Nel silenzio ti senti chiedere «Voi chi dite che io sia?»

E mentre riconosci, e quasi tocchi con lo sguardo questa impressionante analogia, ti si fa dentro come un ulteriore silenzio ‚Äì attonito, commosso. Sei tu, dunque, sei tu davvero? Come riconoscendo dopo l'eternità un volto tanto a lungo cercato.

Nel silenzio ti senti chiedere «Voi chi dite che io sia?»

da Teologo Borèl

del 13 aprile 2010

 

          Fuori è una giornata di primavera radiosa: un sole chiaro illumina in trasparenza le foglie degli alberi appena nate, color verde acerbo. Dentro il Duomo, è buio. Una penombra fitta accoglie il visitatore ancora frastornato dal primo caldo, e dal vociare della folla in piazza. Una penombra raccolta come un ventre materno, un altro mondo – silenzioso, tanto quanto fuori è rumore.

 

          La sola luce è in fondo, al centro della navata. La sola luce è un grande rettangolo di colore oro pallido. La Sindone, eccola, a pochi metri da te. Dietro allo spesso cristallo a prova di ogni urto, di ogni fiamma, protetta come meglio la tecnologia degli uomini oggi può fare, come il più prezioso dei tesori. Ecco l’orma di quel corpo, e il volto, e le macchie più scure: il sangue. Zittisce per un momento la folla dei giornalisti e fotografi portati per primi in Duomo – zittisce come quando ci si trova davanti a qualcuno, e non a qualcosa. Poi, quasi subito, il mestiere riprende il sopravvento, gli operatori lottano per piazzare i cavalletti delle telecamere, i fotografi alzano sopra la testa le macchine e una raffica di flash illumina di bagliori le navate, come lampi in un temporale.

          C’è chi parla, chi registra e chi ricorda ai telespettatori che l’ingresso è gratis; chi telefona – soffocati squilli di cellulari dalle tasche. Quasi impossibile, per un migliaio di giornalisti, restare in silenzio per quel minuto chiesto dal cardinale Severino Poletto. Non siamo gente abituata al silenzio. Solo qualcuno di noi nella calca si isola, assorto, e a braccia conserte resta in contemplazione per lunghi minuti. Solo qualcuno, come adesso solo con sé stesso davanti all’ombra di quel corpo, di quel volto.

          È un’ombra pallida, il volto, sull’originale, meno netto che nelle immagini ad alta definizione che tutti conosciamo. Occorre sapere e ricordare i racconti evangelici, occorre averli in testa, per ricostruire fra sé quei versi che ci sentiamo ripetere fin da bambini. Bisogna lasciarsi riecheggiare nel cuore la Passione testimoniata da Matteo, o dagli altri evangelisti. Quando è il momento di Pilato. L’ora della sentenza. «...Dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore portarono Gesù nel pretorio e radunarono attorno a lui tutta la coorte.

          E, spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto; intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a lui, lo schernivano, dicendo: 'Salve, re dei Giudei!' E gli sputavano addosso, prendevano la canna e gli percuotevano il capo».

          Ecco su quel misterioso telo riemerso dal buio della storia nel quattordicesimo secolo in Francia, su quel telo che non può essere, per le sue caratteristiche fisiche, manufatto e su cui, come ha detto ieri il cardinale Poletto, «la scienza balbetta», i segni della Passione, come in uno specchio: ma in una inversione da negativo fotografico, dove l’ombra è chiara e la luce oscura, e a un primo sguardo superficiale la sagoma sembra evanescente, come appena tracciata da una emanazione di vapori. Occorre fermarsi, e far memoria del Venerdì Santo. Allora ecco prendono forma, sotto a uno sguardo attento, i segni di ciò che subì Gesù Cristo quel giorno.

          Ecco, sulla fronte, il sangue colato dalla corona di spine. E su una mano, evidente, il buco lasciato da un chiodo, e anche i piedi ugualmente trafitti. Sul lato del dorso ecco le impronte della flagellazione sulle spalle, e sulla nuca, pure, le tracce delle spine di una corona di rovi – a irridere un re martoriato e moribondo. Ecco, sul costato, la macchia larga, come di un colpo di lancia inflitto nel costato. Qui almeno la scienza dice qualcosa di preciso: quel sangue è di cadavere, l’uomo della Sindone era già morto quando fu provocata la ferita – mentre il sangue in corrispondenza dei chiodi e delle spine, è sangue di vivente. La corrispondenza coi Vangeli è assoluta («segno tragico e illuminante della Passione», disse Giovanni Paolo II della Sindone).

          E mentre riconosci, e quasi tocchi con lo sguardo questa impressionante analogia, ti si fa dentro come un ulteriore silenzio – attonito, commosso. Sei tu, dunque, sei tu davvero? Come riconoscendo dopo l’eternità un volto tanto a lungo cercato. E poi, immobile ancora lì davanti, ti riecheggia in testa il Vangelo di Giovanni: «Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro al mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro». La grande pesante pietra che Giuseppe d’Arimatea aveva fatto porre davanti alla tomba – come se la storia fosse, con la morte di quell’uomo, finita. E invece, rotolata la pietra, scoperchiata la tomba: là dentro Pietro trovò soltanto i teli.

          Il sudario. Questo, che andiamo a contemplare in forse due milioni, in processione, duemila anni dopo? Quando hai ritrovato tutte le corrispondenze e i segni su quel lenzuolo, lo puoi guardare infine nella sua completezza. È l’immagine di un uomo torturato e massacrato, di un uomo straziato dalla violenza, come milioni di uomini e donne e bambini nella storia. È, quel sudario, icona di noi («la carne di Cristo è carne nostra», disse san Leone Magno). Ma, non c’è traccia di corruzione e disfacimento sul quel corpo. Come se l’uomo della Sindone non fosse sceso nella morte, non ne fosse stato preso e catturato giù, nel suo abisso. Esci dal buio del Duomo al sole di aprile, e hai ancora quel volto davanti agli occhi. Come se ancora insistentemente chiedesse a chi lo va a contemplare: e voi, chi dite che io sia?

Marina Corradi

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