Oscar Elias Biscet è stato undici anni nelle galere di Cuba perchè aveva denunciato l'aborto forzato, la clonazione umana e i casi di neonati lasciati morire.Gli avevano proposto un patto: la libertà in cambio dell'esilio in Spagna...
del 31 marzo 2011
          Oscar Elias Biscet, il medico dissidente cubano sbattuto nelle celle sotterranee, prive di finestre e di bagno, che gli hanno cagionato gastriti croniche e lancinanti, ipertensione: gli avevano proposto la libertà in cambio dell'esilio in Spagna, ma lui non ha ceduto e alla fine ha vinto.
          Non ha fatto sconti. Ed alla fine ha vinto. Lo scorso 13 marzo è tornato un uomo libero Oscar Elias Biscet, originario dell'Avana, 51 anni, medico, dissidente cubano, condannato a 25 anni di carcere perché accusato di aver attentato alla sicurezza dello Stato. Un soggetto 'pericoloso', insomma. Semplicemente per aver istituito nel 1997 la Fondazione Lawton per i diritti umani e la libertà di espressione, immediatamente messa fuori legge. Fondazione, con cui ha denunciato pratiche aberranti ammesse dal regime comunista dei fratelli Castro, quali la clonazione umana cosiddetta 'terapeutica' e l'aborto forzato per motivi di ricerca medica.          In un Paese, in cui il tasso d'interruzione volontaria di gravidanza è già cinque volte superiore a quello italiano, specie tra le giovanissime, spesso a causa anche di un'altra grave piaga, quella del turismo sessuale, compreso quello pedofilo, che purtroppo impazza in una società attraversata da una grave crisi morale ed economica.          Nel 1998 Biscet consegnò alle autorità cubane un dossier, con cui accusò apertamente il Sistema Sanitario Nazionale di una pratica aberrante, una sorta d'aborto 'post nascita': neonati lasciati morire, semplicemente privandoli di qualsiasi forma di assistenza. Un'eutanasia passiva che il medico dissidente non esitò a definire, senza censure e senza mezzi termini, un «genocidio» in un testo giunto sino a Ginevra, alla Convenzione sui Diritti del Bambino.          Prima il licenziamento per aver diffuso negli ospedali uno scritto in difesa della vita, poi l'espulsione dal Sistema Sanitario, quindi il divieto di esercitare la professione, infine la prigione. Undici anni nelle galere di Cuba ('collezionati' a più riprese: di questi, otto solo relativi all'ultima condanna) non sono uno scherzo: Biscet ne è uscito compromesso nel fisico, ma non nell'anima. Le celle sotterranee, prive di finestre e di bagno, cui è stato costretto, in isolamento oppure in compagnia dei più violenti criminali, certamente lo hanno provato psicologicamente, gli hanno cagionato gastriti croniche e lancinanti, ipertensione. Eppure sempre ha rassicurato i sostenitori, preoccupati del suo stato di salute: «La mia coscienza e il mio spirito stanno bene». E questo basta. Unico conforto: la preghiera.          Gli avevano proposto un patto: la libertà in cambio dell'esilio in Spagna. Niente da fare. «Non ho nessuna intenzione di andare in esilio in Spagna – aveva subito dichiarato – . Sono qui, per trovare soluzioni ai problemi urgenti per il mio Paese. Il mio compito è quello di conquistare la libertà per il popolo cubano, affinché viva in pace ed in prosperità. Dobbiamo esigere prima di tutto il rispetto dei diritti umani, la possibilità di avere partiti politici e libere elezioni», per giungere ad «una società basata sui principi non negoziabili», primo fra tutti quello alla vita. Nessuna preclusione verso un'eventuale candidatura alla Presidenza di un governo di transizione, per «migliorare le condizioni di un popolo che amo».          Le prove, cui è stato sottoposto, non lo hanno piegato, né 'ammansito'. Sempre si è battuto ed ancora si batte contro la tortura e contro la pena di morte per i dissidenti, nonché contro l'eutanasia praticata sui malati poveri, considerati un 'peso economico'.          Rilasciato grazie ai negoziati tra il governo di Raul Castro e la Chiesa Cattolica, in particolare l'Arcidiocesi dell'Avana, con le sue prime dichiarazioni Biscet ha subito dimostrato di non voler fare 'sconti' a nessuno, tanto meno a chi l'abbia tenuto in prigione per 11 anni: «Quella cubana è una dittatura simile a quelle di Hitler e di Stalin – ha urlato –. I fratelli Castro devono lasciare il potere. Va nominato al più presto un governo di transizione che porti alla liberazione da un regime oppressivo e liberticida». Ciò, cui si potrà arrivare soprattutto grazie al prezioso lavoro di mediazione promosso dalla Chiesa cattolica, «per cambiare Cuba senza rivolte di piazza e spargimenti di sangue. A mio parere, il sistema ha i giorni contati».          Biscet ha invocato l'immediato rilascio anche di altri prigionieri politici come Librado Linares, José Daniel Ferrer e Félix Navarro. Criticata pure la condanna a 15 anni di reclusione, inflitta all'imprenditore nordamericano Alan P. Gross, a suo giudizio colpevole solo di aver promosso lo sviluppo della società civile a Cuba. Egli sa di poter contare su sostenitori anche tra i nemici: «Persino tra le fila del Partito Comunista ci sono simpatizzanti della dissidenza», ha detto.          In molti all'estero si sono battuti per la liberazione di Biscet. A far propria la sua causa, anche il Movimento europeo per la Difesa della Vita, nonché in Italia l'Associazione Scienza & Vita, con cui è entrata in contatto la figlia del dissidente cubano, Winnie, 22 anni, studentessa infermiera a Miami. Grazie a queste relazioni, nel 2009, anche Biscet levò la sua voce a favore di Eluana Englaro, chiedendo ai medici italiani, liberi di agire e di alzare la voce, di impedire che lutti di questo tipo avessero a ripetersi. Speriamo che ora, lasciato il carcere, la sua testimonianza, così chiara ed autentica, possa acquisire ancora maggior forza e valore a tutela della vita non solo a Cuba, ma in tutto il mondo.
 
Mauro Faverzani
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