Ispirandosi al suo matrimonio che dura da ben 48 anni e a quello dei suoi genitori, il grande regista Pupi Avati ha scritto, prodotto e diretto la fiction Un matrimonio, che dovrebbe essere trasmessa a inizio anno su Raiuno. La televisione permette di parlare alla gente vera, che merita qualità.
Il salotto della casa romana di Pupi Avati è un luogo caldo, accogliente, dove si respira la storia nei numerosi quadri del settecento e bronzetti risorgimentali, fra i quali campeggia un’unica foto in cornice d’argento: una giovane e bella ragazza bruna all’altare col suo sposo. «Ho voluto ricostruire la casa della mia infanzia a Bologna – ci accoglie sorridente il maestro Avati –. Quella lì nella foto è mia figlia Maria Antonia. Ho anche due maschi, sposati pure loro, più un bel po’ di nipotini. Il mio matrimonio è anche tutto questo». Ed è proprio ispirandosi al suo matrimonio che dura da ben 48 anni con la moglie Nicola e a quello dei suoi genitori che il grande regista ha scritto, prodotto e diretto la fiction Un matrimonio, coprodotta da Rai Fiction che dovrebbe essere trasmessa a inizio anno su Raiuno. Il regista l’ha consegnata proprio ieri alla Rai, ed è emozionato come se avesse avuto un altro nipotino. «La gestazione è stata lunga e complessa, ma finalmente...».
Maestro Avati, una gestazione lunga per un prodotto di qualità fuori dal comune e con un tema che oggi pare "rivoluzionario". Lei, infatti, racconta di un matrimonio "normale", mentre in tv si vedono ben altri modelli.
Dopo 48 anni insieme a mia moglie penso di avere l’esperienza necessaria per dire com’è un matrimonio, nel bene e nel male. Prima sarei stato troppo giovane. Invece molti di quelli che scrivono e producono fiction hanno, purtroppo, delle famiglie a pezzi, divorzi, separazioni. E come fanno a raccontare un matrimonio che dura per sempre?
In questi giorni su Raiuno va in onda la fiction «Questo nostro amore» con Neri Marcoré e Anna Valle: anche questa segue le vicende di una coppia nell’Italia che cambia, sposando però la tesi del divorzio.
Ho visto la prima puntata con mia moglie, e non ci siamo ritrovati. Mi spiace per Neri Marcoré, cui voglio bene e che come attore è nato con me, ma quella fiction lì non mi pare plausibile. Nell’Italia degli anni 50 o 60 la situazione per le coppie non sposate sarà stata complicata, ma non mi sembrava così esasperata. Avevo una cugina nelle stesse condizioni, con figli nati fuori dal matrimonio, ma nessuno l’ha mai cacciata di casa.
Come mai ha deciso di raccontare, invece, una storia tanto intima in una fiction, invece che in un film?
Io la parola fiction la abolirei. Quando dicevo a cosa stavo lavorando, tutti storcevano il naso. Io parlo per me di un film lungo che si rivolge a tutti, proponendo valori autentici. Il nostro cinema italiano oggi è finito, le sale di qualità chiudono, i film italiani non li vede nessuno se non una élite. La televisione invece permette di parlare alla gente vera. Che merita, però, più qualità. Per questo faccio un appello ai grandi autori: ricominciate a fare televisione. La fiction è il cavallo di battaglia del servizio pubblico, che ha tutte le competenze: si può fare molto di più.
Cosa vedranno, allora, i telespettatori, in «Un matrimonio»?
I temi fondamentali sono già espressi nella prima puntata: oltre al matrimonio, parlo di adozione e disabilità. La coppia del film, dopo due figli adotterà una bimba paraplegica che si trovava in un orfanotrofio di suore. Sarà lei la voce narrante del film. È la storia vera di un’altra famiglia che conosco: lei oggi è una psichiatra molto affermata a Bologna.
Il matrimonio dei suoi genitori come è stato?
Come nella fiction, mio padre veniva da una famiglia democristiana dell’alta borghesia, mia madre da una famiglia operaia e socialista. Ha funzionato anche perché due mondi così distanti si sono completati a vicenda. Purtroppo, però, dopo 13 anni di matrimonio mio padre morì in un incidente d’auto lasciando orfani me dodicenne con altri due fratelli. Mia madre non si è mai più risposata e si è dedicata solo a noi: ma l’ha fatto con gioia.
Perché, secondo lei, tanti matrimoni oggi vanno in crisi?
Mia madre faceva parte di quella generazione di donne per le quali la vera realizzazione era la famiglia. Quando fuori il lavoro era dura fatica fisica, restare a casa ad allevare i figli era un privilegio. Poi le condizioni sociali dell’uomo e della donna sono cambiate, si sono andate sempre più affermando le giuste rivendicazioni di se stessi. Ma questo ha indebolito le famiglie: il lavoro fuori casa, i sempre meno figli, e di conseguenza meno zii, meno cugini, meno nipoti, hanno reso la famiglia così risicata che alle prime avvisaglie di turbolenza si sfascia.
E lei, invece, come ha resistito alle turbolenze?
Ho preso un impegno davanti all’altare 48 anni fa. Non ci ha mica obbligati nessuno: è stata una scelta consapevole. Specie se si è deciso di costituire un nucleo familiare con dei figli, bisogna mettersi di fronte alle proprie responsabilità. Tu hai promesso di esserci sempre: non hai il diritto di mandare tutto all’aria. Anche perché tutti i figli di separati hanno problemi, e io ne conosco tanti.
Che valore ha, per lei credente, il matrimonio come sacramento?
Per me l’unico vero matrimonio è quello cattolico, quello davanti a Dio. Il matrimonio civile mi pare utile solo a fini burocratici. Davanti a quell’altare eravamo giovani e quel "sempre" aveva un qualcosa di eroico, di inebriante. Poi la vita a due ha avuto tutte le sue difficoltà, ma la fede, per me tutte le volte faticosamente riconquistata, è stata un sigillo di garanzia.
Angela Calvini
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