Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore...
del 01 gennaio 2002
Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero - gli rispose Rabbi Eleazaro - voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”.
Questo può sembrare contraddire tutto quanto ho detto finora in queste pagine sull’insegnamento del chassidismo. Abbiamo imparato che ogni uomo deve ritornare a se stesso, che deve abbracciare il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare se stesso! Eppure basta prestare un po’ più di attenzione per rendersi conto che quest’ultimo consiglio non solo si accorda perfettamente con gli altri, ma si integra nell’insieme come un elemento necessario, uno stadio indispensabile, nel posto che gli compete. Basta porsi quest’unica domanda: “A che scopo?”; a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: “Non per me”. Perciò anche prima si diceva: cominciare da se stessi. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.
Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno. La risposta che riceve sembra nascere dalla convinzione che egli sopravvaluti eccessivamente la gravità dei propri peccati e che, d’altro canto, sminuisca altrettanto eccessivamente il valore della penitenza fatta fino a quel momento. Ma le parole pronunciate vanno oltre e, in modo assolutamente generale, affermano: “Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato a esercitare sul mondo. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare! “.
Dobbiamo innanzitutto capire bene cosa viene detto qui a proposito del ritorno. Sappiamo che il ritorno si trova al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo: ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo - in cui era sempre lui stesso la meta prefissata - trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. Il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie.
In una predicazione pronunciata all’apertura del Giorno dell’Espiazione, il Rabbi di Gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘Allontanati dal male e fa’ il bene”, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”. Ma l’insegnamento del nostro racconto va oltre: chi si fustiga incessantemente per non aver ancora fatto sufficiente penitenza si preoccupa essenzialmente della salvezza della propria anima e quindi della propria sorte personale nell’eternità. Rifiutando questo obbiettivo, il chassidismo non fa altro che trarre una conseguenza dall’insegnamento dell’ebraismo in generale. Uno dei principali punti su cui un certo cristianesimo si è distaccato dall’ebraismo consiste proprio nel fatto che quel cristianesimo assegna a ogni uomo come scopo supremo la salvezza della propria anima. Agli occhi dell’ebraismo, invece, ogni anima umana è un elemento al servizio della creazione di Dio chiamata a diventare, in virtù dell’azione dell’uomo, il regno di Dio; così a nessun’anima è fissato un fine interno a se stessa, nella propria salvezza individuale. E vero che ciascuno deve conoscersi, purificarsi, giungere alla pienezza; ma non a vantaggio di se stesso, non a beneficio della sua felicità terrena o della sua beatitudine celeste, bensì in vista dell’opera che deve compiere sul mondo di Dio. Bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo.
Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo. Ed è quanto il chassidismo rifiuta in modo assolutamente categorico, soprattutto quando si tratta di un uomo che ha trovato e sviluppato il proprio sé. Insegnava Rabbi Bunam: “Sta scritto: ‘E Kore prese . Ma cosa prese? Se stesso voleva prendere; perciò nulla di ciò che faceva poteva essere buono”. Per questo contrappose al Kore eterno il Mosè eterno, l’”umile”, l’uomo che, in quello che fa, non pensa a se stesso: “In ogni generazione ritornano l’anima di Mosè e l’anima di Kore. E se una volta l’anima di Kore si sottometterà di buon grado all’anima di Mosè, Kore sarà redento”. Così Rabbi Bunam vede in un certo senso la storia del genere umano in cammino verso la liberazione come un evento che si svolge tra questi due tipi di uomini: l’orgoglioso che, magari sotto l’apparenza più nobile, pensa a se stesso, e l’umile che in ogni cosa pensa al mondo. Solo quando cede all’umiltà l’orgoglio è redento, e solo quando questo è redento, il mondo a sua volta può essere redento.
Dopo la morte di Rabbi Bunam, uno dei suoi discepoli - il Rabbi di Gher, appunto, dalla cui predica per il Giorno dell’Espiazione ho citato alcuni brani - afferma: “Rabbi Bunam aveva le chiavi di tutti i firmamenti. E perché stupirsene? All’uomo che non pensa a se stesso si consegnano tutte le chiavi”.
E il più grande discepolo di Rabbi Bunam, colui che, tra tutti gli zaddik, fu il personaggio tragico per eccellenza, Rabbi Mendel di Kozk, disse una volta alla comunità riunita: “Cosa chiedo a ciascuno di voi? Tre cose soltanto: non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro agli altri, non pensare a se stessi”. Il che significa: primo, che ciascuno deve custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri; secondo, che ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi dal penetrarvi con un’indiscrezione impudente e dall’utilizzarlo per i propri fini; terzo, che ciascuno deve, nella vita con se stesso e nella vita con il mondo, guardarsi dal prendere se stesso per fine.
Martin Buber
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