“Niente di incurabile”

«Lo sguardo della scienza, a volte, ci impedisce di guardare con quello dei genitori». Eh sì, perché è inutile nascondersi dietro un dito: la violenza non è solo nei gesti e nelle armi, si nasconde, subdola, dietro ideologie striscianti che rendono solo più palese la sostanziale mancanza di rispetto.

“Niente di incurabile”

da Quaderni Cannibali

del 13 dicembre 2010

 

           “Niente di incurabile”, questo il titolo dato all’incontro con il dottor Mario Melazzini, avvenuto venerdì 26 novembre all’Università Cattolica di Milano e promossa dal Movit, gruppo studentesco che si occupa della promozione della vita all’interno dell’università stessa.

          Esordisce raccontando una storia, la sua, che anche chi già la conosce non si stancherebbe mai di riascoltare, forse perché assomiglia a tante altre, forse perché non ha proprio nulla di speciale. È la storia di un uomo sano, robusto, un professionista affermato e di successo, un primario d’ospedale conosciuto e stimato, che si trova, improvvisamente, a fare i conti con la malattia e con le scelte che essa comporta. Che non ha escluso, a suo tempo, la possibilità di darsi la morte. Ha il coraggio di raccontarci tutto, a cuore aperto, come farebbe coi suoi figli che, del resto, hanno più o meno la nostra età.

          Con grande lucidità, e l’influsso della sua esperienza personale, ci lancia un monito: «Lo sguardo della scienza, a volte, ci impedisce di guardare con quello dei genitori». E, restando in tema di sguardo, non sarò politicamente corretta, ma avrei tanto voluto che il duo Fazio-Saviano avesse potuto vedere la tristezza e la delusione negli occhi di quest’uomo, che si è sentito amareggiato, come cittadino e come persona, definendo “messaggio di una violenza incredibile” quello andato in onda col programma Vieni via con me, il 15 novembre, i cui protagonisti, insieme agli autori, hanno considerato 'inacettabile' la richiesta avanzata da più d’una associazione di poter avere diritto di replica.

          Eh sì, perché è inutile nascondersi dietro un dito: la violenza non è solo nei gesti, non è solo nelle armi, si nasconde, subdola, dietro ideologie striscianti che rendono solo più palese la sostanziale mancanza di rispetto, che neanche pietismi e falsi buonismi riescono davvero a velare. E che, piuttosto, amplificano invece la drammatica portata di un’ideologia sbandierata come “normalità” e che si fa forte di un concetto di “libertà d’espressione” tirata fuori solo quando fa più comodo.

          Per prima cosa Melazzini ci tiene a ribadire quale sia stato il suo punto di partenza, cioè il suo pensiero iniziale, quello con cui accolse la scoperta della sua malattia, la SLA: «Con questa malattia non si può vivere. Io voglio morire!». Seguì, quindi, l’iter in Svizzera per le pratiche che lo avrebbero portato alla “dolce morte”. Ma qualcosa lo fermò; ci ripensò.

E così passò il guado.

          Prima,“benpensante”, come dice lui, per cui la vita è come una “patente a punti”: finché sei sano e stai bene, tutto ok, se inizi a “perdere colpi”, a poco a poco perdi punti fino a diventare “indegno di vivere”. Poi, secondo altrui definizione, “talebano della vita”. Eppure ci tiene a puntualizzare: «Vivere con una malattia è faticosissimo, ma questa fatica è proporzionale alla bellezza che tu riesci a vedere intorno a te». Insomma, naturalmente non augura a nessuno la malattia, ma si fa testimone vivente che uno sguardo “positivo” su di essa può trasformarla in risorsa.

          Non manca tuttavia di precisare, con cura puntigliosa, quasi a “discolpare” i suoi detrattori: «Ma io sono un inguaribile ottimista. Il problema deriva dall’ignoranza, dalla non-conoscenza». E inizia a raccontare un episodio semplice, ma raccapricciante. In parole povere, per disguidi burocratici, non aveva la certezza di avere il rifornimento necessario di pappe (non può deglutire); dopo aver fatto notare il piccolo dettaglio che, tramite queste, lui si nutriva e assumeva quanto gli era necessario per vivere, ebbe in risposta un “questi sono problemi suoi”. E a questo episodio collego il pensiero di Alessandro Bergonzoni che riflette: «credo che non ci debbano essere solo i cosiddetti “coinvolgimenti personali” per essere attenti a questi temi.

          Bisogna smettere di pensare che ci si coinvolge solo se si ha un figlio malato, o se si sta male», e, in altra sede, aggiunge: «Smettiamo di indossare solo i panni di attore, di giornalista, di dottore, di industriale, di sano e cominciamo altri mestieri, misteri, abbracciando gli enigmi, toccando la complessità delle meraviglie, accarezzando la difficoltà imprescindibile, con un bel salto nel pieno lasciando parcheggiato il vuoto vicino alla rabbia e alla sua scusa. (E se vogliamo e voliamo dopo parliamo anche d'amore.)».

          Torniamo dove eravamo partiti, allo sguardo. Melazzini ci parla dello sguardo come “strumento di cura”. Un recente intervento del Pontefice gli ricorda un libro di medicina che si soffermava sullo sguardo con cui era possibile guardare i pazienti. La dignità sta nell’occhio del curante: questo il titolo dell’articolo, che, inizialmente, lo lasciò perplesso. Ebbe bisogno della sua “traduzione” in atto concreto, per poterlo capire. Non ci volle molto: gli bastò vedere all’opera una sua infermiera con alcune pazienti, capì quale fosse lo sguardo capace di dare dignità. «Lo sguardo che liberamente pongo sull’altro dà la dignità di me stesso» rincara la dose Joseph Ratzinger.

Una questione di sguardo, dunque. Del resto, non si dice che gli occhi sono la porta del cuore?

          Il dottore non si arrende, continua a lottare per i suoi diritti, vuole essere libero di vivere; lo reclama a gran voce: ancora adesso, tante famiglie sono troppo sole, mentre c’è bisogno di una “presa in carico della persona e delle famiglie”. Sì, perché un disabile non si cura mai curando solo lui, perché tutta la famiglia è e deve essere coinvolta.

          Dopo aver confidato che lui ogni giorno continua a sognare di poter guarire, lancia un appello a noi giovani: «Non dimenticatevi mai la parola speranza: la speranza è un occhio che guarda oltre!». Conclude infine con un monito, in risposta ad alcune domande: «Imparate ad accogliere ciò che vivete. La malattia mi ha insegnato l’umiltà». E, non so perché, a me ha fatto pensare ad un film tanto spesso sottovalutato, Una settimana da Dio: «Sii tu il tuo miracolo!».

          Niente d’incurabile. No. Finché ci saranno inguaribili ottimisti ci saranno ancora malattie inguaribili, ma niente che non sia “curabile”, cioè degno di cura e di attenzione.

 

* Mario Melazzini, primario al Day Hospital Oncologico S. Maugeri di Pavia, è presidente dell’AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica) e presidente onorario del club 'L'inguaribile voglia di vivere'.

 

 

Maddalena Negri

http://www.sullastradadiemmaus.it

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