La cultura di massa afferma l'esatto contrario: se vuoi essere felice, l'unico modo è vincere... La lezione di un campione. È la felicità che porta alla vittoria.
del 26 agosto 2008
Se l’atletica è la regina dei Giochi Olimpici, i nostri sono i principi e le principesse della fatica, dei tempi lunghi, della tenacia e della resistenza. Le uniche due medaglie ce le hanno regalate nella marcia – e la marcia sulle distanze più massacranti – una signora cuneese di 28 anni e un giovanotto altoatesino di 23. Poiché l’attitudine alla fatica non va mai in vacanza, quando smettono di marciare coltivano hobby che sono per lei l’alpinismo e lo sci, presumiamo di fondo, per lui il ciclismo, e poiché dalle sue parti di pianura ce n’è poca...
Quello di Elisa Rigaudo è un bronzo brillante quanto l’oro che si è messo al collo ieri mattina, quando in Italia neanche albeggiava, Alex Schwazer. Ma l’attitudine alla fatica, la perseveranza dell’impegno senza immediate gratificazioni e il perseguimento di un obiettivo lontano dai riflettori sembrano la costante di molti altri successi azzurri. Due canoisti trentenni, un veneto e un siciliano, hanno strappato un bronzo in una gara che consiste nel pagaiare come forsennati per mille metri, con i muscoli che gridano di smettere e lo sforzo che toglie il fiato.
Qualcuno dirà: evviva, finalmente in prima pagina va l’Italia normale. Chissà. Non sappiamo se la maggioranza degli italiani sia così, gente che non molla, che per un nobile obiettivo sa sacrificarsi senza alcuna garanzia di raggiungerlo, che al tutto e subito predilige l’essenziale a tempo debito. Sappiamo però che per la cultura di massa questi italiani sono la fastidiosa eccezione, non la norma. I modelli proposti a tutti – bambini ragazzi giovani adulti anziani – suonano ben diversi ritornelli. Beato chi ottiene il massimo risultato con il minor sforzo nel minor tempo possibile. Lo sport migliore è quello capace di renderti più ricco di soldi e di fama. Il campione da emulare è quello con lo stipendio più alto, e anche se è un po’ citrullo non importa, purché abbia successo. E così via. Questa è la 'normalità', tra virgolette di disapprovazione.
Eccezionale è invece Alex Schwazer da Vipiteno che dopo 50 chilometri di fatica conserva la lucidità di regalare ai giornalisti la frase probabilmente più memorabile dei nostri Giochi: non sono felice perché ho vinto, ma ho vinto perché sono felice. È uno stupefacente ribaltamento di prospettive, è lo smascheramento di uno dei grandi inganni del nostro tempo. La cultura di massa afferma l’esatto contrario: se vuoi essere felice, l’unico modo è vincere. Va da sé che molti, pur di vincere, sono disposti a tutto, assolutamente a tutto. Ma poiché non tutti possono vincere, un tale dogma finisce per creare una massa enorme di infelici, facile preda di altre promesse ingannevoli. Alex, con la saggezza dei suoi 23 anni passati a macinare chilometri silenziosi, non dice una frase fatta, letta da qualche parte. Dice ciò che ha imparato sulla sua pelle – sui suoi piedi – marciando e gareggiando. Se sei felice, allora vincerai. Vincerai sempre qualunque siano il tuo sport o la tua professione. Anche senza medaglie al collo, sarai un vincente dentro di te, con la tua vita. E chi avrà la fortuna di incontrarti percepirà la tua felicità e ne resterà contagiato, come è capitato a chi ha potuto vedere Alex entrare nel Nido d’Uccello, acclamato tanto quanto il velocista superman Bolt. Sarà perché i cinesi, loro sì, sanno apprezzare una Lunga Marcia...
Umberto Folena
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