Sabato Santo. Sì, l'erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l'albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l'alleluia...
del 04 aprile 2010
Cari fratelli e sorelle,
un’antica leggenda giudaica tratta dal libro apocrifo “La vita di Adamo ed Eva“ racconta che Adamo, nella sua ultima malattia, avrebbe mandato il figlio Set insieme con Eva nella regione del Paradiso a prendere l’olio della misericordia, per essere unto con questo e così guarito. Dopo tutto il pregare e il piangere dei due in cerca dell’albero della vita, appare l’Arcangelo Michele per dire loro che non avrebbero ottenuto l’olio dell’albero della misericordia e che Adamo sarebbe dovuto morire. In seguito, lettori cristiani hanno aggiunto a questa comunicazione dell’Arcangelo una parola di consolazione. L’Arcangelo avrebbe detto che dopo 5.500 anni sarebbe venuto l’amorevole Re Cristo, il Figlio di Dio, e avrebbe unto con l’olio della sua misericordia tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. “L’olio della misericordia di eternità in eternità sarà dato a quanti dovranno rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo. Allora il Figlio di Dio ricco d’amore, Cristo, discenderà nelle profondità della terra e condurrà tuo padre nel Paradiso, presso l’albero della misericordia”. In questa leggenda diventa visibile tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che ci è stato imposto. Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte: da qualche parte – hanno ripetutamente pensato gli uomini – dovrebbe pur esserci l’erba medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera fatalità – contro la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna. La vera erba medicinale contro la morte dovrebbe essere diversa. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza. Ciò che è nuovo ed emozionante del messaggio cristiano, del Vangelo di Gesù Cristo, era ed è tuttora questo, che ci viene detto: sì, quest’erba medicinale contro la morte, questo vero farmaco dell’immortalità esiste. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo allora viene portata pienamente alla luce.
A questo alcuni, forse molti risponderanno: il messaggio, certo, lo sento, però mi manca la fede. E anche chi vuole credere chiederà: ma è davvero così? Come dobbiamo immaginarcelo? Come si svolge questa trasformazione della vecchia vita, così che si formi in essa la vita nuova che non conosce la morte? Ancora una volta un antico scritto giudaico può aiutarci ad avere un’idea di quel processo misterioso che inizia in noi col Battesimo. Lì si racconta come il progenitore Enoch venne rapito fino al trono di Dio. Ma egli si spaventò di fronte alle gloriose potestà angeliche e, nella sua debolezza umana, non poté contemplare il Volto di Dio. “Allora Dio disse a Michele – così prosegue il libro di Enoch –: ‘Prendi Enoch e togligli le vesti terrene. Ungilo con olio soave e rivestilo con abiti di gloria!’ E Michele mi tolse le mie vesti, mi unse di olio soave, e quest’olio era più di una luce radiosa… Il suo splendore era simile ai raggi del sole. Quando mi guardai, ecco che ero come uno degli esseri gloriosi” (Ph. Rech, Inbild des Kosmos, II 524).
Precisamente questo – l’essere rivestiti col nuovo abito di Dio – avviene nel Battesimo; così ci dice la fede cristiana. Certo, questo cambio delle vesti è un percorso che dura tutta la vita. Ciò che avviene nel Battesimo è l’inizio di un processo che abbraccia tutta la nostra vita – ci rende capaci di eternità, così che nell’abito di luce di Gesù Cristo possiamo apparire al cospetto di Dio e vivere con Lui per sempre.
Nel rito del Battesimo ci sono due elementi in cui questo evento si esprime e diventa visibile anche come esigenza per la nostra ulteriore vita. C’è anzitutto il rito delle rinunce e delle promesse. Nella Chiesa antica, il battezzando si volgeva verso occidente, simbolo delle tenebre, del tramonto del sole, della morte e quindi del dominio del peccato. Il battezzando si volgeva in quella direzione e pronunciava un triplice “no”: al diavolo, alle sue pompe e al peccato. Con la strana parola “pompe”, cioè lo sfarzo del diavolo, si indicava lo splendore dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro, in cui si provava gusto vedendo persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo era il rifiuto di un tipo di cultura che incatenava l’uomo all’adorazione del potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna, alla crudeltà. Era un atto di liberazione dall’imposizione di una forma di vita, che si offriva come piacere e, tuttavia, spingeva verso la distruzione di ciò che nell’uomo sono le sue qualità migliori. Questa rinuncia – con un procedimento meno drammatico – costituisce anche oggi una parte essenziale del Battesimo. In esso leviamo le “vesti vecchie” con le quali non si può stare davanti a Dio. Detto meglio: cominciamo a deporle. Questa rinuncia è, infatti, una promessa in cui diamo la mano a Cristo, affinché Egli ci guidi e ci rivesta. Quali siano le “vesti” che deponiamo, quale sia la promessa che pronunciamo, si rende evidente quando leggiamo, nel quinto capitolo della Lettera ai Galati, che cosa Paolo chiami “opere della carne” – termine che significa precisamente le vesti vecchie da deporre. Paolo le designa così: “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose  del genere” (Gal 5,19ss). Sono queste le vesti che deponiamo; sono vesti della morte.
Poi il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente – simbolo della luce, simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo di Cristo. Il battezzando determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel Dio trinitario al quale egli si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce, dell’abito della vita. Paolo chiama queste nuove “vesti” “frutto dello Spirito” e le descrive con le seguenti parole: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).
Nella Chiesa antica, il battezzando veniva poi veramente spogliato delle sue vesti. Egli scendeva nel fonte battesimale e veniva immerso tre volte – un simbolo della morte che esprime tutta la radicalità di tale spogliazione e di tale cambio di veste. Questa vita, che comunque è votata alla morte, il battezzando la consegna alla morte, insieme con Cristo, e da Lui si lascia trascinare e tirare su nella vita nuova che lo trasforma per l’eternità. Poi, risalendo dalle acque battesimali, i neofiti venivano rivestiti con la veste bianca, la veste di luce di Dio, e ricevevano la candela accesa come segno della nuova vita nella luce che Dio stesso aveva accesa in essi. Lo sapevano: avevano ottenuto il farmaco dell’immortalità, che ora, nel momento di ricevere la santa Comunione, prendeva pienamente forma. In essa riceviamo il Corpo del Signore risorto e veniamo, noi stessi, attirati in questo Corpo, così che siamo già custoditi in Colui che ha vinto la morte e ci porta attraverso la morte.
Nel corso dei secoli, i simboli sono diventati più scarsi, ma l’avvenimento essenziale del Battesimo è tuttavia rimasto lo stesso. Esso non è solo un lavacro, ancor meno un’accoglienza un po’ complicata in una nuova associazione. È morte e risurrezione, rinascita alla nuova vita.
Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole. Per questo Paolo può dire ai Filippesi: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!” (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare. La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia: la vera vita. Noi siamo ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Così chiediamo, certi di essere esauditi, con la preghiera sulle offerte che la Chiesa eleva in questa notte: Accogli, Signore, le preghiere del tuo popolo insieme con le offerte sacrificali, perché ciò che con i misteri pasquali ha avuto inizio ci giovi, per opera tua, come medicina per l’eternità. Amen.
papa Benedetto XVI
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