In principio era san Filippo Neri. Poi venne santa Maddalena di Canossa e poi ancora san Giovanni Bosco. Per lunghi anni l'oratorio è stato il made in Italy della pastorale giovanile, la soluzione vincente per tenere un canale aperto tra la parrocchia e i ragazzi. Superati gli anni della crisi, oggi resta una realtà radicata e forte soprattutto nel Centro-nord della penisola, che fa i conti con la necessità di un maggior impegno laicale.
del 25 giugno 2008
«Lo lasci stare, non vede che è un mio amico?», diceva don Bosco al suo sacrestano che, con modi bruschi, scacciava dalla chiesa un giovane sconosciuto e dall’aspetto poco rassicurante. Era l’8 dicembre 1841, la chiesa era quella di San Francesco d’Assisi a Torino. Il ragazzo restò al suo posto. E anzi, a lui se ne aggiunsero altri. Cominciò così la realizzazione del sogno di don Giovanni Bosco, quello di riunire i ragazzi disagiati, spesso orfani e senza famiglia, e di offrire loro amicizia, istruzione, cammino di fede. Tre pilastri sui quali tutt’ora si reggono gli oratori. E non solo quelli dei salesiani o delle Figlie di Maria ausiliatrice. L’intuizione non era nuova. Già a metà del 1500 san Filippo Neri aveva creato una comunità di religiosi e laici, costituita poi in congregazione da papa Gregorio XIII, con la finalità di studiare la Bibbia e istruire i ragazzi. E ancora, nei primi dell’Ottocento Maddalena di Canossa accolse in casa le ragazze di strada di Verona e mise in piedi attività destinate anche a quelle di Venezia. Che si chiamassero oratori o scuole di dottrina cristiana, l’esperienza, destinata a continuare per i secoli futuri, era già partita.
Trasformandosi nel corso degli anni, per rispondere alle esigenze di una società in continuo mutamento, gli oratori esistono in tutte le regioni italiane, anche se in modo disomogeneo e a macchia di leopardo. Sono 6 mila in tutto, di cui 3 mila in Lombardia e Veneto e 1.500 nella sola diocesi di Milano. Poche decine, invece, si trovano in Calabria, circa 200 in Puglia, quasi nessuno in Basilicata. Questione di strutture, ma anche di mentalità e di rapporto con la comunità locale. Di impegno e capacità di spendersi totalmente per i ragazzi. «Perché gli oratori», confessa più di qualcuno, «sono una gran fatica. Il prete che se ne occupa non ha più neppure il tempo di far colazione. Per non parlare del gran baccano e dei tanti problemi che gli adolescenti comportano».
 
Motore di tutto sono i volontari. «Non c’è l’oratorio solo se c’è il teatro, il cinema, il campetto e l’aula del catechismo, ma se ci sono le persone che fanno le proposte ai ragazzi», dice don Massimiliano Sabbadini, presidente del Forum oratori italiani (Foi). In Italia sono almeno 250 mila i volontari che spendono il loro tempo, le loro energie, le loro risorse educative in maniera continuativa negli oratori. «Perché caratteristica dell’oratorio è la quotidianità. Catechisti, allenatori, responsabili delle varie strutture scandiscono giorno per giorno il loro impegno».
E i ragazzi raccolgono la proposta. Attualmente coloro che frequentano in modo stabile gli oratori, cioè almeno due volte a settimana, sono 1 milione e mezzo, il doppio se consideriamo anche la presenza saltuaria. Una mappa che è ben spiegata dal Foi, organismo promosso dalla Cei nel settembre 2001 e formato da quasi 40 membri responsabili di pastorale giovanile, istituti religiosi, associazioni, e federazioni di oratori. Tra i membri c’è la Caritas, l’Azione cattolica e il Centro sportivo italiano. Una rete che cerca di non disperdere l’esperienza e la tradizione di ciascuno, ma anzi di tracciare un minimo comune denominatore per valorizzare le risorse di tutti.
«In questi sette anni trascorsi dalla fondazione del Foi», aggiunge don Sabbadini, «abbiamo cercato di far dialogare le varie forme di oratori. Quelli delle diocesi, delle congregazioni religiose, le associazioni che vi partecipano. Forme diverse perché legate a tradizioni, esperienze, modi di presenza differenti». Ci sono però degli ingredienti presenti in tutte le forme di oratori: c’è una comunità cristiana di un certo territorio che mette a disposizione degli spazi fisici con delle attività, che comprendono sempre sia il tempo libero che la formazione cristiana, e con l’impegno di persone che spendono gratuitamente il loro tempo per realizzare le proposte».
Non dunque un generico luogo di aggregazione, ma uno spazio in cui la comunità ecclesiale si fa carico dell’educazione dei propri figli. Se un tempo l’oratorio era essenzialmente un modo per togliere i ragazzi dalla strada, oggi ha cambiato un po’ la sua fisionomia. Specchio dei tempi, che interagisce con il territorio e cerca di farsene carico. Con qualche difficoltà: «Perché», dice don Amerigo Barbieri, parroco della chiesa di San Giovanni Evangelista e per quasi vent’anni presidente del Centro oratori bresciani, «è diminuita la passione educativa delle comunità parrocchiali, siamo diventati più attenti agli eventi e non ci interroghiamo sul quotidiano, sul tipo di relazione che abbiamo con i nostri adolescenti, con i problemi che affrontano a scuola, con quelli del mondo del lavoro. Si fatica a reperire figure educative. Così come si fa fatica a prendere sul serio il vissuto delle famiglie, dei minori, degli adolescenti, a prendere sul serio l’attuale situazione antropologica, complessa ma interessante. Senza contare la diminuzione del numero di sacerdoti».
Proprio la mancanza di sacerdoti è una delle note dolenti e, a un tempo, anche una sfida, una possibilità in più per sperimentare la «corresponsabilità dei laici» di conciliare memoria. Lo sa bene don Diego Arfani, responsabile dell’oratorio San Luigi Gonzaga a Milano, nel quale presterà servizio fino a settembre. «Il mio ruolo», spiega don Diego, «è quello di tamponare. Sono responsabile a tempo. Vengo mandato di qua e di là, dove c’è bisogno e finché non si trova una soluzione stabile». Nel suo servizio trova l’aiuto di équipe quasi sempre ben affiatate e di persone che danno la disponibilità per il doposcuola, per stare con i ragazzi, per la catechesi.
Spesso don Diego lascia la responsabilità a un laico. Sono sempre di più, infatti, gli oratori che ricorrono ai laici. A Milano è la diocesi che gestisce la cosa, attraverso la Cooperativa Aquila e Priscilla. Se n’era discusso nel Sinodo diocesano del 1995 e, guardando anche all’esperienza del Nord Europa, il cardinale Carlo Maria Martini aveva insistito per un maggior coinvolgimento dei laici. «Si era anche raccomandato, però», aggiunge don Sabbadini, «di essere prudenti. Il nostro modello non è quello tedesco dei Pastoralreferentinnent. Per noi si tratta di formare e valorizzare, anche dal punto di vista economico, delle figure in grado di assumere una responsabilità di regia per gli oratori. Devono essere persone con una grande passione, che non svolgono un mestiere, ma che ricevono un aiuto economico per dedicarsi con più tempo a un’attività che richiede continuità di presenza. Soprattutto, deve essere una persona in grado di favorire la nascita di nuove vocazioni educative all’interno della parrocchia. La gratuità non viene meno perché il direttore d’oratorio è stipendiato, tutt’altro. La comunità riconosce che c’è un impegno che, per essere continuo, deve essere anche un po’ strutturato».
 
Un’esperienza analoga sta sorgendo a Pavia, mentre nel resto d’Italia sono direttamente le parrocchie che individuano il responsabile laico e lo sostengono economicamente. «I preti sono sempre di meno e sempre di più gli oratori mostrano, come è nella loro natura, l’indole di una buona regia educativa che ha il suo perno nell’insieme della comunità cristiana», aggiunge don Sabbadini. «Il prete ha sempre un ruolo importante, ma non da protagonista assoluto. In un buon oratorio c’è una cabina di regia dove un sacerdote, un consacrato, una consacrata e i laici aiutano le persone disponibili a capire il proprio ruolo, a organizzare le attività ludiche e sportive, a cercare il catechista educatore, ad animare gli spazi informali».
Niente è improvvisato, persino il barista è una figura educativa strategica e fondamentale e viene scelto con cura «perché il messaggio educativo passa anche attraverso il modo di stare al bar. Certo l’apporto del prete, nella direzione spirituale e nella confessione, è insostituibile, ma non è detto che debba essere sempre fisicamente presente in oratorio per poter offrire il suo servizio. Un buon oratorio, con laici responsabili, saprà avvalersi di un servizio del prete quando occorre, anche se esso non è fisicamente sempre presente».
Insomma, anche se i tempi cambiano, l’oratorio resta sempre un felice mix di quello che don Bosco chiamava «insegnamento della dottrina» e il divertimento. L’idea è che l’iniziazione di fede non sia solo nozione da apprendere, ma esercizio della vita cristiana. E l’oratorio, palestra di vita improntata proprio «a quello spartito che è il Vangelo». Palestra per la quale occorrono figure sempre più formate: «Se c’è una differenza tra ieri e oggi», insiste don Barbieri, «è nel fatto che oggi non basta più semplicemente togliere i ragazzi dalla strada. L’emergenza educativa non si affronta improvvisando, non basta la buona volontà e la generosità, ma ci vuole una qualificazione adeguata. Certo, questa non si sposa sempre e solo con i titoli accademici, anche se sempre di più ci sono educatori professionali».
«In oratorio», aggiunge don Sabbadini, «serve una pedagogia sapienziale, che non discende solo dal titolo accademico, ma che si esercita in una relazione quotidiana. Ci vuole la normalità del rapporto, non servono gli spot e gli eventi, perché finisce per restare scoperto il quotidiano. Bisogna stare in cammino con i ragazzi. Non è una cosa del sabato e della domenica, anzi è più feriale».
Un mutamento si registra proprio sui tempi dell’oratorio. Se una volta il momento di massima aggregazione era la domenica, oggi l’oratorio è frequentato tutti i giorni, anzi, maggiormente durante la settimana. «Andiamo a prendere i ragazzi e i bambini, su delega dei genitori, a scuola, li portiamo in oratorio e, dopo il momento della merenda, facciamo insieme i compiti», spiega Andrea Franchini, responsabile dell’oratorio della parrocchia di San Giovanni a Brescia. «I ragazzi passano da noi buona parte del tempo della settimana. Tra gioco, divertimento, catechesi e spazi di relazione informale vivono la loro quotidianità. La domenica, invece, sempre più spesso, i ragazzi vanno fuori con i genitori, recuperano una dimensione familiare che è difficile avere durante la settimana».
Più coinvolgimento dei laici, più ferialità e, oggi, più multiculturalità. Negli oratori italiani, infatti, si fa esercizio di dialogo. La maggioranza dell’immigrazione è cristiana, ma non mancano i piccoli musulmani che frequentano le parrocchie. A Brescia, l’oratorio di San Giovanni sorge a due passi da piazza della Loggia, in un quartiere con una massiccia presenza di immigrati. Sono 24 le nazionalità diverse che si incontrano in oratorio, che si trasforma così in un luogo informale di 'incontro dell’altro'. I ragazzi spesso aprono delle strade sulle quali, invece, gli adulti sono ancora rigidi.
Attenzione alle famiglie, cura dei minori, ascolto dei problemi del territorio. Una funzione sociale forte, che è stata riconosciuta anche giuridicamente con leggi sia regionali che nazionali. Nell’agosto 2003 il Parlamento italiano ha approvato una normativa in cui si usa proprio la parola «riconoscimento», cioè si prende atto di un soggetto che esiste già, non da creare appositamente. «C’è però il rischio», dicono alcuni, «che si riduca l’oratorio solo alla sua funzione sociale». Certo, questa esiste ma, come spiega l’associazione Noi Verona, «non c’è l’oratorio perché ci sono i problemi, ma c’è l’oratorio perché c’è una Chiesa che ha una sensibilità educativa».
Sensibilità educativa che fa certo i conti con la complessità della vita delle persone. «Anche su questo notiamo dei rischi», dice don Barbieri, «in particolare quello di delegare a degli esperti la risoluzione di tutto. Vediamo i problemi, ne capiamo la complessità e poi chiamiamo l’esperto di turno a risolverlo. Investire nella formazione degli educatori, come si sta facendo un po’ ovunque, non significa delegare a queste figure la conduzione dell’oratorio e la risoluzione di qualsiasi problema. Significa invece stimolare tutta la comunità a prendersi cura di se stessa e del territorio che la circonda».
L’aspetto fondamentale, comunque, resta quello di far diventare anche i ragazzi protagonisti. Protagonisti del gioco, con le tante attività promosse dal Centro sportivo italiano, protagonisti della loro stessa educazione, responsabili dei più piccoli. Durante l’estate sono sempre più numerosi i ragazzi che partecipano ai Grest (gruppi estivi) e che si preparano per animare gli oratori durante i mesi di chiusura delle scuole. «L’oratorio è una pastorale d’insieme che deve far crescere tutti. Non va delegata ogni cosa al direttore o all’educatore», aggiunge Ottavio Pirovano, uno dei primi responsabili laici di Aquila e Priscilla. «Certo, il responsabile deve avere competenze educative, teologiche, ma anche relazionali. Deve essere in grado di non coprire spazi che prima coprivano altri, ma di far crescere la corresponsabilità. Proprio il contrario della delega». Ne è convinto anche don Barbieri, che aggiunge: «In parrocchia si deve riprendere il gusto di dire: sono una comunità che educa, una casa accogliente. Non bisogna essere solo dispensatori di servizi. E gli oratori devono decidere che parte avere nella città. Se stare a guardare, commentare o partecipare. Non per custodire il nostro interesse, ma per promuovere il bene comune».
Annachiara Valle
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