"Dopo trent'anni anni di "missione" nel terzo mondo, lei qualcosa da dire ai missionari "professionisti", ai volontari, alla Chiesa ce l'avrà certamente?" "Chi è il missionario secondo lei, oggi?" Intervista a Dominique Lapierre.
del 18 aprile 2011
 
 
          «Oggi chi ha fame vede in Tv come si vive in Occidente. Temo il giorno in cui i poveri si unissero a un leader violento». La denuncia di Lapierre: più del denaro, occorre assicurare dignità agli ultimi...
          «Sono un umile scrittore, non una piccola Madre Teresa, non ho la pretesa di dare messaggi a nessuno...». Dominique Lapierre all'inizio si schermisce. 
          Ma, dopo trent'anni anni di 'missione' nel terzo mondo, lei qualcosa da dire ai missionari 'professionisti', ai volontari, alla Chiesa ce l'avrà certamente...
          «Confesso che l'incontro col terzo mondo è stato per me uno shock. Ho capito che il problema del mondo era la povertà, mi stupivo anzi che i poveri non facessero la rivoluzione. Oggi poi anche chi muore di fame ha la tv e conosce come si vive in Occidente. Il giorno in cui incontrerà un Gandhi violento che lo spinge alla rivolta, quel giorno non mi auguro di essere là. Penso invece che la storia sarebbe differente se oggi ci fosse un Mahatma, se ci fossero più Mandela...». 
L'ingiustizia planetaria è divenuta più insopportabile rispetto a 50 anni fa?
          «Sì. Oggi si può soggiornare 10 giorni a Calcutta senza vedere un mendicante e nelle strade non circolano solo risciò, ma anche Mercedes. Eppure in India ci sono ancora 300 milioni di uomini che vanno a letto non più a pancia vuota, ma mezza vuota. È inaccettabile. Ci sono tante ingiustizie nel mondo che la prima cosa da fare è provare a rimarginare queste disparità. È terribile vedere come tanto denaro sia sperperato per cause che non hanno niente a che vedere con la felicità, il diritto, l'educazione, la salute. Per questo ai miei amici indiani ricchi (ho creato pure laggiù una Fondazione per raccogliere fondi a favore delle mie iniziative, ma non ha avuto molto successo) dico: non lasciate che il baratro tra voi e loro s'allarghi, perché forse un giorno le folle non parleranno più di nonviolenza, ma faranno una rivoluzione». 
Allude al terrorismo?
          «Già. Da dove viene? Dalla povertà anzitutto. Ho visitato i campi dei rifugiati della Palestina e non è difficile capire che un kamikaze non ha niente da perdere quando tutta la sua speranza è vivere a Jenin...». 
L'islam poi dimostra la sua volontà di dominio anche in Occidente.
          «Forse, ma dipende molto dai luoghi. Ben Laden rappresenta una piccola fazione, nel Corano non è previsto nulla di ciò che succede a Teheran. Che è una perversione dell'islam, tanto quanto la distruzione degli aztechi da parte di Cortés fu una perversione della croce». 
Parliamo dunque di religione.
          «In India - Paese in cui si adorano 20 milioni di divinità - ho appreso la virtù di una tolleranza davvero universale. E ho imparato a pregare il mio Dio, quello cristiano della mia infanzia, anche nelle moschee, nei templi indù, con persone che seguono in modo diverso il mio stesso cammino verso la salvezza dell'anima. Questo mi ha dato una versione molto più globale - universale se volete - della religione, rispetto alla 'stretta' versione del cristianesimo». 
Qualcuno potrebbe chiamarla sincretismo...
          «Esatto. Ma io ammiro questo genere di sincretismo, o meglio di dialogo della vita, credo sia qualcosa di molto bello. Si vive a contatto dei più umili e dei poveri e si vede fino a che punto meritano l'eternità, a qualunque religione appartengano. È come se la povertà avesse livellato tutte le condizioni sociali e persino religiose; è straordinario. Li ammiro a tal punto che non posso fare a meno di pensare molto modestamente che anche loro sono sulla via giusta». 
Tutte le religioni si equivalgono, allora?
          «Non voglio dire questo. È un'esperienza che ho avuto la fortuna di fare, ma non possiedo certo la chiave per estenderla al resto dell'umanità. Noto solo che la guerra, l'odio, il terrorismo spesso dipendono dal possesso di ricchezze e dal desiderio di avere quelle altrui. Nella Città della gioia invece ci sono persone che, pur combattendo per sopravvivere, hanno compreso che il solo modo per vivere è rispettare gli altri e camminare su una via comune. Molti musulmani sono persuasi che i cristiani - i 'crociati', così li chiamano - vogliano distruggerli (e viceversa) solo perché gli uomini non hanno imparato a conoscersi, a incontrarsi». 
Chi è il missionario secondo lei, oggi?
          «Un uomo che condivide la vita di coloro con i quali vive, completamente. Bisogna anzitutto rispettare e identificarsi con la vita dei poveri, l'annuncio del Vangelo può diffondersi solo attraverso l'esempio; senza separarsi, senza chiudersi in gerarchie. Come tanti Charles de Foucauld. E alla fine si imparerà molto più di quanto si darà, perché i poveri sono persone eccezionali». 
Lei personalmente che cos'ha imparato?
          «I loro valori spirituali. Nella Città della gioia nessuno è abbandonato, nessuno è strappato alla famiglia, alle sue radici, alla sua religione. C'è una sorta di unità così forte che le persone possono affrontare le difficoltà con un coraggio impensabile. Sono uomini che sanno ringraziare il cielo per il minimo beneficio e l'incontro con loro mi ha dato straordinarie prove dell'esistenza di Dio; anche se poi si ha l'impressione che lui abbia dimenticato i suoi figli. Credo che un povero, a Parigi o a Milano, sia molto più misero e disperato che un povero dell'India, anche se può contare sui sussidi statali. La peggiore miseria infatti non l'ho vista a Calcutta, ma a Roma o nel Bronx di New York, servendo i pasti ai barboni raccolti dalle suore di Madre Teresa. Lì la gente è tagliata fuori da tutto, spiritualmente abbandonata, senza speranza». 
Rimprovera qualcosa alla Chiesa?
          «In genere mi guardo bene dal criticare nel suo insieme un'istituzione che attraversa momenti spesso difficili. È sicuro che l'azione del Santo Padre è straordinaria. Ma questo non mi impedisce di vedere che un certo vescovo di una certa città indiana, che vive nel suo bungalow climatizzato o che ha la macchina con autista, non è a contatto con la vera povertà... Sono scioccato da certe manifestazioni esteriori che secondo me non c'entrano col messaggio di Cristo». 
L'immagine della Chiesa nei Paesi poveri è un'immagine di grandezza?
          «Non di grandezza: di differenza. In India ci sono 12 milioni di cristiani, molto pochi in percentuale; però un prete di parrocchia abitualmente si costruisce di fronte agli altri una specie di facciata di rispettabilità basata sul denaro: deve avere una bella macchina, vivere in una casa diversa degli altri... Gaston per esempio, che è il cristiano che sento più vicino, è sempre stato rifiutato dalla gerarchia cattolica del luogo, è sempre stato oggetto di reprimende del vescovo perché un cristiano 'non ha il diritto' di condividere la vita dei poveri così, deve vivere in altro modo. Certo i missionari stranieri sono più vicini al popolo che il clero locale, il quale ha bisogno di affermarsi materialmente; ma per me questo è poco accettabile. In America Latina ho visto invece più preti e vescovi davvero vicini ai poveri e per questo ho molta simpatia per la teologia della liberazione». 
Lei sembra molto sensibile al tema della ricchezza della Chiesa...
          «Sì! Quando ho incontrato Giovanni Paolo II nel 1986 devo anche avergli fatto capire come per natura io sia piuttosto scioccato dai fasti vaticani, mi sembra quasi che esistano due mondi: quello dei poveri e quello dei monsignori. Il Papa mi ha ascoltato e poi ha detto una cosa straordinaria che non ho mai dimenticato: 'Se potessi farlo, andrei a vivere in una bidonville di Calcutta come i vostri eroi della Città della gioia, per dirigere la Chiesa da lì'. L'ho trovato magnifico, e sincero». 
Del resto anche San Pietro è stata costruita con le offerte dei poveri!
          «Certamente! Ma oggi forse c'è un uso che sarebbe più conforme al desiderio di povertà dei miei eroi, che sono madre Teresa, san Vincenzo de' Paoli, eccetera. Vedrei bene San Pietro che diventa un museo per l'umanità, più che una cappella dove si celebra l'eucaristia. In quest'epoca di estrema precarietà per tanti nostri fratelli, vorrei dire rispettosamente a Benedetto XVI: 'Venda qualcuno dei tesori che si ammassano nelle sale del Vaticano, scambi le Mercedes dei vescovi che si allineano nei garage con piccole vetture e distribuisca tutte queste ricchezze ai più poveri dei poveri perché possano scavare pozzi d'acqua potabile, costruire scuole per i loro figli, mangiare almeno una volta al giorno'. Questi atti avrebbero più impatto che tutti i grandi discorsi sulla povertà pronunciati da un ufficio del palazzo vaticano». 
E lei, allora, perché non è andato ad abitare nella Città della gioia?
          «Non ne sarei capace! Ognuno ha il suo carisma. Se mi chiedete di andare a condividere la vita delle bidonville, rispondo sicuramente di no: amo un certo comfort, avevo una bella casa, un sogno che era stato costruito a poco a poco, e l'ho venduta perché avevo bisogno di soldi per Calcutta. Ognuno è fatto per servire la causa al meglio e personalmente credo di essere più utile scrivendo articoli, facendo conferenze, donando i piccoli talenti che ho a servizio dei più poveri». 
Qual è il suo segreto, in questa missione?
          «Il successo della Città della gioia è dovuto al fatto che ho raccontato una storia. Non ho voluto fare una predica. Non ho detto al lettore: tu mangi tre volte al giorno, è male, bisogna condividere subito con i poveri. Non ho cercato di creare delle cattive coscienze. Vedo spesso persone che lo fanno, io invece preferisco dare una testimonianza. Voglio condividere degli incontri eccezionali. E penso che la risposta è tanto più grande quanto più ci si accontenta di raccontare, senza cercare di influenzare il lettore». 
Ma raccogliere soldi è sufficiente?
          «No. Anzi, sarebbe relativamente facile mandare un assegno dalla nostra casa a Saint-Tropez; altra cosa è invece verificare che quel denaro venga usato per il meglio, che nessuno ne approfitti (spesso, quando il denaro arriva dal cielo, si ha la tendenza a disimpegnarsi), che non faccia più male che bene: perché non bisogna assistere, bensì educare affinché ognuno trovi i mezzi per riscattarsi dalla sua condizione. Noi siamo molto attenti a quest'aspetto e dunque siamo obbligati a vigilare, a visitare spesso le nostre opere, e così possiamo dire al povero che siamo suoi fratelli, che l'amiamo come la sua famiglia. Si tratta di una cosa importante tanto quanto il denaro, è questione di dignità». 
Perché lo fa? Per generosità?
          «No: perché io e mia moglie abbiamo incontrato persone che ci hanno dato più di quanto noi doneremo mai loro. Quando alle 5 del mattino dall'India ci chiamano al telefono: 'Brother, brother, un ciclone ha distrutto il nostro villaggio, abbiamo bisogno di 10 mila dollari subito' e si conosce il viso di chi chiama e il luogo da dove chiama, non si può restare indifferenti. Bisogna andare, vendere qualcosa, un quadro o che altro, per aiutarlo. Non si può dire di no». 
Restituisce così ciò che la vita le ha dato?
          «Non restituisco: condivido la chance che ho avuto con persone che non l'hanno avuta. Dovete capire la fantastica gratificazione che si ha quando si vede un bambino lebbroso guarito, quando si conoscono i suoi genitori - la madre da 30 anni senza mani, senza gambe, senza naso - e si sa che quel bambino è diventato ingegnere perché è molto dotato e abbiamo pagato la sua università. In quegli occhi si vede che il destino ha fatto incrociare due cammini e... tac, qualcosa è cambiato, sia pure per un bambino soltanto. Madre Teresa diceva: salvare un bambino è salvare il mondo». 
Qual è il suo sogno?
          «L'Abbé Pierre ha detto una frase bellissima: 'Si è vecchi quando non si hanno più progetti'. Io ho sempre progetti, sempre voglia di fare cose e penso che sia questo a mantenere la macchina in movimento. È importante credere in qualcosa e poter realizzare i propri sogni attraverso delle azioni. Il mio impegno umanitario è solo una goccia d'acqua, però dona un senso molto particolare alla mia vita e a quella di mia moglie». 
Madre Teresa è morta, l'Abbé Pierre pure... Sta dunque passando il tempo dei profeti?
          «La storia ci mostra che i profeti sono ciclici. Credo che esistano dei giovani profeti che non conosciamo ancora, ma che presto verranno a galla e prenderanno il testimone di chi li ha preceduti. Si incontrano in giro per il mondo dei giovani volontari che sono fantastici! Oggi le persone hanno bisogno di punti di riferimento, di ammirare qualcuno, di amare delle idee - degli idoli forse. È per questo che ho raccontato la storia dei miei 'idoli', gli uomini che hanno formato la mia vita o suscitato le mie rivolte. Domani ci saranno altri profeti...». 
Dunque lei si dichiara ottimista.
          «Sì, lo sono. Nel medioevo c'era la peste, che mieteva milioni di vittime. Oggi ci sono altre minacce, ma il mondo è sempre ricco di speranza. Io ho avuto la fortuna di scoprire persone che mi fanno essere fiero di appartenere all'umanità».
 
 
Roberto Beretta
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