È originariamente evidente a ogni persona che esiste nel proprio cuore il desiderio di una felicità senza limiti e senza termini. Come è ugualmente certo che ciascuna persona umana compie scelte diverse, ritenendo che ciò che sceglie sia la risposta al suo desiderio.
del 08 maggio 2009
È originariamente evidente a ogni persona che esiste nel proprio cuore il desiderio di una felicità senza limiti e senza termini. Come è ugualmente certo che ciascuna persona umana compie scelte diverse, ritenendo che ciò che sceglie sia la risposta al suo desiderio.
 
Da questa duplice constatazione possiamo forse dedurre che non esiste la risposta alla domanda di felicità, ma solamente tante risposte quante sono le persone? Che non esiste il bene in sé e per sé ma solamente tanti beni quanti sono le persone che vi aspirano? Se così fosse, la ragione non dovrebbe prefigurare un universo di cose ultime, ma solo di cose penultime. O meglio: dovrebbe semplicemente affermare l'esistenza del finito, giudicando la ricerca dell''oltre il finito' una malattia della ragione. Dobbiamo dunque guardare le cose più in 'profondità'; leggere più attentamente la nostra esperienza quotidiana.
 
Nessuno potrebbe scegliere un bene come risposta alla sua domanda di felicità, se non facesse un confronto fra ciò che desidera e ciò che quel bene gli offre; se non giudicasse quel bene alla luce del suo desiderio. Dunque pre-esiste nella nostra mente un'attesa, una domanda sensata che implica una nozione di felicità alla luce della quale noi giudichiamo i singoli beni che si offrono come risposta all'attesa, come realizzazione concreta di quella nozione. Come scrive Agostino: 'Prima di essere felici, nelle nostre menti è tuttavia impresso il concetto di felicità, per mezzo di questo infatti sappiamo e diciamo risolutamente e senza alcuna esitazione che vogliamo essere felici' (Il libero arbitrio II, IX 26; in Tutti i dialoghi).
 
La domanda dunque che la ragione non può evadere è se a questo 'concetto di felicità' impresso nelle nostre menti corrisponda o meno una realtà che sia capace di saziare il desiderio dell'uomo, oppure se esso sia una sorta di 'idea regolatrice' delle nostre scelte e nulla più. In questo senso la ricerca di un 'ultimo' oltre il 'penultimo', di un 'bene sommo' oltre ai 'beni limitati' è un compito da cui una ragione fedele a se stessa non può esimersi.
 
Ma vediamo meglio l'intimo rapporto fra il desiderio di una beatitudine piena e l'uso di una ragione che guarda oltre le cose penultime e si mette alla ricerca di quelle ultime, oltre i 'beni limitati' alla ricerca del 'bene illimitato'. Di una ragione cioè che intenda verificare se esista il bene corrispondente al desiderio.
 
Ci aiuta a cogliere questo rapporto una riflessione agostiniana, che troviamo ne Le Confessioni (X, 20, 29). Agostino in ordine alla felicità distingue le persone umane in tre classi: chi già la possiede; chi non la possiede, ma ha la speranza di possederla; chi né la possiede né spera di possederla. Soffermandosi a considerare la condizione di questi ultimi, Agostino, notando che anch'essi continuano comunque a desiderarla, conclude che in qualche modo l'hanno conosciuta (nescio qua notitia), altrimenti non potrebbero desiderarla. La donna del Vangelo non si metterebbe alla ricerca della dracma perduta, se non avesse la possibilità di riconoscerla qualora la trovasse; non avrebbe la possibilità di riconoscerla, se non ne conservasse la memoria.
 
Il desiderio della felicità, di una pienezza di essere, non nasce semplicemente da una mancanza, ma da un possesso accaduto e non più reale. Diciamo: nasce da una presenza, non da una assenza (cfr. X, 20, 29: 'Eppure lo possediamo, non so in che modo'). 'Dove dunque' si chiede Agostino 'e quando ho fatto esperienza della mia felicità, per poterla ricordare e amare e desiderare?' (X, 21, 31).
 
Ciò di cui ho esperienza quotidiana è un'attrazione. È l'attrazione il medium quo della conoscenza. Ciò che attrae infatti è presente nell'attrazione che esso suscita in chi è attratto. È questo il modo proprio della presenza della causa finale nelle persone. La felicità non può essere quindi semplicemente la realizzazione di se stesso (cfr. De civitate Dei 8, 8), ma non può neppure consistere in un'alterità irrelata, in un qualcosa di totalmente altro. È questa originaria esperienza; è questa presenza assente/assenza presente la sorgente che muove la ragione a cercare il conosciuto Ignoto. E nello stesso tempo funge da bussola, da criterio per riconoscere l'Ignoto conosciuto quando si rendesse presente, dandomi la possibilità di stringermi a Lui ed esserne posseduto.
 
Ci aiuta a capire questa condizione esistenziale dell'uomo la famosa pagina agostiniana della lettera a Proba, dedicata alla preghiera. In essa Agostino dice che la preghiera è in fondo lo stesso desiderio umano in quanto chiede a Dio di essere adempiuto: desiderio e preghiera si coimplicano. Ma non è questo il punto che ci interessa. Procedendo in questa coimplicazione, Agostino si chiede: ma che cosa desideriamo, alla fine? Una sola cosa: la vita beata, cioè la felicità piena. In realtà però non sappiamo che cosa è, in che cosa consista non formalmente, ma realmente e sperimentalmente. È questo il significato profondo delle parole dell'Apostolo: 'non sappiamo che cosa sia conveniente domandare' (Romani, 8, 26).
 
Ma nello stesso tempo, ci occorre non raramente di dire che la vita beata, la vita vera non può essere quella che stiamo vivendo. È un 'non sapere' che ha in sé un 'sapere': sa che esiste una vita beata, ma che non è questa. Est ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia (Epistolae, 130, 15. 28). Benedetto XVI nella Spe salvi (11-12) fa un suggestivo commento di queste pagine agostiniane.
 
Scrive Gabriel Marcel: 'Se l'uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino (...) verso una meta della quale possiamo dire al tempo stesso e contraddittoriamente che la vede e che non la vede. Ma l'inquietudine è appunto come la molla interna di questo progredire e qualunque cosa dicano coloro che pretendono di bandirla in nome di un ideale tecnocratico, l'uomo non può perdere questo sprone senza divenire immobile e senza morire'.
 
Nelle strutture stesse della persona si trova la presenza di un desiderio che dà origine a tutta la fatica del ragionare. Come educatori o siamo in grado di far prendere coscienza limpida di questa struttura desiderante dell'humanum o perdiamo il nostro tempo.
 
mons. Carlo Caffarra
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