Me l'aveva portato il Maresciallo una sera di nebbia e di pioggia: «Stava rubando una macchina! È uno dei vostri? ». Non era uno dei miei, ma lo conoscevo! «È uno tosto! Ha 15 anni ma già sa come comportarsi con la Legge: non vuol declinare le sue generalità. Dice di non sapere da dove viene, dice di essere di nessuno, dice di essere nessuno!».
del 04 gennaio 2008
Me l’aveva portato il Maresciallo una sera di nebbia e di pioggia: «Stava rubando una macchina! È uno dei vostri? ». Non era uno dei miei, ma lo conoscevo! «È uno tosto! Ha 15 anni ma già sa come comportarsi con la Legge: non vuol declinare le sue generalità. Dice di non sapere da dove viene, dice di essere di nessuno, dice di essere nessuno!».
Quando mi è arrivata la notizia della sua morte voluta, precipitandosi da un ponte su un orrido, ho subito pensato alla frase detta al Maresciallo: «Io sono di nessuno. Io sono nessuno!».
Noi, grandi e piccoli, abbiamo bisogno di appartenere a qualcuno, di essere di qualcuno che ci prenda a cuore, che ci voglia bene. Crescendo, non basta la famiglia: è importante il riferimento ad un gruppo, ad amici che continuino quella valorizzazione iniziata in famiglia nell’infanzia: «Io non so stare con gli altri. Sono figlia unica, i miei mi hanno sempre protetta. Sono cresciuta sotto una campana di vetro. Non mi è mai mancato niente ma, adesso, che sono nell’età degli affetti, non ho amicizie e invidio chi le ha».
Appartenere alla famiglia, va bene, ma anche appartenere al gruppo è importante, perché la famiglia non basta. Appartenere è uno dei bisogni fondamentali delle persone; il non appartenere fa sentire orfani, senza legami, senza tradizioni, senza memorie. L’appartenere aiuta ragazzi e ragazze a costruire la propria identità, a rispondere alla domanda, che avvertono nel profondo: «Chi sono io?».
È brutto sentirsi di nessuno! Il ragazzino che si è lasciato andare dal ponte in un burrone, voleva essere di qualcuno, invocava un’appartenenza. Raccontava che era solito scappare da casa per farsi ricercare dai suoi: «Scappavo nel bosco. A sera, quando scendeva il buio, mia mamma veniva alla finestra e mi chiamava ad alta voce. Io la sentivo ma stavo nascosto.
Mi dicevo: mia mamma mi vuole bene, se no, non mi chiamerebbe! Dopo un po’, si affacciava il papà. La sua voce mi metteva paura ma io la sentivo come gesto d’amore. Mi cerca, perché è preoccupato e me ne stavo sempre quieto nel mio nascondiglio. Poi il papà con i fratelli venivano a cercarmi nel bosco con delle pile, chiamandomi ad alta voce.
Allora uscivo dal cespuglio: “Sono qui!”. Mi saltavano addosso tutti, pestandomi. Avevano ragione, perché io ero scappato da casa e loro giustamente mi punivano!». Era veramente un povero ragazzo se doveva ricorrere a questi mezzi per sentirsi «parte» della famiglia! Ripetendosi gli episodi, venne giudicato matto quando non lo era o, se lo era, la sua era la pazzia di chi non apparteneva a qualcuno: nessuno perché di nessuno!
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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