Mi capita spesso di fermarmi a guardare il cielo alla ricerca della luna o delle stelle quando, dopo il tramonto, iniziano a fare capolino nel cielo che diventa, da arancione, blu, poi nero. Troppe volte, però, ne rimango delusa: tra le tante luci del mondo, sembra non esserci più spazio per quelle che ci guardano dall’alto.
Mi capita spesso di fermarmi a guardare il cielo alla ricerca della luna o delle stelle quando, dopo il tramonto, iniziano a fare capolino nel cielo che diventa, da arancione, blu, poi nero. Troppe volte, però, ne rimango delusa: tra le tante luci del mondo, sembra non esserci più spazio per quelle che ci guardano dall’alto. Ed è per questo che sempre più ci avvolge una nostalgia che non sappiamo spiegare a parole, una mancanza di pienezza nelle notti grigie di nuvole e neon, lampioni, fari. Priva le nostre giornate di stupore. Come se fossimo tutti, chi più chi meno, impermeabili alla bellezza e alla meraviglia; basterebbe un fiore per rompere il velo di indifferenza che ci copre gli occhi. Ci riconosceremo – ci conosceremo nuovamente –come uomini e donne capaci di vedere, capaci di ringraziare per ogni piccola cosa bella che esiste nel mondo. Che sì, può essere anche quella singola stella nel cielo luminoso di New York.
Erano gli inizi di un nuovo secolo, il primo dopo la nascita di Cristo, quando fu ultimata una delle opere letterarie a mio avviso più suggestive di sempre. All’ 8 d.C. risale la versione definitiva delle Metamorfosi, opera in versi scritta da Publio Ovidio Nasone. La sua è una straordinaria raccolta di mitologia greca e romana, dalle origini del mondo – in Caos che imperterrito scombussola ogni precario equilibrio – alla glorificazione di Augusto, in una narrazione intrecciata, una scriptio continua in cui un racconto ne ingloba un altro, a cui se ne aggancia un terzo, un quarto, per ritornare alla storia inziale, e così via. È una danza senza interruzioni, una filastrocca senza fine, senza protagonisti o punti di sospensione. Pare di venire sollevati dal vento delle parole per essere posati a terra solo dopo vivam, “vivrò”, l’ultima del poema. E ancora qui, sospinti da questo futuro alla prima persona singolare, che coinvolge ognuno, si continua a volare nella vita, adesso, oltre le pagine intense e leggere. Ma, a ben guardare, infiniti sono i punti di contatto tra i miti e la realtà. Basti solo pensare al fatto che, come ogni storia intrecciata nei secoli da migliaia di voci e solo alla fine cristallizzata in forma scritta – un’ enorme coperta lavorata a maglia da generazioni di nonne per poter scaldare tutti i bambini nel mondo – , ogni mito porta con sé un filo di verità, o almeno, una chiave di lettura, una spiegazione di fronte alla policromia del reale. Uno di questi mi ha particolarmente colpito, non lo conoscevo.
Sono stata qualche giorno in montagna per capodanno con un bel gruppo di amici. Stavamo in una casa immersa nel nulla e nella neve. Era speciale, in particolare di notte, quando gli sciatori tornavano a casa, il sole spengeva la sua luce ed oltre a noi non c’era più nessuno. Durante una di quelle notti, sono uscita con una mia amica, in ciabatte e giacca da neve. Ad aspettarci, stelle. A centinaia, a migliaia, ed ogni minuto che passava, sembravano moltiplicarsi. Veniva da pensare a quante, quante di più i nostri antichi ne vedessero ogni notte dalle loro case, illuminate da tremule fiaccole. Ed ecco perché, abituati a guardare verso l’alto – gli uomini non hanno il muso, ma il volto; appunto per questo possiamo tenere il nostro sguardo ri-volto verso l’universo - pieni di domande sogni e fantasia, hanno dato un nome ai disegni tra le stelle e storie alle costellazioni. Due di queste le conosciamo di sicuro tutti: il Grande e il Piccolo carro, chiamate anche Orsa minore e Orsa maggiore. Quest’ultima – racconta Ovidio – un tempo era una vergine, Callisto, ninfa cacciatrice. Giove, come al suo solito, marito infedele di Giunone, infiammato dalla sua bellezza, la coglie alla sprovvista, la violenta, e la ragazza, confusa, impaurita, si ritrova incinta. Nove mesi dopo, dà alla luce Àrcade. Alla vista del frutto del tradimento subìto, Giunone escogita una punizione per la ninfa: prendendola per i capelli, mentre quella invoca pietà, la tramuta in un’orsa. Avviene la metamorfosi, il cambiamento di forma ( morphè ) della giovane. Passano ancora molti anni; Callisto, orsa di aspetto, ma nel cuore e nella mente ancora donna, vaga per i boschi quando si imbatte nell’ormai quindicenne Àrcade che, come la madre, è diventato un abile cacciatore. Àrcade sta per colpirla, quando interviene Giove che “sollevatili in aria con un vento veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine”. La ninfa e il figlio vengono trasformati in astri, collocati tra le stelle – in greco dicevano katasterismòs. Giunone, però, arrabbiata col marito, perché ora “un’altra sta in cielo al posto suo”, scende dagli dei del mare, Teti e Oceano, affinché impediscano “all’Orsa di scendere nei loro gorghi azzurri ”. Ed è per questo che in cielo sono ricamate vicine due simili costellazioni, una madre e una figlia, legate alla volta celeste e lì sempre visibili perché proprio sulla coda dell’orsa più piccola si trova l’immobile stella polare, attorno alla quale tutto ruota.
Distesa sulla neve fredda, immersa nel bianco, guardavo l’immenso nero che cresceva sopra di me: le orse, la cintura di Orione, la via che, scrive sempre Ovidio, “si vede quando è sereno; lattea si chiama, e spicca proprio per il suo candore”, Sirio e tutte le stelle di cui non so dire il nome. “Tra a questa immensità, s’annega il pensier mio”, e nessuna parola riusciva a dire davvero quello che gli occhi vedevano, rivolti verso l’infinito cosmo. Mi sentivo così piccola, schiacciata a terra con tutto il corpo dalla forza di gravità. Ma da una forza ancora maggiore mi sentivo sollevata verso l’alto, a viaggiare tra le stelle, i pianeti e le galassie. Ci è stato regalato un mondo pieno di cose così meravigliose che non guardarle almeno una volta nella vita vorrebbe dire buttare via la nostra esistenza sulla terra. Ed è nei cieli senza luna, nelle notti prive di stelle che si capisce nel profondo di quale nostalgia è pieno il nostro cuore. Desiderio, si chiama, ed è proprio la mancanza (de) delle sidera, “stelle”, che ci spinge a ricercarle, in cielo o in terra. O, secondo un’altra plausibile etimologia, desiderare è fissare attentamente ( de come particella intensiva ) le stelle, per giocare con le storie in esse disegnate o semplicemente per abbandonarsi alla meraviglia che ci abbraccia.
“Mentre esiste un infinito all’infuori di noi, non c’è anche un infinito dentro di noi?”, si chiedeva Victor Hugo nel suo bellissimo romanzo “I miserabili” ( ne consiglio caldamente la lettura). Tutti, pieni di cieli vuoti e mancanti di stelle, desiderosi, ricerchiamo un senso da dare alla nostra vita finita, assetata dell’infinito che ci è stato promesso quando siamo stati creati con un volto per guardare in alto e un’anima per guardare l’infinità che portiamo in noi. E non è un caso che i sogni si facciano di notte, quando brillano astri nel firmamento e ogni cuore trabocca di desideri.
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