I talenti non rappresentano tanto le capacità che Dio ha dato a ciascuno, quanto le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Dobbiamo fare la fatica di passare dalla paura e dall'obbedienza meschina alla prospettiva dell'amore che è senza calcoli!
del 11 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
Letture:
Proverbi 31, 10-13.19-20.30-31 1 Tessalonicesi 5,1-6 Matteo 25, 14-30           Domenica scorsa abbiamo ascoltato la parabola delle vergini “sagge e stolte”, attraverso la quale Gesù ci invitava a vigilare, essere attenti alla sua presenza e alla sua venuta. Il Regno di Dio è un incontro con il Signore che viene e dobbiamo avere la prontezza della vergine saggia che illumina la sua vita nell’attesa di questo incontro.
          A questa parabola fa seguito quella odierna che va sotto il nome de “la parabola dei talenti” (ho già ricordato in un altro contesto che il talento equivaleva a 35 chili d’oro!). I talenti non rappresentano tanto le capacità che Dio ha dato a ciascuno, quanto le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Difatti la parabola racconta che il padrone diede “a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno”
           I primi due servitori sono l’immagine della operosità e della intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Sono perciò definiti ‘buoni e fedeli’. Il terzo invece è pigro e passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a conservare e viene definito ‘cattivo e infedele’ e ‘buono a nulla’.
Il contrasto è quindi tra operosità e pigrizia, intraprendenza e passività.
Il ritorno del padrone segna la resa dei conti, il momento del giudizio che si fa ricompensa o castigo.
 
IL VERO RAPPORTO CON DIO
          Il servo buono a nulla ha una sua idea del padrone e cioè quella di un uomo duro che ‘miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso’. In una simile concezione di Dio c’è posto solo per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto. Il servo non intende correre rischi e mette al sicuro il denaro credendosi in tal modo a posto: può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo denaro: ti rendo quanto mi hai dato”. Sembra quasi che abbia ragione il servo e che la pretesa del padrone sia ingiusta o perlomeno eccessiva.
          E qui siamo chiamati in causa noi (io che scrivo e tu che leggi): dobbiamo fare la fatica di passare dalla paura e dall’obbedienza meschina alla prospettiva dell’amore che è senza calcoli (non si limita a consegnare quanto ha ricevuto), ma soprattutto è senza paura. “Nell’amore non c’è paura!” scriverà in una sua lettera l’Apostolo Giovanni e anche noi sappiamo per esperienza che la dove c’è paura non nasce un rapporto d’amore, ma di sudditanza o di servilismo. “Non vi chiamo più servi, ma amici!”.
           Il Dio della paura: è una goffa caricatura del Dio di Gesù Cristo purtroppo molto comune e circolante anche oggi. Si ritiene che Dio sia capriccioso, che dispensi, a seconda dell’umore, premi o castighi, grazie o disgrazie. Dio può essere benefattore o persecutore. Di fronte ad un Dio così imprevedibile si ha paura ed è bene tutelarsi. Come contro le disgrazie ci si tutela con una buona assicurazione, contro l’imprevedibile Dio ci si premunisce con l’osservanza della religione. Si compiono gesti di culto (la preghiera, la Messa, la confessione) non per amor di Dio (che vuol dire interesse per Lui, accoglienza della sua presenza nella vita, apertura filiale alla sua volontà di Padre!), ma per PAURA !!!!! Ritorna quella parolina tremenda messa sulla bocca di Adamo dopo il peccato: “Ho udito i tuoi passi nel giardino e ho avuto paura!” Si vive allora all’interno di un contratto nella speranza che Dio si accontenti, che non chieda di più!
Torniamo alla parabola.
          Il servo ‘infedele’ è come rimasto paralizzato dalla paura del rendiconto. Il timore lo ha reso inerte, incapace di correre qualsiasi rischio. Così è divenuto un burocrate pieno di scrupoli, ma senza intraprendenza. Allora ti accorgi che il punto di fondo è scoprire il vero volto di Dio: solo se conosci il cuore di Dio puoi vivere un rapporto d’amore, dal quale nasce il coraggio, la generosità, la libertà e lo spirito di iniziativa.
Inserita nel discorso del cap. 25 di Matteo (il discorso ‘escatologico’), ci dice che il servo vigile e fedele è colui che, superando il timore servile e una gretta concezione del dovere religioso, prende l’iniziativa di atti concreti, generosi e coraggiosi.
          Attendere il padrone significa assumere il rischio della propria responsabilità. Nel giorno del rendiconto, Dio non vorrà da noi semplicemente quanto ci ha dato, ma molto di più. E noi ogni giorno verifichiamo che anche nella vita è così: coloro che si assumono il rischio delle decisioni si aprono a prospettive sempre nuove, mentre chi si chiude in se stesso per paura e rifiuta le occasioni che gli si offrono, diviene sterile e sempre più inutile.
          Alla luce di quanto detto, assume una bellezza tutta speciale il brano della prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, eco fedele del Vangelo (che all’epoca non era ancora scritto come lo possediamo noi oggi!):”Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri!”
Notte e tenebre non sono sorelle della paura?
La luce è il colore del discepolo che da figlio vive sotto lo sguardo amoroso del Padre e lavora con vigilante operosità.
Don Gianni
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