In quel momento ho pensato che tutto sommato nella vita ho fatto una cosa buona. Spero non rimanga l'unica. Ma intanto non me lo dimentico e cerco di essere all'altezza di quel gesto...
del 05 ottobre 2017
In quel momento ho pensato che tutto sommato nella vita ho fatto una cosa buona. Spero non rimanga l’unica. Ma intanto non me lo dimentico e cerco di essere all’altezza di quel gesto...
L’ombra era così spessa da sollevare 120 chili di panca e 60 chili di bilancieri per le braccia. «Il turno di lavoro era finito. Faccio sorveglianza in una profumeria del centro. Avevo appuntamento con amici juventini. A me piace anche il Real Madrid. Quando sono partito dal Senegal la Spagna è stata la prima tappa del mio viaggio. Ma per una volta avevo deciso che pure io avrei tifato Juve». Ancora non si è capito chi è stato, come è andata davvero. Forse non è neppure così importante conoscere nome e cognome della persone che con uno scherzo imbecille, un petardo, un grido, «c’è una bomba», ha scatenato l’ondata di panico, trasformando migliaia di persone che stavano guardando pacifiche una partita di calcio sotto un cielo sereno di fine primavera in ostaggi di se stessi, della propria ansia, esseri umani trasfigurati che correvano impazziti di terrore, cercavano una via di fuga, salivano uno sull’altro, si trascinavano a terra, urlavano, piangevano, si tagliavano con i cocci delle bottiglie, sanguinavano, calpestavano chi cadeva. Quella notte, la notte di piazza San Carlo, tra i cocci e il sangue che macchiavano il selciato apparve chiaro qual è il tempo che stiamo vivendo, quali sono le nostre paure e in quale abisso ci possono precipitare.
Morì una persona, Erika Pioletti, dopo una lunga agonia senza speranza. I feriti furono oltre mille. E non fu solo questo semplice dato numerico a rendere evidente il fatto che quella fu anche una notte di miracoli, di gesti salvifici, di piccoli e grandi eroismi. «Alla fine i miei amici non li ho trovati. La piazza era già strapiena. Dopo il terzo gol del Real decido di andare a casa. Era giorno di Ramadan, non avevo ancora mangiato. Mi dirigo verso i portici. Sento alcuni botti e penso a un petardo. Vedo tanta gente che comincia a correre. Non capisco. Addirittura prendo in mano il telefonino per filmare la scena come stanno facendo tutti. Ma le facce sono stravolte. Un poliziotto davanti a me chiede aiuto, sta cercando di togliere le transenne sulle quali la gente va a sbattere. Saltano gli uni sugli altri, finiscono per terra. In un secondo cambia tutto. Sento spingere dietro di me, vengo trascinato per metri. Resisto per qualche minuto, poi cado anch’io».
Mouhamed Gueye non ha ancora compiuto vent’anni e crede che per lui sia già finita. L’addio a Louga, la città dove è cresciuto, ai suoi nove fratelli, alla madre. Il viaggio in Spagna con il padre, e poi la scelta di Torino, la fatica dell’integrazione, la costante ricerca di un lavoro. Tutto inutile. «Quand’ero a terra ho cominciato a pregare. L’unico pensiero che ho avuto era che mi sembrava stupido morire così». All’improvviso, da sdraiato, vede un corpo privo di sensi. «Ho trovato la forza di mettermi in ginocchio. Insieme a un altro ragazzo, Isak, ci siamo avvicinati strisciando, per proteggerlo. Ho preso il bambino tra le braccia. Era una foglia d’albero, non aveva peso. Abbiamo cominciato a spingere, a farci largo. Verso via Roma, vicino alla chiesa, l’ho appoggiato a un muro. Altri ragazzi si sono messi intorno, cercavano di svegliarlo. Io pensavo che fosse morto. Una ragazza che doveva essere sua sorella piangeva disperata. Solo allora ho visto che il bimbo respirava. Poi è arrivata l’ambulanza».
Il giorno dopo va al lavoro, come sempre. È un po’ acciaccato, ma con il precariato bisogna fare attenzione. Durante una pausa consulta Facebook. C’è una signora cinese, che cerca un’ombra che ha salvato suo figlio. I giornali si mettono alla ricerca dello sconosciuto che ha salvato Kelvin, sette anni. Mouhamed non ci fa caso, anche perché gli sembra che l’età non corrisponda, il «suo» bambino sembrava più piccolo. Ma quando legge di un ragazzo di colore grosso e molto muscoloso, gli viene un dubbio. Va al Regina Margherita, l’ospedale dei piccoli torinesi. La sorella del bimbo è la prima a vederlo, a riconoscerlo. L’ombra riprende il suo corpo, diventa una persona vera. Ling Quinquang, la madre, comincia a piangere. «In quel momento ho pensato che tutto sommato nella vita ho fatto una cosa buona. Spero non rimanga l’unica. Ma intanto l’ho fatto, non me lo dimentico, e cerco di essere all’altezza di quel mio gesto».
Il capitolo mancante è il più bello. Perché racconta la storia di due diverse forme di integrazione, della nascita di una amicizia fatta di silenzi e gesti concreti. Mouhamed ne parla con il pudore dovuto alle cose preziose. Al polso porta un grosso orologio, un cronografo Citizen. Un regalo della famiglia Quinquang. «Di qualsiasi cosa hai bisogno» gli hanno detto i genitori di Kelvin «noi per te ci saremo sempre». Sono immigrati di prima generazione, gestiscono un piccolo bar in piazza Bengasi, periferia sud di Torino. «Erano molto chiusi, timorosi di tutte le altre etnìe. Adesso sanno che le persone non sono tutte uguali, che non si giudica dal colore dalla pelle. Ma lo hanno detto loro, e io sono fiero di aver contribuito a questa presa di coscienza». Il nostro incontro con Mouhamed avviene a cavallo dell’ora di pranzo. Prima e dopo c’è il lavoro. Anche lui ha avuto una fase in cui non si fidava di nessuno. Era appena arrivato, un appartamento diviso per qualche mese con altri connazionali. Doveva ancora compiere 17 anni. «Sai come sono i torinesi, è gente un po’ chiusa... Io cercavo di lavorare, ma trovavo poco». L’Ufficio stranieri del comune di Torino gli suggerisce Nomis, che poi è l’acronimo di «Nuove opportunità per minori stranieri», il progetto creato e sostenuto dalla Compagnia di San Paolo.
Entra nella casa-comunità di Rivoli, dove resterà per due anni. «Per me è stata la svolta. Avevo un problema. Mi arrabbiavo troppo. Anche se hai ragione quando reagisci male poi passi dalla parte del torto. Me l’hanno detto tante volte, gli educatori e gli psicologi». La rabbia deve trovare sempre una valvola di sfogo. La corazza di muscoli indossata da Mouhamed è frutto del lavoro di body building di anni, e non ci vuole molto a capire che si tratta non solo di una passione, ma di una necessità. Vuole diventare personal trainer, ma per farlo deve ottenere il diploma. Tornerà a scuola, intanto continua a guadagnarsi da vivere come sorvegliante. Il suo nuovo amico Kelvin suona il pianoforte. Lui invece potrebbe sollevarne uno. E spesso ne ridono insieme. Piazza San Carlo ormai è un ricordo lontano. Ma certi legami non si spezzano, non c’è bisogno neppure di troppe parole per mantenerli saldi. Basta una riconoscenza muta e reciproca, la consapevolezza che ognuno ha dato qualcosa all’altro, anche chi è stato salvato. «Kelvin mi ha fatto sentire orgoglioso di me stesso, e non era mai successo prima». Pochi giorni fa Mouhamed è passato dal baretto di piazza Bengasi. Alla signora Quinquang ha raccontato di avere un colloquio di lavoro a Pinerolo, ma di non sapere come andarci. La donna si è tolta il grembiule e ha preso le chiavi della macchina. «Non c’è problema» gli ha detto. «Partiamo subito».
Marco Imarisio
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