore, ci regalò tutti i candelieri dell'altare maggiore, che formano ancor oggi uno degli ornamenti più belli di questa chiesa.
19. 1853. NASCONO LE « LETTURE CATTOLICHE »
65 ragazzi e molti benefattori
Appena la stagione lo permise, si ricominciò la costruzione. I lavori progredirono alacremente, e in ottobre l'edificio era compiuto. Avevamo un bisogno urgente di locali, e siamo volati a occuparli. Io per primo andai ad occupare la camera che occupo ancor oggi, grazie a Dio. Potemmo stabilire un posto definitivo e conveniente per il refettorio, il dormitorio e le scuole. Il numero degli allievi fu portato a 65.
Molti benefattori continuarono ad aiutarci. Il cavalier Giuseppe Duprè fece abbellire l'altare e stuccare la Cappella di San Luigi. Procurò pure la balaustra di marmo per la stessa cappella. Il marchese Domenico Frassati regalò i candelieri in bronzo dorato e la piccola balaustra per l'altare della Madonna. Il conte Cays, nostro insigne benefattore, eletto per la seconda volta Priore della Compagnia di San Luigi, ci pagò un vecchio debito col panettiere che minacciava di non fornirci più il pane: milleduecento lire.
Comprò pure una campana per il nostro campanile. Quella campana fu occasione di una piccola festa. A benedirla venne don Gattino, il nostro parroco, che fece anche un breve discorso alla gente venuta dalla città. Dopo la funzione sacra fu rappresentata una commedia che portò allegria a tutti. Lo stesso conte Cays ci regalò in quell'anno il baldacchino (per la processione col Santissimo Sacramento) adornato di preziosi drappi, e altri attrezzi per la chiesa.
Tempo per incontrarsi con Dio
Ora la chiesa di San Francesco di Sales aveva finalmente le cose più necessarie alle celebrazioni. Potemmo così realizzare un desiderio che da tanto tempo portavamo nel cuore: la celebrazione delle Quarantore (l'esposizione solenne dell'Eucaristia per quarant'ore consecutive, accompagnata da letture della parola di Dio, predicazioni, adorazione). Non c'era grande ricchezza di addobbi, ma ci fu uno straordinario intervento di fedeli.
Per dare a tutti la possibilità di incontrarsi con Dio, dopo le Quarantore organizzammo una settimana di predicazione e di confessioni. Venne a confessarsi una vera moltitudine di persone. Il successo spirituale di quell'iniziativa fu così straordinario che anche negli anni seguenti continuammo le Quarantore, la predicazione e la disponibilità per le confessioni. La gente partecipò sempre numerosissima.
Gli ebrei e i protestanti iniziano la propaganda
Quell'anno, nel mese di marzo, cominciò la pubblicazione mensile delle Letture Cattoliche. Nel 1847, quando iniziò l'emancipazione degli ebrei e dei protestanti, divenne necessario mettere in mano alla gente, e specialmente ai giovani, qualche mezzo di difesa. Con l'atto di emancipazione, sembrava che gli ebrei e i protestanti ricevessero dal governo soltanto la libertà di fede, non quella di danneggiare la religione cattolica.
Ma i protestanti non la pensavano così. Per la loro campagna di proselitismo pubblicavano tre giornali (La buona NoVélla, La luce evangelica, il rogantino piemontese) e molti libri sulla Bibbia e su altri argomenti. Usarono pure altri mezzi concreti: impieghi e posti di lavoro, aiuti in denaro, abiti, viveri per chi frequentava le loro scuole, le loro conferenze, il loro tempio.
II governo sapeva tutto e lasciava fare, e col suo silenzio li proteggeva. Da parte loro, i protestanti erano forniti di molti mezzi finanziari, ed erano preparati a una massiccia campagna di propaganda. I cattolici, invece, confidando nelle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi, possedevano soltanto qualche giornale, qualche opera di cultura. Nessun periodico, nessun libro da mettere in mano alla gente semplice.
Don Bosco inizia la sua «battaglia»
Spinto dalla necessità, in quei mesi ho cominciato a scrivere alcune pagine schematiche sulla Chiesa Cattolica, poi alcuni manifestini intitolati Ricordi per i Cattolici. Mi misi a distribuirli tra i giovani e tra gli adulti specialmente durante gli Esercizi Spirituali e le Missioni popolari. Quei fogli e libretti furono accolti con avidità, e in breve se ne distribuirono migliaia di migliaia.
Questo fatto mi persuase che era necessario inventare qualche mezzo popolare con cui diffondere la conoscenza facile delle verità fondamentali della religione cattolica. Feci quindi stampare un libretto dal titolo Avvisi ai Cattolici,' che aveva lo scopo di mettere in guardia i cattolici dalle insidie protestanti. La diffusione di quel librettino fu straordinaria: in due anni più di duecentomila copie. Questo successo fece piacere ai buoni, ma infuriò i protestanti, che pensavano di non avere concorrenti nella propaganda religiosa. 88
« Io non metto la mia firma lì sotto »
Mi persuasi sempre di più che era urgente preparare e stampare libri per il popolo, ed elaborai il progetto delle Letture Cattoliche. Preparati i primi fascicoli volevo pubblicarli subito, ma sorse una difficoltà che non avevo né previsto né immaginato. Nessun vescovo voleva tenere a battesimo questa iniziativa. Quelli di Vercelli, Biella e Casale rifiutarono dicendo che era pericoloso lanciarsi in campo aperto contro i protestanti. L'arcivescovo mons. Fransoni, che risiedeva in quel tempo a Lione, approvava e raccomandava l'iniziativa, ma nessuno voleva mettere il suo nome nemmeno come « revisore ecclesiastico ».
Dietro richiesta dell'Arcivescovo, solo il canonico Giuseppe Zappata, Vicario generale, lesse e rivide metà del primo fascicolo. Poi mi restitui il manoscritto dicendomi:
- Si riprenda il suo lavoro. Io non me la sento di mettere la mia firma lì sotto. L'assassinio di Ximenes e di Palma sono fatti troppo recenti. (L'abate Ximenes, direttore del giornale cattolico « Il Labaro », era stato assassinato. Monsignor Palma, scrittore di quel giornale, era stato pure ucciso con un colpo di fucile nelle stanze del Quirinale, [palazzo del Papa. Entrambi i delitti erano stati compiuti nel 1848]). Lei sfida i nemici, li attacca frontalmente. Io invece preferisco lasciare aperta una strada per un'eventuale ritirata strategica.
D'accordo con il Vicario Generale esposi ogni cosa all'Arcivescovo. In risposta ebbi una lettera da portare a monsignor Moreno, vescovo di Ivrea. In essa l'Arcivescovo lo pregava di prendere sotto la sua protezione le Letture Cattoliche, di esserne il revisore ecclesiastico e di metterle sotto la sua autorità. Mons. Moreno accettò volentieri. Delegò l'avvocato Pinoli, suo Vicario generale, per la revisione ecclesiastica, ma non mise in pubblico il suo nome.
Organizzammo insieme un programma, e con il primo marzo 1853 usci il primo fascicolo di Il Cattolico Istruito nella sua Religione.
20. 1854. A TU PER TU CON I PROTESTANTI
« Scendevano a turno a Valdocco a disputare con me »
Le Letture Cattoliche furono accolte con consensi vastissimi. Il numero dei lettori fu straordinario. Ma questo suscitò l'ira dei protestanti. Provarono a combatterle con i loro giornali, con le loro Letture Evangeliche, ma non trovarono lettori. Allora passarono ad ogni sorta di attacco contro il povero don Bosco. Scendevano a turno a Valdocco, a disputare con me, persuasi che nessuno potesse resistere ai loro argomenti. I preti cattoli-ci, secondo loro, erano tutti gonzi, e con due parole si potevano mettere nel sacco.
Venivano a volte da soli, a volte in due, altre volte a gruppi. Io li ascoltavo sempre, e siccome non sapevano rispondere alle mie. domande imbarazzanti, raccomandavo che si facessero rispondere dai loro ministri, e poi mi riferissero le risposte.
Vennero Amedeo Bert, Meille, l'evangelicó Pugno, poi tanti altri. Cercavano di persuadermi a non parlare, a interrompere la stampa dei nostri libretti. Ma non ottennero nulla. Questo accese la loro ira. Credo opportuno riferire alcuni fatti.
« Lasci stare le Letture Cattoliche »
Una domenica sera del mese di maggio mi furono annunciati due signori che venivano per parlarmi. Entrarono e si complimentarono a lungo con me. Poi uno cominciò a dire:
- Lei, signor Teologo, ha dalla natura un grande dono: quello di farsi capire e leggere dal popolo. Perciò dovrebbe sfruttare questo dono prezioso in cose utili per l'umanità, mettendosi al servizio della scienza, delle arti, del commercio.
- Il mio tempo è tutto assorbito dalle Letture Cattoliche, a cui voglio dedicare ogni mia forza.
- Sarebbe molto meglio che scrivesse qualche buon libro per la gioventù: un volume di storia antica, un trattato di geografia, o di fisica, o di geometria.
- E perché, secondo voi, non dovrei dedicarmi alle Letture Cattoliche?
- Perché sono argomenti fritti e rifritti.
- Questi argomenti sono già stati trattati in opere di cultura, è vero. Ma nessuno li ha affrontati in maniera popolare. Ed è proprio questo lo scopo delle Letture Cattoliche.
- Questo lavoro, però, non le porta nessun vantaggio materiale. Se si mette invece a scrivere i libri che le abbiamo suggerito, avrà un notevole guadagno da impiegare nel meraviglioso istituto che la Provvidenza le ha affidato. Possiamo addirittura anticiparle una buona somma (mi porsero quattro biglietti da mille lire). E le assicuriamo che non sarà la nostra ultima offerta: le porteremo somme maggiori.
- Perché volete darmi tanto denaro?
- Per incoraggiarla a scrivere le opere che abbiamo suggerito, e per collaborare al suo splendido Oratorio.
- Scusatemi, signori, se non accetto il vostro denaro. Io non scriverò nessun altro libro. Continuerò a lavorare alle Letture Cattoliche.
- Ma è un lavoro inutile.
- Se è un lavoro inutile, perché preoccuparsi tanto? Perché spendere denaro per farmi smettere?
«Se esce di casa, è sicuro di rientrare?»
- Pensi bene a quello che fa. Rifiutando lei danneggia la sua opera, si espone a conseguenze e a pericoli...
- Signori, capisco molto bene quel che volete dirmi. Ma vi dico chiaro e tondo che quando sto dalla parte della verità non ho paura di nessuno. Facendomi prete, mi sono consacrato al bene della Chiesa e della povera gente. E intendo continuare a lavorare per questo, anche scrivendo e stampando le Letture Cattoliche.
- Lei fa male - dissero con voce minacciosa alzandosi in piedi. - Lei fa male, lei ci insulta. Se esce di casa, è sicuro di rientrare?
- Voi non conoscete i preti cattolici, signori. Finché vivono, lavorano per compiere il loro dovere. Se per far questo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria.
In quel momento li vidi così irritati che temevo mi picchiassero. Mi alzai, misi una sedia tra me e loro, e aggiunsi:
- Se volessi usare la forza, non avrei nessuna paura di voi. Ma la forza dei preti è la pazienza e il perdono. Andatevene. Aprii la porta della camera:
- Buzzetti, dissi, conduci questi signori fino al cancello. Non conoscono bene la strada.
Rimasero confusi. Borbottarono:
- Ci rivedremo in un momento più opportuno.
Se ne uscirono con la faccia e gli occhi rossi di sdegno. Questo fatto fu pubblicato da alcuni giornali, e fu riferito in lungo e in largo dall'Armonia.
21. CONGIURATI BALORDI AL « CUOR D'ORO »
Vino e veleno
Sembrava ci fosse una congiura segreta contro di me, ordita dai protestanti o dalla massoneria. Racconterò in breve altri fatti.
Una sera, mentre ero in mezzo ai ragazzi a fare scuola, due uomini vennero a chiamarmi in fretta: all'osteria del Cuor d'Oro c'era un moribondo. Ci andai subito, ma volli essere accompagnato da alcuni dei giovani più grandi.
- Non occorre che disturbi i suoi allievi - mi dissero. - La condurremo dal malato e poi la riaccompagneremo a casa. La persona malata probabilmente non gradirà la presenza di estranei.
- Non preoccupatevi - risposi. - Questi giovani faranno una breve passeggiata e si fermeranno ai piedi della scala mentre io confesserò il malato.
Giunti però alla casa del Cuor d'Oro mi dissero:
- Entri un momento. Si riposi un istante. Intanto andiamo ad avvertire il malato del suo arrivo.
Mi condussero in una stanza a pian terreno, dove parecchi buontemponi, dopo aver fatto cena, stavano mangiando castagne. Mi accolsero con gesti e parole di grande ammirazione. Vollero che mi servissi e mangiassi con loro qualche castagna. Rifiutai, dicendo che avevo appena finito la mia cena.
- Almeno berrà un bicchiere del nostro vino - protestarono. - Le piacerà, viene dalle parti di Asti.
- Non me la sento. Non bevo mai fuori pasto. Mi farebbe male.
-Un sorso non fa male a nessuno.
« Deve bere per amore o per forza »
Versarono vino per tutti, ma giunti a me, uno si recò a prendere una bottiglia diversa. Era evidente il loro disegno malvagio. Tuttavia presi il bicchiere in mano, dissi « Salute », ma invece di bere lo rimisi sulla tavola.
- Non faccia questo! è un dispiacere! - disse uno.
- è un insulto - aggiunse un altro. - Non può rifiutare. - Ma io non ho voglia di bere.
- Bisogna che beva a qualunque costo!
Ciò detto, uno mi bloccò la spalla sinistra, un altro la spalla destra.
- Non possiamo tollerare questo insulto. Deve bere per amore o per forza.
- Se volete assolutamente che beva, lasciatemi almeno libere le braccia. E siccome io non posso bere, lo darò a uno dei miei giovani, che berrà al mio posto.
Pronunciando queste parole, feci un lungo passo verso la porta, la spalancai e invitai i miei giovanotti ad entrare.
- Non occorre. Andiamo subito ad avvisare il malato. Ma dica a questi giovanotti di tornare in fondo alla scala.
Non avrei certo dato a nessuno dei miei ragazzi quel bicchiere, ma feci tutta quella commedia per evitare che mi facessero bere quel vino avvelenato.
Mi condussero poi in una camera al secondo piano, dove vidi coricato nel letto non un malato, ma quello stesso farabutto che mi era venuto a chiamare. Dopo aver ascoltato alcune mie domande, scoppiò a ridere sgangheratamente, e disse:
- Mi confesserò poi domani mattina. Ce ne tornammo a casa.
Una persona amica. fece delle indagini intorno a quella gente e alle loro intenzioni, e mi riferì che un tale aveva loro pagato una buona cena a patto che mi avessero costretto a bere del vino che aveva preparato per me.
22. « VOLEVANO FARMI LA FESTA »
160 lire per uccidere don Bosco
Sembrano favole gli attentati che racconto, ma purtroppo sono tristi verità, ed ebbero moltissimi testimoni. Eccone un altro più strano ancora.
Una sera di agosto, alle sei pomeridiane, ero presso il cancello dell'Oratorio circondato dai miei giovani, quando si alza un grido:
- Un assassino! Un assassino!
Un tale che io conosco benissimo, e al quale ho fatto del bene, corre verso di me furioso, in maniche di camicia, brandendo un lungo coltello. Grida:
- Voglio don Bosco! Voglio don Bosco!
Tutti si misero a fuggire. Nel parapiglia, quel tale mi confuse con un chierico che portava la veste nera come me, e si mise ad inseguirlo. Quando si accorse dello sbaglio, si girò infuriato a cercarmi. In quell'attimo avevo avuto il tempo di rifugiarmi su per le scale di casa Pinardi. Avevo appena fatto scattare la serratura del piccolo cancello che faceva da porta, quando giunse quel tale. Si mise a battere, a gridare, a mordere le sbarre come un pazzo. Ma era tutto inutile: io ero in salvo. I miei giovani volevano gettarsi insieme contro quel miserabile e farlo a pezzi, ma io gridai che lo lasciassero stare, e mi obbedirono. Mandai alcuni ad avvertire la pubblica sicurezza, la questura, i carabinieri. Non arrivò nessuno. Solo alle 21,30, finalmente, arrivarono due poliziotti che catturarono quel farabutto e lo portarono in questura.
Il giorno dopo, il questore mandò un poliziotto a domandarmi se perdonavo quello sciagurato. Risposi che perdonavo come sempre, ma che, in nome della legge, chiedevo alle autorità di tutelare meglio le persone e le abitazioni dei cittadini. Sembra incredibile, eppure il giorno dopo, alla stessa ora, quel delinquente mi aspettava di nuovo, a poca distanza dalla mia casa.
Un mio amico, vedendo che le autorità non volevano difendermi, cercò di parlare a quel disgraziato. Rispose:
- Io sono pagato. Datemi ciò che mi danno quelli che mi mandano, e lascerò in pace don Bosco.
Gli furono pagate 80 lire di fitto scaduto e altre 80 di fitto anticipato, e quella triste commedia finì. Ma ne cominciò subito un'altra, che sto per raccontare.
Nel buio una grandine di bastonate
Circa un mese dopo, una domenica sera, fui chiamato urgentemente in casa Sardi, vicino al Rifugio. C’era da confessare una malata in fin di vita. Messo in allarme dai fatti precedenti, invitai ad accompagnarmi parecchi giovani tra i più grandi.
Chi era venuto a chiamarmi diceva:
- Non occorre, l’accompagneremo noi. Lasci che i giovani vadano a giocare.
Ma queste parole mi fecero sospettare di più. Lasciai alcuni giovani ai piedi della scala. Giuseppe Buzzetti e Giacinto Arnaud, invece, mi accompagnarono al primo piano, sul pianerottolo della scala, a poca distanza dall’uscio dell’ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante, come se stesse per mandare l’ultimo respiro. Invitai le quattro persone presenti ad allontanarsi per iniziare la confessione.
- Prima di confessarmi – strillò la vecchia – voglio che quel bestione mi domandi scusa delle calunnie che ha detto su di me.
- No! – rispose uno dei presenti.
- Silenzio! – gridò un altro alzandosi in piedi. Anche gli altri si alzarono, e cominciò una litigata furibonda.
- Sì, no, ti strozzo, ti scanno – e mescolate a quelle parole orrende imprecazioni e bestemmie. Nel bel mezzo di quella colata di parole diaboliche, si spensero i lumi. Mentre il fracasso continuava, una pioggia di bastonate si abbattè nella mia direzione. Capii al volo il tranello: volevano farmi la festa. Non avevo il tempo né di pensare né di riflettere. Afferrai una sedia, me la misi in testa per parare le bastonate e mi precipitai verso la porta. I colpi di bastone grandinavano sulla sedia.
Uscito da quella casa del diavolo, mi lanciai tra le braccia di miei giovani, che avvertiti dal rumore e dagli schiamazzi stavano tentando di forzare la porta. Non riportai gravi ferite. Solo una bastonata mi colpì il pollice della mano sinistra che stringeva lo schienale della sedia, e mi portò via l'unghia con mezza falange. Conservo ancora la cicatrice. Il male peggiore fu lo spavento.
Non ho mai potuto sapere il vero motivo di quegli attentati. Ma penso che l'intenzione era di farmi smettere - come essi dicevano - di calunniare i protestanti.
Circa un mese dopo, una domenica sera, fui chiamato urgentemente in casa Sardi, vicino al Rifugio. C'era da confessare una malata in fin di vita. Messo in allarme dai fatti prece-denti, invitai ad accompagnarmi parecchi giovani tra i più grandi. Chi era venuto a chiamarmi diceva:
- Non occorre, l'accompagneremo noi. Lasci che i giovani vadano a giocare.
Ma queste parole mi fecero sospettare ancora di più. Lasciai alcuni giovani ai piedi della scala. Giuseppe Buzzetti e Giacinto Arnaud, invece, mi accompagnarono al primo piano, sul pianerottolo della scala, a poca distanza dall'uscio dell'ammalata. Entrai, e vidi una donna ansante, come se stesse per mandare l'ultimo respiro. Invitai le quattro persone presenti ad allontanarsi per iniziare la confessione.
- Prima di confessarmi - strillò la vecchia - voglio che quel bestione mi domandi scusa delle calunnie che ha detto su di me.
- No! - rispose uno dei presenti.
- Silenzio! - gridò un altro alzandosi in piedi. Anche gli altri si alzarono, e cominciò una litigata furibonda.
- Sì, no, ti strozzo, ti scanno - e mescolate a quelle parole orrende imprecazioni e bestemmie. Nel bel mezzo di quella colata di parole diaboliche, si spensero i lumi. Mentre il fracasso continuava, una pioggia di bastonate si abbatté nella mia direzione. Capii al volo il tranello: volevano farmi la festa. Non avevo il tempo né di pensare né di riflettere. Afferrai una sedia, me la misi in testa per parare le bastonate e mi precipitai verso la porta. I colpi di bastone grandinavano sulla sedia.
Uscito da quella casa del diavolo, mi lanciai tra le braccia di miei giovani, che avvertiti dal rumore e dagli schiamazzi stavano tentando di forzare la porta. Non riportai gravi ferite. Solo una bastonata mi colpì il pollice della mano sinistra che stringeva della scheda, e mi portò via l’unghia con mezza falange. Conservo ancora la cicatrice. Il male peggiore fu lo spavento. Non ho mai potuto sapere il vero motivo di quegli attentati. Ma penso che l’intenzione era di farmi smettere – come essi dicevano – di calunniare i protestanti. 93
23. IL GRIGIO
« Quando mi vedo accanto un grosso cane »
Il cane Grigio è stato oggetto di molte discussioni e di varie supposizioni. Non pochi di voi l'hanno visto e anche accarezzato. Ora io lascio da parte le strane storie che si raccontano su questo cane, ed espongo ciò che è la pura verità.
I frequenti brutti scherzi da cui ero preso di mira mi consigliavano a non camminare da solo nell'andare e venire dalla città di Torino. A quel tempo l'ospedale psichiatrico era l'ultimo edificio della città. Di lì, scendendo verso l'Oratorio, c'era un lungo tratto di campagna ingombra di cespugli e di acacie. Una sera oscura, piuttosto sul tardi, venivo a casa solo soletto, non senza un po' di paura, quando mi vidi accanto un grosso cane che a prima vista mi spaventò. Ma non ringhiò contro di me, anzi mi fece le feste come se fossi il suo padrone. Abbiamo fatto amicizia e mi accompagnò fino all'Oratorio. Ciò che avvenne quella sera si ripeté molte altre volte. Posso dire che il Grigio mi ha aiutato parecchie volte in maniera straordinaria. Esporrò alcuni fatti.
Sul finire del novembe 1854, una sera nebbiosa e piovosa, venivo solo dalla città. Per non percorrere un lungo tratto disabitato, discendevo per la via che dal santuario della Consolata porta all'Opera del Cottolengo. A un tratto mi accorsi che due uomini camminavano a poca distanza da me. Acceleravano o rallentavano il passo ogni volta che io acceleravo o rallentavo. Tentai di portarmi dalla parte opposta per evitare di incontrarli, ma essi lestamente si riportarono davanti a me. Provai a tornare indietro, ma era troppo tardi: con due balzi improvvisi, in silenzio, mi gettarono un mantello sulla testa. Mi sforzai di non lasciarmi avviluppare nel mantello, ma non ci riuscii. Uno tentò di turarmi la bocca con un fazzoletto. Volevo gridare, ma non ci riuscivo più. In quel momento apparve il Grigio. Urlando si lanciò con le zampe contro la faccia del primo, poi azzannò l'altro. Ora dovevano pensare al cane prima che a me.
- Chiami questo cane! - gridarono tremanti. - Lo chiamo se mi lasciate andare in pace. - Lo chiami subito! - implorarono.
Il Grigio continuava a urlare come un lupo arrabbiato. Andarono via lesti, e il Grigio, standomi a fianco, mi accompagnò fino all'Opera del Cottolengo. Mi ripresi dallo spavento, e gradii molto una bevanda che i religiosi del Cottolengo mi offrirono con carità. Quindi, ben scortato, tornai a casa.
« Non fategli del male. È il cane di don Bosco »
Tutte le sere in cui non ero accompagnato, entrato tra gli alberi, vedevo spuntare il Grigio da qualche punto della strada. I giovani dell'Oratorio lo videro molte volte. Una sera entrò nel cortile e fu il protagonista di una lunga scena. Qualcuno lo voleva allontanare con un bastone, altri con dei sassi.
Giuseppe Buzzetti intervenne:
- Non fategli del male. È il cane di don Bosco.
Allora si misero ad accarezzarlo e a fargli festa. Lo accompagnarono da me. Ero in refettorio e facevo cena con alcuni preti e con mia madre. Lo guardarono tutti sbigottiti.
- Non temete, dissi, è il mio Grigio. Lasciatelo venire. Difatti, compiendo un largo giro intorno alla tavola, mi venne vicino tutto festoso. Gli feci una carezza e gli offrii minestra, pane e companatico. Rifiutò tutto.
- Allora cosa vuoi? - mormorai. Egli mosse le orecchie e agitò la coda. -- Se non vuoi mangiare, va' in pace - dissi. Egli, sempre festoso, appoggiò la testa sulla mia tovaglia co-me volesse parlare e augurarmi buona sera. Poi si lasciò accompagnare dai ragazzi, allegri e meravigliati, fuori della porta. Mi ricordo che quella sera ero venuto a casa tardi, e un amico mi aveva portato nella sua carrozza. 94
Il Grigio non c'era più
L'ultima volta che vidi il Grigio fu nel 1866, mentre mi recavo da Morialdo a Moncucco a casa di Luigi Moglia, mio amico. Il parroco di Buttigliera mi aveva voluto accompagnare per un tratto di strada, e così la notte mi sorprese a metà cammino. - Se ci fosse qui il mio Grigio - dissi tra me - sarei molto più tranquillo.
Subito dopo mi arrampicai su per un prato ripido, per godermi l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il Grigio mi venne incontro con gran festa, e mi accompagnò per il resto della strada, cioè per tre chilometri.
Giunto alla casa dei Moglia, dov'ero atteso, videro il mio cane e mi pregarono di passare dietro la casa, perché il Grigio non facesse baruffa con i due cani che erano nel cortile.
- Si sbranerebbero a vicenda - mi disse Luigi Moglia. Parlai a lungo con tutta la famiglia, poi andammo a cena, e il mio Grigio fu lasciato in un angolo. Quando finimmo di cenare, Luigi disse:
- Bisogna portare da cena anche al Grigio.
Preso un poco di cibo, lo portammo al cane. Lo cercammo in ogni angolo della casa, ma non c'era più. Si meravigliarono tutti, perché le porte e le finestre erano chiuse, e i cani nel cortile non avevano dato alcun segno della sua uscita. Cercammo anche nelle stanze dei piani superiori, ma nessuno lo trovò. È questa l'ultima notizia che ebbi del Grigio, il cane che è stato argomento di tante ricerche e discussioni. Non potei mai conoscere il suo padrone. So soltanto che quell'animale, in tanti pericoli, fu per me una vera provvidenza.
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