Il Rapporto “Mercati di guerra” è la quarta tappa di un percorso di ricerca sui conflitti dimenticati, avviato da nel 2001 da Caritas Italiana insieme a Famiglia Cristiana e Il Regno. Dalla ricerca emerge il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata, nell'ambito dello scacchiere internazionale e all'interno dei singoli stati.
Mercoledì 14 novembre 2012 a Roma è stato presentato "Mercati di guerra", il IV Rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e conflitti dimenticati, realizzato da Caritas Italiana, Famiglia Cristiana e Il Regno ed edito da Il Mulino.
Nella Ricerca si evidenzia il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata, nell’ambito dello scacchiere internazionale e all’interno dei singoli stati.
Mercati di guerra: Sintesi del Rapporto
Il Rapporto “Mercati di guerra” è la quarta tappa di un percorso di ricerca sui conflitti dimenticati, avviato da nel 2001 da Caritas Italiana insieme a Famiglia Cristiana e Il Regno. Dalla ricerca emerge il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata, nell’ambito dello scacchiere internazionale e all’interno dei singoli stati. Viene anche fornita una mappatura aggiornata dei conflitti nel mondo, concentrandosi in particolare su alcuni casi-studio: Libia, Somalia, Afghanistan, Filippine, Colombia. Il terrorismo internazionale, lo scontro di civiltà, i disastri ambientali, il tema delle risorse energetiche, le molte situazioni di conflitto armato si configurano come «emergenze umanitarie complesse». Ma cosa sappiamo davvero di queste «guerre lontane»? Cosa pensano e come sono informati gli italiani sulle guerre nel mondo? Quanto spazio riservano i media a questi temi? E soprattutto, cosa può fare ognuno di noi, e come? Delineando in queste pagine una serie di prospettive di lavoro e di impegno in ambito ecclesiale e civile, la Caritas, fedele al suo ruolo pedagogico, insieme ai due importanti media cattolici, intende offrire strumenti di osservazione, conoscenza e sensibilizzazione sulle grandi emergenze mondiali, ma anche piste di impegno personale e comunitario nella ricerca di possibili risposte ai disagi e ai conflitti che sono da queste generati.
Le guerre nel mondo
Nel 2011 sono state rilevate dal Conflict Barometer (Università di Heidelberg), 20 guerre, in riferimento a 14 paesi. Si tratta in realtà della punta dell’iceberg, in quanto, nello stesso anno, sono 388 in totale tutte le situazioni di guerra e conflitto armato registrate. Le situazioni più letali sono pari a 38 (war e limited war). Altri 148 conflitti sono stati classificati nei termini di “violent crisis”. I rimanenti 202 conflitti si sono sviluppati senza mezzi violenti (87 “crisi non violente” e 115 “dispute”). Il numero di guerre registrate nel 2011 non coincide con il numero di paesi in guerra, dato che in uno stesso paese possono essere presenti più fronti di guerra. Il caso più eclatante è quello del Sudan, dove nel corso del 2011 sono stati registrati 4 distinti fronti di guerra. Rispetto a situazioni “vecchie” di conflitto armato, degenerate in guerre e vere e proprie, si registra la presenza di 3 nuovi conflitti avviati nel corso del 2011, inquadrabili all’interno della “primavera araba”, e localizzati nella regione maghrebina e medio-orientale: si tratta della guerra nello Yemen, in Libia e in Siria. Dal 2010 al 2011 il numero totale di conflitti è passato da 370 a 388: 18 in più. Particolarmente significativo l’aumento nel numero di guerre: dai 6 casi del 2010 si è passati ai 20 casi del 2011. Un confronto storico con i dati in possesso dell’Heidelberg Institute, raccolti a partire dal 1945, dimostra che il 2011 è l’anno con il numero più elevato di guerre mai registrato dalla fine del secondo conflitto mondiale. Sei guerre già registrate nel 2010 hanno mantenuto nel 2011 il medesimo livello di gravità: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Sudan, Somalia e Messico. Altre 14 situazioni di conflitto sono esplose ex novo o degenerate in guerre aperte.
Crisi economica e finanziaria
L’assetto economico è sempre stato decisivo nel contribuire a determinare il grado di conflittualità delle relazioni internazionali, sia per via dei conflitti che riguardano l’accaparramento di risorse strategiche (petrolio, acqua, terra) sia per le acute tensioni che si possono generare nelle relazioni tra creditori e debitori, all’interno del mercato internazionale. Centrale appare a riguardo il tema delle risorse naturali ed energetiche. Negli ultimi anni, la disponibilità di risorse è divenuto diventa il fattore scatenante di nuovi conflitti internazionali ed interni. I primi due beni primari ad essere colpiti da questi fattori di crisi sono acqua e cibo. Sono 145 le nazioni nel mondo che devono condividere le proprie risorse idriche con altri paesi e utilizzano bacini idrici internazionali (263 in tutto il mondo). Negli ultimi cinquant’anni, la condivisione forzata dei bacini ha prodotto 37 conflitti violenti. Oltre cinquanta paesi, nei prossimi anni potrebbero entrare in dispute violente sulla gestione di laghi, fiumi, dighe e acque sotterranee. Negli ultimi 5-6 anni, il prezzo reale del cibo è sostanzialmente raddoppiato. L’indice del prezzo mondiale del cibo, pari a 107 nel 1990, è aumentato progressivamente, fino a raggiungere nel febbraio 2011 la vetta di 209.3. A febbraio 2012, l’indice era ancora molto alto (195.2). Anche le materie prime energetiche hanno conosciuto vistosi incrementi. La crescita del prezzo reale del petrolio, cominciata attorno al 2003, ha toccato livelli che sono assai superiori a quelli - allora già ritenuti eccezionali - raggiunti in seguito agli shock petroliferi della seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Oggi il prezzo reale del petrolio è quasi il doppio rispetto al 1982, all’apice del secondo shock petrolifero, e supera di più del 150 % il livello di inizio millennio. Secondo il Rapporto, la principale causa degli aumenti di prezzo risiede nella “finanziarizzazione del mercato delle commodities”, ossia nel ruolo giocato dagli speculatori e dai mercati finanziari mondiali nel plasmare le politiche fiscali delle potenze mondiali e, perciò, il panorama macroeconomico dentro al quale ogni economia è costretta a muoversi. Le conseguenze sui paesi a reddito basso e medio-basso delle evoluzioni dei prezzi sono state ovviamente negative. In particolare, la crisi alimentare esplosa nel 2008 e l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari in tutto il mondo, hanno contribuito all’esplodere di vari conflitti, quali le primavere arabe e la guerra civile in Costa d’Avorio, e hanno provocato scontri e rivolte ad Haiti, in Camerun, Mauritania, Mozambico, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Bolivia, Indonesia, Giordania, Cambogia, Cina, Vietnam, India e Pakistan.
Gli stati fragili
La guerra non dipende solo da questioni economiche e finanziarie, ma è molto legata alle condizioni politiche dei paesi di riferimento. Le democrazie nel mondo sono 77, con caratteristiche molto variabili e diversi gradi di rispetto dei diritti umani. Sono invece 34 i paesi che vivono sotto regimi dichiaratamente autocratici o oligarchici. A cavallo tra i diversi sistemi politici ci sono 43 paesi definiti fragili, le cui strutture istituzionali non possiedono la capacità e/o la volontà politica di provvedere alla riduzione della povertà, allo sviluppo e alla tutela della sicurezza e dei diritti umani delle popolazioni. In tali paesi vivono complessivamente circa 1,2 miliardi di persone. Gli Stati fragili costituiscono l’area più vulnerabile del pianeta. Circa metà di questi paesi sono in condizioni di conflitto interno aperto o latente. Gli Stati fragili, negli ultimi dieci anni, hanno ricevuto circa il 30% degli aiuti internazionali allo sviluppo, e circa il 90% dell’aiuto umanitario, per un totale di circa 40 miliardi di dollari l’anno. Questo impegno finanziario però non si è mai tradotto in un aumento della stabilità politica e in un miglioramento delle condizioni di vita.
Guerra e impatto sulle persone
Un aspetto importante da non trascurare, caratteristico delle nuove forme di conflitto armato, risiede nel crescente coinvolgimento dei civili. La violenza prolungata in tante aree dimenticate del mondo ha portato il bilancio delle vittime civili a livelli insopportabili: le crisi umanitarie colpiscono oggi oltre sessanta paesi in tutto il mondo; il numero dei disastri naturali è quasi raddoppiato in vent’anni e la malnutrizione ha ripreso a crescere in modo preoccupante, superando il miliardo di vittime. Più di un miliardo di bambini e adolescenti (dati UNICEF) vive in scenari di guerra; tra questi, circa 300 milioni hanno meno di 5 anni d’età (2009). Nella decade precedente, le guerre avevano ucciso circa 2 milioni di bambini e ne avevano reso disabili altri 6 milioni. Circa 18 milioni di bambini sono costretti ogni anno a spostarsi a causa dei conflitti armati; due terzi di questi sono sfollati all’interno del proprio paese, mentre un terzo sono rifugiati o richiedenti asilo all’estero (UNHCR, 2010); la maggior parte di questi ultimi resta nei paesi limitrofi, spesso vivendo in campi in attesa di poter rientrare in patria, mentre solo circa mezzo milione all’anno chiede asilo nei paesi ad alto reddito (UNDP, 2009). Circa un quarto della popolazione adulta che ha vissuto l’esperienza della guerra soffre di psicopatologie lievi o moderate; il 3-4% soffre di un disturbo psicopatologico grave. Tra il 13% ed il 25% dei minori coinvolti dalle guerre soffre di stress post-traumatico (dati OMS).
Spesa militare e mercato delle armi
Secondo i dati del SIPRI di Stoccolma, la spesa militare aggregata a livello globale ha subito un incremento in termini reali di circa il 26% dal 2007 al 2011, raggiungendo i 1.630 miliardi di dollari, risentendo in modo limitato degli effetti negativi della crisi economico-finanziaria. La spesa militare globale assorbe circa il 2,7% delle risorse mondiali (espresse in termini di Prodotto Interno Lordo). Gli Stati Uniti rappresentano l’attore prevalente nel determinare questo trend, ma si osserva un aumento della spesa militare anche nei paesi “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), soprattutto nella Russia, che ha aumentato la propria spesa militare, e affianca gli Stati Uniti al vertice della classifica sulle esportazioni di armamenti. La spese militari italiane nel 2011 sono state le più basse degli ultimi 10 anni, raggiungendo comunque quasi i 25 milioni di euro (più dell’1,5% del Prodotto Interno Lordo).
Guerre in onda
Per la quarta edizione consecutiva il Rapporto sui conflitti dimenticati ha affidato alla società Canale Tre il compito di effettuare una rilevazione a tappeto sull’intera programmazione radio-televisiva trasmessa dal primo gennaio 2008 al 31 dicembre 2011, in riferimento a cinque conflitti scelti come caso studio: Afghanistan e Libia (definibili nei termini di guerre “note”), Colombia, Filippine e Somalia (considerati invece come “conflitti dimenticati”). Il monitoraggio effettuato si riferisce a tutti i programmi di informazione trasmessi dalle principali emittenti nazionali radio televisive. Il monitoraggio ha riguardato 1461 giorni per ciascun conflitto. Sono stati rilevati in totale 15.815 servizi per la Libia, 12.927 per l’Afghanistan, 2.169 per la Somalia, 1.035 servizi per la Colombia, 738 per le Filippine. Le due guerre note (Libia e Afghanistan) coprono in modo associato l’87,9% di tutti i programmi rilevati nel corso del monitoraggio. Le percentuali di rilevanza non cambiano a seconda del veicolo emittente: le guerre note pesano per l’87,2% nell’ambito della radio e per l’88,2% nella televisione. Il confronto inter-mediatico non produce differenze significative: la graduatoria interna ai tre conflitti dimenticati resta infatti sostanzialmente simile, sia nella radio che nella televisione, con una lieve preferenza della radio verso i conflitti dimenticati (12,8%) rispetto a quanto accade nella televisione (11,8%). L’esame dei dati raccolti nel corso dei 2 anni di monitoraggio dimostra la persistenza di un gap informativo a scapito dei conflitti dimenticati. Tuttavia, l’entità di tale gap non è rimasta stabile: il livello più basso di incidenza dei conflitti dimenticati è stato registrato in coincidenza della seconda rilevazione (2002-2003), allorquando le “guerre dimenticate” fecero registrare un valore di incidenza relativa molto basso, pari al 2,1% del totale delle news trasmesse.
La guerra diffusa: valori e idee degli italiani su guerre e conflitti
Per la quarta volta è stato effettuato con la collaborazione dell’SWG un sondaggio su un campione di popolazione italiana, realizzato appositamente per il Rapporto. Rispetto alle precedenti edizioni del sondaggio aumenta la conoscenza dei conflitti. Solo il 12% degli italiani non è in grado di indicare alcun conflitto armato degli ultimi cinque anni (erano il 20% nel 2008). I meno informati sono gli anziani (14,5%). Prevalgono nel ricordo collettivo degli italiani i teatri di guerra che hanno coinvolto i paesi occidentali: Afghanistan e Iraq (46 e 37%), i nuovi conflitti della Primavera araba (Libia 37%, Siria 10%). Cresce la percentuale di coloro che considerano la guerra un “elemento evitabile” (79%). Resta comunque costante la presenza di una parte degli intervistati (1 su 5) che considera inevitabili le guerre, in quanto legate all’essenza della natura umana. Secondo gli italiani, le cause dei conflitti sono soprattutto gli interessi economico-finanziari (64%), seguiti dai dissidi religiosi (40%) e dalle situazioni politiche (37%). Diminuisce la percezione della dimensione etnica come fattore scatenante le guerre. La paura della recessione e del conflitto sociale alimenta i timori degli italiani: l’82% degli intervistati considera l’Italia un paese a rischio, in cui si potrebbero scatenare lo stesso tipo di proteste e i fenomeni di violenza di massa registrati in alcuni paesi arabi. Il 50% degli italiani apprende dalla televisione le notizie sulle guerre nel mondo. La radio è indicata come principale fonte informativa sui conflitti solamente dal 29% degli italiani, preceduta dai quotidiani (67%), e addirittura dalla stampa periodica (33%). Rispetto al primo sondaggio (2001), è fortissimo l’aumento di Internet, principale fonte informativa per il 15% degli italiani. Il 67% degli italiani ritiene che la gestione delle crisi internazionali non possa prescindere da una politica condivisa a livello internazionale e il 71% degli italiani è a favore di un rafforzamento dell’Onu (80% nel 2004). Il 13% degli italiani è a favore dell’intervento militare nei contesti di crisi, mentre il 10% propende verso un approccio umanitario, finalizzato alla fornitura di aiuti concreti alle vittime ed ai rifugiati. Aumentano gli sfiduciati: il 7% degli italiani ritiene giusto non intervenire e lasciare che le crisi si risolvano localmente risparmiando soldi e tempo (2% nel 2001).
Che fare: attenzioni e opere, della Chiesa locale e universale
Uno degli ambiti di impegno della Chiesa universale si riferisce al possibile ruolo di denuncia e richiamo delle istituzioni e dei vari attori protagonisti del contesto globale: combattere le speculazioni, costruire un mondo più giusto, su valori etici rinnovati, appare la strada maestra per dare una risposta alle migliaia di persone coinvolte dalle guerre e dai conflitti nel mondo. Nello specifico del livello macroeconomico, a sua volta strettamente correlato alle decisioni dei governi e della comunità internazionale, appare particolarmente urgente la necessità di una regolamentazione dei mercati finanziari e della fiscalità, il rispetto della legalità e dell’eticità negli scambi commerciali, la regolamentazione su base etica dei rapporti debitori tra stati, la sostenibilità ambientale e sociale. Ma l’impegno della Chiesa riguarda anche il livello di responsabilità personale dei credenti, che apre all’orizzonte nuove sfide e interessanti prospettive di impegno, soprattutto sul piano informativo ed educativo. A tale riguardo, uno degli aspetti che emerge con maggiore forza dall’analisi realizzata risiede nel forte ruolo di informazione democratica e responsabilizzante che può essere svolto dai media. Tale ruolo appare in evidente controtendenza rispetto a quanto è possibile cogliere nella storia recente, chiaramente contrassegnata da tanti casi di mala-informazione, veicolata e costruita ad hoc, a fini propagandistici e di sostanziale supporto alla guerra. Dal Rapporto emerge inoltre una riflessione di tono generale, riguardante il ruolo che può svolgere la comunicazione veicolata dalla Chiesa, nelle sue diverse ramificazioni territoriali e organizzative, nella costruzione di una nuova mentalità e consapevolezza culturale, non circoscrivibile solamente al contesto dei conflitti dimenticati
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