Myanmar, perché questa volta il regime teme la contestazione

Nel Myanmar, il moto di protesta guidato dai monaci buddisti contro la giunta militare, al potere da 43 anni, prosegue incessantemente la sua marcia. Il 15 agosto, senza dare alcun preavviso, la giunta guidata del generale Than Shwe stabilisce il raddoppio del prezzo del diesel e la quintuplicazione del costo del gas naturale...

Myanmar, perché questa volta il regime teme la contestazione

da Attualità

del 26 settembre 2007

Nel Myanmar, il moto di protesta guidato dai monaci buddisti contro la giunta militare, al potere da 43 anni, prosegue incessantemente la sua marcia. Il 15 agosto, senza dare alcun preavviso, la giunta guidata del generale Than Shwe stabilisce il raddoppio del prezzo del diesel e la quintuplicazione del costo del gas naturale. Dei dissidenti che il 23 agosto manifestano la loro opposizione, tredici vanno incontro all’arresto. Le manifestazioni proseguono sporadicamente e con scarsa incidenza fino all’entrata in gioco dei monaci buddisti. Il 28 agosto guidano la loro prima marcia di protesta nella città di Sittwe a nord ovest. Il 5 settembre si ripetono a Pakokku, 370 miglia da Yangon, l’ex capitale (dal 2005 rimpiazzata da Naypyidaw, nell’entroterra). L’esercito apre il fuoco  per intimidire i 500 religiosi scesi in piazza, ma in tutta risposta, il giorno successivo, gli stessi monaci prendono in ostaggio dei funzionari governativi, liberandoli dopo più di quattro ore e non prima di averne bruciato le automobili. L’11 settembre i  monaci avanzano una richiesta di scuse alla giunta militare per l’assalto subito, in segno di sfida all’autorità del governo, che ribatte ordinando l’arresto di due monaci, i primi religiosi a essere spediti in prigione da quando nel Myanmar è in sella la dittatura militare.

Ciononostante, il fiume della contestazione comincia ad ingrossarsi; ai religiosi si uniscono i cittadini e anche personalità birmane di spicco e le autorità comiciano a innervosirsi. Il 18, a Sittwe, gas lacrimogeno piove sugli oltre mille manifestanti. Il 19 la protesta raggiunge gli edifici governativi sfidati da un raduno di oltre mille monaci. Il 20, a  Yangoon, 500 monaci escono vincitori da una guerra di nervi durata tre giorni con le forze di polizia, ottenendo il via libera all’interno della Pagoda di Shwedagon, il luogo di culto più sacro del Myanmar. Il 21, 600 monaci marciano nelle vie di Yangoon senza incontrare resistenze. Il 22 raggiungono l’abitazione del premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, principale oppositrice del regime, che si affaccia dalla sua abitazione e prega con i monaci per 15 minuti, nella sua prima apparizione pubblica da quando, nel maggio 2003, le sono stati concessi gli arresti domiciliari. Una vittoria per i monaci. Se sono riusciti ad arrivare fino a Suu Kyi, è segno che la loro coraggiosa protesta ha messo la giunta militare in garnde difficoltà.

Il regime non sa come affrontarli e sembra indeciso sulle iniziative da intraprendere. Che fare? Lo status reilgioso conferisce ai monaci una sorta d’immunità che li preserva dalle maniere forti e sbrigative cui il governo ricorre di solito contro gli oppositori civili. D’altra parte, la soluzione di forza potrebbe gettare benzina sul fuoco della contestazione, rendendola ancor più ingestibile. Ma se ai monaci viene lasciata altra libertà d’azione, la protesta potrebbe anche estendersi a macchia d’olio, fino a coinvolgere i gruppi armati delle minoranze etniche che vogliono l’indipendenza e controllano le zone di confine. A quel punto, il regime rischierebbe lo sfaldamento.

Già nel 1988, i militari fronteggiarono una rivolta che mise in pericolo la loro permanenza al potere e repressero nel sangue. Per placare gli animi si limitarono a un’operazione di restyling che non modificò la sostanza del regime e vide la caduta del generale Ne Winm (profeta della via birmana al socialismo), il duplice cambio di denominazioni (da Birmania a Myanmar, da Rangoon a Yangoon), lo svolgimento di elezioni fittizie (vinte per giunta dalla National Democratic League di Suu Kyi e perciò mai riconosciute ufficialmente), l’ascesa di Than Shwe (oggi 73enne) e dell’ala più dura delle Forze Armate.

La protesta tuttora in corso e simile a quella di vent’anni fa, quel che è cambiato è il contesto internazinale. Nel 1988, le logiche della Guerra Fredda e del bipolarismo lasciarono mano libera ai generali, nell’indifferenza del mondo. I soli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con la giunta, imponendo in seguito delle sanzioni economiche. Oggi, sebbene il regime militare sia granitico e non presenti al suo interno particolari segnali di debolezza o dissenso, c’è una maggiore attenzione verso quanto sta accadendo in Myanmar. In caso di brutale repressione dell’agitazione prodemocratica in corso, per i generali è già pronta la scomunica internazionale. L’atteggiamento dei paesi europei verso il regime si è fatto più deciso rispetto al passato, in maggiore sintonia con la linea dura dell’ammnistrazione Bush, che nel 2003 ha iscritto il Myanmar nella lista nera degli “avamposti della tirannia” e ha inasprito pesantemente le sanzioni economiche. Anche grazie al cambio di leadership, pur non ponendosi in aperta contrapposizione con la giunta militare, Francia e Germania si sono apertamente schierate al fianco della protesta, intimando al governo di garantire la sicurezza dei manifestanti e di liberare finalmente Suu Kyi. D’altro canto, il segretario generale dell'Onu, Ban-Ki moon, ha avuto parole di elogio per il carattere pacifico della contestazione e ha fatto appello alle autorità perchè continuino a usare moderazione. Ban ha auspicato l’apertura di un processo di riconciliazione nazionale, che favorisca il ritorno della democrazia e il pieno rispetto dei diritti umani. Maggiore cautela, invece, da parte dei più grandi vicini del Myanmar, Cina e India. Entrambi per ragioni economiche, energetiche e geopolitiche, sono alleati di Than Shwe e lo sostengono diplomaticamente. Se i generali dovessero intervenire con metodi sanguinari, si rivolgeranno a Pechino e Nuova Delhi per evitare l’isolamento internazionale.

I vertici militari finora hanno mantenuto un profilo relativamente basso, ma di fronte a una vertiginosa escalation della contestazione potrebbero anche optare per la soluzione di forza per ripristinare l’ordine, incuranti delle reazioni internazionali. E visto il ritmo vertiginoso con cui proseguono le manifestazioni - ieri, i manifestanti scesi in piazza a Yangoon erano oltre 300 mila -, la giunta potrebbe da un momento all’altro adottare misure di emergenza. Proprio nella mattina di oggi, 10 mila monaci, sempre nell’ex capitale, hanno sfilato al grido di 'democrazia, democrazia', sfidando la polizia che aveva minacciato di usare la forza per disperdere la folla.

 

 

Emiliano Stornelli

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