Don Cesare Durola, testimone alla Festa dei Giovani. «Abbiamo compreso che è una casa ciò che dobbiamo e possiamo offrire a questi ragazzi, una casa abitata da persone che amano, insegnano ad amare perché ci provano a farlo sempre meglio tra di loro e con tutti. È anche il modo migliore per evangelizzare... non facendo proselitismo, non facendo delle belle prediche su Gesù, ma cercando di vivere il suo Vangelo nei piccoli gesti e nelle piccole scelte di tutti i giorni...».
del 26 febbraio 2008
 
 
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Una storia di lontano
 
Nevicò tantissimo quell’8 dicembre 1847, a Torino, ma questo non scoraggiò di certo il corteo festoso di tantissimi ragazzi e giovani che, al seguito del teologo Borel, si recò al nuovo oratorio di don Bosco, per inaugurarne la Cappella dedicata a San Luigi.
«Miei cari figliuoli, quando le api si sono moltiplicate di troppo in un alveare, una parte di loro se ne esce, costituisce un’altra famiglia, e vola ad abitare altrove. Come vedete, qui siamo tanti da non sapere più dove rivoltarci. Nella medesima ricreazione di tratto in tratto or l’uno or l’altro è sospinto, cacciato a terra, e ne porta insanguinato il naso. In cappella poi stiamo pigiati come le acciughe. Allargarla a colpi di schiena e di spalla non ci conviene, chè potrebbe caderci addosso. Che faremo adunque? Noi imiteremo le api: formeremo una seconda famiglia, e andremo ad aprire un secondo Oratorio» (G. Bonetti, Cinque lustri di storia dell’oratorio salesiano, Tipografia Salesiana, Torino, 1892).
Porta Nuova, dove don Bosco era solito recarsi perché lì molti ragazzi immigrati ogni mattina si davano appuntamento nella speranza che qualcuno passasse a sceglierli per un lavoro mal pagato che gli avrebbe sfruttati fino al tramonto. Perché nelle cantine di quel borgo erano stati allestiti dormitori clandestini dove giovani e adulti cercavano rifugio, un sacco di paglia e un po’ di caldo. Perché in quelle strade, da sempre crocevia di popoli in arrivo nella speranza di un futuro migliore, tantissimi ragazzi, poveri e abbandonati, si lasciavano vincere dalla disperazione.
Un anno dopo Valdocco, a Porta Nuova nasceva una nuova famiglia, un nuovo Oratorio che avrebbe raccolto fin dal primo giorno tantissimi di quei ragazzi, e ad accoglierli don Bosco mise giovani e sacerdoti su cui aveva posto la sua fiducia, persone che credeva capaci di trasmettere lo stesso spirito del primo oratorio, capaci di creare lo stesso spirito di famiglia che avrebbe dato vita ben presto a una nuova Congregazione: il beato Michele Rua, presente al San Luigi negli anni 1855-57; san Leonardo Murialdo, direttore dell’oratorio dal 1857 al 1865; il beato Luigi Guanella, direttore dell’oratorio dal 1875 al 1877; il venerabile Filippo Rinaldi direttore di tutta l’opera negli anni 1884-89; il servo di Dio don Vincenzo Cimatti direttore dell’oratorio dal 1913 al 1919; san Callisto Caravario, martire, allievo della scuola nel 1912-14 e giovane salesiano al San Luigi nel 1921-22.
Sorse in seguito la chiesa di San Giovanni Evangelista e l’Istituto adiacente dapprima come studentato per le vocazioni adulte, poi come scuola e collegio, attualmente come pensionato universitario.
 
 
Il «San Salvario»
 
Oggi la zona definita come «Quadrilatero di San Salvario», in Torino, è definita dai corsi Vittorio Emanuele II, Massimo d’Azeglio e Marconi e dalla via Nizza, con il comprensorio della stazione Porta Nuova.
Si tratta di un’area estesa su poco meno di 42 ettari, caratterizzata da un’alta densità urbana. Da un punto di vista amministrativo rientra nel territorio della Circoscrizione VIII della Città di Torino.
Il quartiere intrattiene relazioni di rango urbano con tre importanti vicini: il centro cittadino, a nord; la stazione Porta Nuova, ad ovest; il parco del Valentino e il Po, ad est.
La contiguità di questi tre poli colloca San Salvario in una situazione di centralità urbana; particolarmente condizionante risulta l’influsso della stazione, col suo indotto di alberghi, ristoranti, animazione diurna e serale.
A scala più locale si situano invece le relazioni che il «quadrilatero» intrattiene con il resto del quartiere San Salvario, a sud di corso Marconi, e con la zona che ospita i principali ospedali cittadini.
La storia del borgo è caratterizzata dalla presenza dei templi e delle istituzioni socio-culturali di diverse religioni (valdese, cattolica, ebraica; cui recentemente si è aggiunta quella islamica) e dalla localizzazione di immigrati (nazionali nei decenni passati, stranieri negli ultimi anni).
Esso fu costruito a partire dal 1852 secondo una razionale logica di sfruttamento fondiario. Il quadrilatero è un comparto urbano compatto e coerente dal punto di vista ambientale: si può dire che l’aspetto fisico del quartiere non sia molto mutato dalla fine dell’Ottocento ad oggi.
La proprietà degli immobili è spesso molto frammentata. All’interno dello stesso edificio si riscontrano appartamenti di classi catastali differenti (quindi con diversa rendita fiscale), e anche un’elevata differenziazione delle destinazioni d’uso.
È in atto negli ultimi anni una certa riqualificazione dei manufatti edilizi (opere di manutenzione, facciata, tetto), da parte dei condominî; mentre i singoli privati sembrano poco propensi a rischiare opere di trasformazione delle unità edilizie.
L’area possiede alcune qualità positive sue intrinseche: un commercio radicato e abbastanza diversificato, una tendenza recente all’insediamento nell’area di commerci «rari» ed etnici; un ricco tessuto associativo, ricco culturalmente per l’intreccio di tante culture differenti e per la tradizionale multiconfessionalità, caratteristica fondante del quartiere: fattori che hanno segnato la storia sociale e urbana di San Salvario. Dal punto di vista della condizione professionale degli abitanti, emerge chiaramente che San Salvario possiede caratteristiche di grande varietà socio-economica.
A tutto questo però si aggiunge la crisi generalizzata della piccola distribuzione, il crescente senso di insicurezza nelle città, il crollo dei valori immobiliari, il declino industriale di Torino.
Ma San Salvario è divenuto celebre a livello nazionale come quartiere problematico di immigrazione, e specie nell’autunno 1995 è stato dipinto dai media come «casbah», «ghetto». Queste rappresentazioni stigmatizzanti, più volte e da più parti ripetute, hanno finito per diventare luoghi comuni non più questionabili, anche se mai fondate su indagini serie e documentate.
Il quartiere fu scenario delle tre grandi ondate migratorie: dalla campagna alla città nell’800, dal sud Italia negli anni ’50 e ’60, dal sud del mondo e dall’est Europa a partire dagli anni ’80: appare quindi un’area tipicamente centrale, densa di attività, di persone, di edifici, con problemi di «degrado», di integrazione e di scarsa partecipazione e responsabilizzazione della popolazione locale. Dopo Porta Palazzo, San Salvario è l’area di Torino in cui abitano più stranieri: al 31 dicembre 1999 essi erano il 12,64% dei residenti (contro una media cittadina del 3,56%). Queste aree si caratterizzano anche per il più alto rapporto tra stranieri non cittadini dell’Unione Europea e stranieri totali.
È molto difficile tentare una stima degli stranieri non residenti presenti nel quartiere; molti immigrati che abitano nel borgo ospitano a loro volta parenti e amici non ancora in regola con i documenti e in attesa di un possibile lavoro e perciò non conteggiabili dalle indagini demografiche. La presenza, poi, di numerose imprese etniche rende ancora più visibile la popolazione immigrata, che connota il quartiere in maniera evidente.
È il quadro complessivo in cui situare il forte disagio sociale che si riscontra a San Salvario; il quale ha ragioni di acutezza locale nello spaccio di droga, nella prostituzione (anche minorile) e nella microcriminalità.
Tra i bisogni emergenti risultano poi la necessità di spazi aggregativi, di eventi animativi, di attività socio-culturali e anche un forte bisogno di conoscere la realtà/quartiere in cui vivono e di esplorare le risorse che offre.
La ricerca-azione condotta nell’ambito del Progetto Giovani/Periferie rileva che molti dei giovani intervistati non sanno come utilizzare gli spazi presenti sul proprio quartiere.[1][1][2] Sul fronte più specificatamente preventivo è interessante il dato fornito da una rilevazione effettuata nell’area San Paolo-Cenisia:[2][2][3] il 51,4 % dei ragazzi intervistati ha dichiarato di rivolgersi ad un amico in caso di problemi e disagio, mentre i servizi prioritari in questo ambito risultano agli ultimi posti per quanto riguarda la distribuzione del campione sulla percezione delle risorse in grado di fornire aiuto. Emerge quindi il bisogno di incontrare sul territorio figure significative nell’accompagnamento ai processi di crescita e di cittadinanza, che sostengano le capacità autorealizzative e avvicinino le risorse. Inoltre l’analisi dei dati della ricerca realizzata dal Gruppo Rete della Circoscrizione V «suggerisce un diverso ruolo della figura dell’educatore… come soggetto attivo operante sul territorio», in un’ottica che lo vede stimolo del protagonismo della comunità locale per far fronte a problemi di sicurezza e per promuovere cittadinanza attiva.
 
 
Un Oratorio «dentro» il quartiere
 
In questi anni, fin dalla sua nascita, l’Oratorio San Luigi si è mosso in una duplice direzione: da un lato creare un luogo di socializzazione aperto e accogliente, uno spazio pubblico, supplendo all’attuale carenza, per rispondere al bisogno dei giovani di avere luoghi dove incontrasi, trascorrere del tempo libero, giocare, praticare sport, esprimere la propria creatività in attività aggregative e culturali; dall’altro, secondo il sistema preventivo di Don Bosco, proporre una serie di iniziative per coinvolgere i giovani, offrendogli cammini formativi e accompagnandoli nella loro crescita.
La presenza salesiana col tempo si è consolidata, e oggi il centro giovanile rappresenta un punto di riferimento per il quartiere.
In un anno oratoriano sono transitati nel nostro centro circa 800 giovani di cui il 75% di origine straniera, di almeno venti nazionalità diverse.
Oggi insieme ai salesiani lavorano a tempo pieno educatori laureati, giovani animatori e genitori con cui si è costituita un’équipe educativa che condivide in tutto la missione, la formazione propria e dei giovani, la responsabilità del lavoro educativo in tutti i sui ambiti.
Per ricreare al suo interno quel clima accogliente che fa dell’oratorio una vera casa per tanti giovani è stato necessario innanzitutto ricreare e investire tanto sulla comunità fatta di persone che vivono e lavorano all’interno di questa casa. È la propria vita personale, le relazioni e le scelte quotidiane, il perdono reciproco, la disponibilità senza orari, la confidenza, che ha reso poco a poco credibile e tangibile quel clima famigliare che abbiamo voluto riproporre, certi che solo lo spirito di famiglia tanto caro a don Bosco sia l’elemento chiave per raggiungere e trasformare ogni cuore, anche quello nascosto sotto una corazza impermeabile, quello di tanti ragazzi e giovani che hanno dovuto difendersi fin da piccoli da un mondo a loro estraneo.
Abbiamo aperto le porte, all’inizio senza proporre grandi attività, gruppi o laboratori, ma facendo in modo che ogni ragazzo che entrava al San Luigi si sentisse realmente a casa. Orari alla sua portata, ambienti accessibili e personalizzabili, corresponsabilità quotidiana, uffici chiusi per una presenza continua in mezzo a loro, dentro e fuori le mura dell’oratorio.
Così facendo non abbiamo potuto sottrarci al contatto immediato con le loro vite, le loro ansie e sofferenze, i disagi e le speranze… le loro domande sommerse.
Solo successivamente sono nati gli arredi dei nostri ambienti, le attività che ogni buon oratorio propone: il doposcuola, lo sport, i laboratori, i cammini di gruppo, ma soprattutto il lavoro in cortile, sulla porta dell’oratorio, nella saletta fumatori e in tutti quei luoghi informali dove i giovani sono soliti incontrarsi.
 
 
Una risposta ai mille bisogni
 
Non abbiamo potuto sottrarci, con molti di loro, nemmeno dalla puzza dei loro vestiti, dalla fame che avevano, dalla paura di non trovare un posto per dormire, dalla difficoltà di comunicare per via della lingua, dalla diffidenza e l’anonimato di chi deve sempre nascondersi, dalla fatica del confronto perché di culture e religioni diverse.
Solo così le docce dei nostri spogliatoi, dopo gli allenamenti, servono anche a tanti ragazzi per lavarsi, raccogliamo vestiti usati per giovani, mamme generose sono disponibili a lavare o cucire e nel nostro piccolo bar non ci sono solo patatine e caramelle, ma panini o qualcosa di caldo.
È così che sono nati i nostri corsi di italiano per stranieri, che giovani universitari volontari organizzano tutte le sere per tutto l’anno e a cui partecipano tantissimi giovani-adulti che di giorno lavorano o cercano lavoro. Al pomeriggio, inserito nel doposcuola, invece, per i giovani e ragazzi.
È il motivo per cui da alcuni anni in collaborazione con l’Ufficio Minori Stranieri del Comune di Torino all’ultimo piano dell’Oratorio si è aperto un Centro di Accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Giovani stranieri che accogliamo in casa per vivere insieme a loro gli ultimi anni della minore età, insegnando loro a farsi da mangiare, lavarsi gli indumenti, fare la spesa, gestire il denaro, confrontarsi e imparare a convivere con altri attraverso un sostegno all’autonomia previsto dalla legge in vigore. La vita di comunità, un percorso scolastico in vista della terza media, corsi professionali e stage lavorativi in vista di una assunzione e un lavoro sicuro sono i tre pilastri che offriamo loro prima del diciottesimo compleanno, per poter lasciare il nostro Centro in grado di vivere autonomamente.
A loro volta, gli stessi giovani, grazie all’esperienza che hanno interiorizzato pian piano, diventano i mediatori per raggiungere altri ragazzi di strada, spesso clandestini, e invitarli ad uscire dall’anonimato e farsi aiutare in modo concreto.
L’educativa di strada che coinvolge una parte del nostro lavoro ha proprio questo obiettivo: essere presenti là dove sono i giovani, là dove vivono, dove si incontrano, dove spesso sono soli e soffrono. Educatori e animatori dell’oratorio con un pulmino sostano in quei parchi o vie o piazze dove sappiamo sono soliti incontrarsi o «lavorare» gruppi di ragazzi. Il gioco, la musica e l’animazione sono il pretesto per conoscerli e incontrarli, per entrare in confidenza con loro e iniziare così un percorso condiviso.
Per alcuni gruppi vuole essere una presenza educativa significativa, capace di inserirsi in un gruppo informale e proporre alternative, temi di discussione e di confronto, idee e sbocchi concreti per poter realizzare le proprie capacità interiori. Per altri un sostegno immediato, un aiuto a dar voce ai propri bisogni profondi, un lavoro di mediazione tra le domande dei ragazzi e i diversi servizi, collaborando così con i Servizi Sociali, il Ser-T, Onda Uno per le nuove droghe giovanili, l’Ufficio Minori, le forze dell’Ordine e le Associazioni o Agenzie che operano sul territorio promuovendo un fittissimo lavoro di rete di cui oggi nessuno può sottovalutarne l’importanza.
Obiettivo generale di questo progetto («Pro-muoVere Comunità Sicure») di prevenzione primaria e secondaria è la promozione della qualità della vita, del benessere e della salute giovanile attraverso interventi integrati di facilitazione e sostegno dei percorsi di socializzazione, rafforzamento dei fattori protettivi, contenimento di alcuni fattori di rischio e promozione del protagonismo giovanile nell’ambito di uno sviluppo locale partecipato.
Per ultimo attraverso un Centro Diurno Aggregativi, in collaborazione con i Servizi Sociali della Circoscrizione VIII che operano a San Salvario, diamo la possibilità di inserire nel nostro Centro e nelle attività che esso propone ogni giorno ragazzi in difficoltà o appartenenti a famiglie che non sono in grado di accompagnate i proprio figli.
La proposta che noi facciamo loro è sempre quella educativa nello stile salesiano di don Bosco, una relazione che investe a pari diritto e responsabilità l’educatore e il ragazzo, in un «gioco» interattivo, che rimbalza come «guadagno» attorno alla crescita integrale.
Proponiamo l’Oratorio come ambiente educativo, luogo capace di assicurare formazione, socializzazione e crescita. In questo spazio vitale si offre ai giovani di partecipare in modo attivo, da protagonisti, affinché si radichino nell’ambiente sociale fatto di valori e modelli di vita al fine di strutturare la loro identità.
In una casa «multietnica» come la nostra, poi, imparare insieme ad accoglierci, a confrontarci e dialogare rafforzando la propria identità culturale e religiosa e una sfida e un impegno quotidiano. I giovani che si sentono accolti e si sentono a casa imparano prima a rispettarsi, a scoprire il valore sotteso nelle culture degli amici e a rafforzare e capire più in profondità la propria. Molti giovani stranieri sono cristiani e vivono la loro fede ancora in modo serio, come un tutt’uno con la vita della propria famiglia e dei propri affetti. Altri sono musulmani, vivono con fatica il confronto tra la loro cultura radicalmente modellata sulla propria religione e la nostra, che ha perso il suo riferimento vitale con la fede. Se non accompagnati rischiano di perdere con il tempo i valori che veicolano le loro culture di origine, anche perché privi di un modo adulto di riferimento, e allo stesso tempo faticano a interiorizzare valori proposti dalla cultura del paese che li ospita, valori che i coetanei italiano faticano loro stessi a riconoscere e che la società spesso non aiuta a far emergere.
Il rischio è l’appiattimento di tutto a favore di una tiepida convivenza.
Siamo in cammino… ogni giorno cerchiamo di fare tesoro delle esperienze in cui veniamo coinvolti dai nostri giovani, di affinare la nostra capacità di ascolto, per poter cogliere in profondità le domande che si celano nelle loro vite e nelle nostre e di formarci insieme per essere capaci di dare a loro e a noi una risposta vera, concreta, per la vita.
Certamente abbiamo compreso che è una casa ciò che dobbiamo e possiamo offrire a questi ragazzi, una casa abitata da persone che amano, insegnano ad amare perché ci provano a farlo sempre meglio tra di loro e con tutti.
È anche il modo migliore per evangelizzare… non facendo proselitismo, non facendo delle belle prediche su Gesù, ma cercando di vivere il suo Vangelo nei piccoli gesti e nelle piccole scelte di tutti i giorni… mettendosi in gioco sempre, senza aver paura di lasciar trasparire anche le nostre ferite, i nostri errori. È narrare le nostre storie, la nostra vita di tutti i giorni, a partire dalle nostre fragilità perché sono quelle che maggiormente lasciano trasparire la potenza di Dio.
Che bello quando qualcuno ti chiede: «Ma chi te lo fa fare?». Si parte da lì…
don Cesare Durola
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