Cantami o Diva del pelide Achille l'ira funesta...
Don Claudio Burgio nasce a Milano il 29 Maggio 1969, dopo gli studi classici, a ventuno anni entra nel seminario della Diocesi ambrosiana, dove completa la formazione filosofica e teologica.
L’8 Giugno 1996 è ordinato sacerdote, nel Duomo di Milano, dal cardinale Carlo Maria Martini.
Fondatore e presidente dell’associazione Kayrós che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti, don Claudio, dopo dieci anni di parrocchia, coinvolto nella pastorale giovanile degli oratori, diventa collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano.
Accanto all’attività pedagogica che lo vede impegnato quotidianamente con i ragazzi delle comunità, numerosi sono i suoi interventi in dibattiti ed incontri pubblici su temi sociali di attualità, su spiritualità, educazione, famiglia, tossicodipendenza, emarginazione giovanile.
E’ autore di “Non esistono ragazzi cattivi” (Edizioni Paoline, 2010), racconto-testimonianza dei primi anni vissuti a fianco dei ragazzi del carcere minorile e delle comunità Kayrós.
Appassionato musicista-compositore, scrive e pubblica “Una storia più grande di noi”, un lavoro discografico per la catechesi degli adolescenti che ha notevole diffusione in varie diocesi italiane.
Formatosi musicalmente già da giovane presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Milano, nel 2007 viene nominato direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano, la più antica istituzione musicale della città.
Proprio nella Cattedrale milanese don Claudio confessa e celebra l’Eucarestia.
Riportiamo di seguito un articolo apparso su Tempi, con un'intervista a don Claudio...
“Ciao sono Claudio, come ti chiami?”. “Cazzi miei”. Per qualche giorno lo chiamai così: “Cazzi miei vieni a giocare a pallone?”. Fino a strappare un sorriso e fino alle partite di calcio che aprirono la strada ad un rapporto. È racchiuso qui il “kayros”, il momento propizio, che spinse un giovane seminarista a vivere poi il suo sacerdozio con quelli che la società incasella come gli “scarti”, gli “irrecuperabili”. Quelli che al massimo si possono provare a contenere. Ma don Claudio Burgio, fondatore della comunità di accoglienza Kayros, aveva compreso già dal liceo, quando studente al Manzoni di Milano aveva accettato una proposta di volontariato, che quelli che «neppure i preti spesso vogliono in oratorio, sono un’occasione di felicità enorme». Una felicità sempre più sconosciuta al mondo, che non ha nulla a che fare con il benessere borghese, una gioia piena di croci, perché «è attraverso la perdita, l’esperienza del dolore che si apprezza il bene. Il limite riconosciuto e accettato non è ostacolo ma occasione di apertura, domanda e conoscenza. È il piacere del vivere», ha scritto anche in uno dei suoi libri, Non esistono ragazzi cattivi (edizioni Paoline, pp. 131, euro 12). Con i suoi occhi azzurri e pieni di una bontà normale, resa eccezionale solo dalla sua rarità, don Claudio apre a tempi.it le porte della sua casa a Vimodrone, dove vive con otto giovani in misura di custodia cautelare. Di fronte a noi altre due comunità in cui si passa al cosiddetto “regime di autonomia”.
Don Burgio, lei ha fondato questa opera, ormai presente a Milano e nell’hinterland, a soli 31 anni. Come ha fatto?
Sono entrato nel seminario di Venegono dopo le scuole superiori nel 1990, ma già da piccolo il rapporto con un sacerdote, che mi insegnò anche l’amore per la bellezza della musica, mi aveva fatto sorgere l’idea del sacerdozio. Ordinato, nel 1996, fui assegnato a una parrocchia di Lambrate dove, sollecitato dai giovani stranieri senza casa e da alcune famiglie amiche, avviammo una realtà di accoglienza. Il primo ospitato da una famiglia di amici oggi è un papà, lavora e ha 35 anni. L’esperienza ha poi contagiato il territorio milanese, allargandosi. Dal 2005 sono stato mandato ad aiutare don Gino Rigoldi al penitenziario minorile Beccaria ed è cominciata l’accoglienza dei minori in attesa di processo. Abbiamo quindi fondato Kayros, questo centro di Vimodrone che fa da punto di riferimento per le nostre comunità di accoglienza sparse sul territorio e che è aperto a tutto il paese, tanto che ci arrivano dai cittadini aiuti di ogni tipo.
Come riesce a recuperare questi ragazzi distrutti da una vita di fallimenti sociali e familiari?
Non so se li recupero, ma li educo. Educare non c’entra nulla con il “successo”, una categoria mondana che non ha nulla a che fare con il mio termine di paragone: il Vangelo. A Gesù hanno voltato le spalle in tanti e anche i suoi lo hanno tradito. Sempre guardando a Lui so che non sarò valutato su quanti ne ho “recuperati”, ma su quanta vita avrò dato lì dove sono chiamato. L’educazione non è nient’altro che questo: consegna di sé. Certo, studio e mi aggiorno, eppure non è una tecnica a guidarmi, ma la ricerca del senso della vita. È facendo e rimettendosi sempre in discussione che si impara ad educare, cioè a consegnare questo senso della vita e della morte ai giovani. I quali, appunto, possono accettarlo o rifiutarlo: non c’è automatismo perché c’è sempre di mezzo una libertà, sebbene questa vada continuamente sollecitata.
Se educare è un mestiere per tutti, allora perché tanti adulti non sanno più farlo?
Per tre motivi: siamo individualisti, siamo autoreferenziali e abbiamo paura della morte. Uso il plurale perché innanzitutto è così nella Chiesa. È così per tanti preti. Il primo motivo si riscontra nell’isolamento della famiglia o dell’educatore, magari anche geniale o di buona volontà, ma che senza una rete arriva solo fino a un certo punto. I giovani, infatti, hanno bisogno di imparare dalla comunione degli adulti, di vedere che c’è un luogo a cui si possono affidare. Invece, quel che si respira ovunque, anche negli oratori, nella pastorale giovanile e in quella familiare, è un’autoreferenzialità asfissiante. Anziché aprirsi agli ambiti giovanili o attingere le forze da quelle realtà che li sanno educare, ci si chiude nel già saputo. Non c’è nemmeno collaborazione fra pastorale e università, manca poi la preoccupazione per una cultura nuova che giudichi ogni aspetto della vita. Dall’altra parte, spesso si propone una formazione priva di azione e di impegno concreti nella realtà. Il secondo motivo è appunto la paura della morte, la malattia del nostro tempo. Quanti genitori adolescenti con il terrore di invecchiare incontro nell’esperienza del Beccaria! Questo fenomeno è il frutto del tabù per cui nessuno insegna più che la vita è un passaggio in funzione dell’eternità. A partire da noi preti, che non predichiamo queste verità. I genitori sono poi più preoccupati di piacere che di amare, quindi fanno gli amici e non sanno dire “no”. Eppure i ragazzi mi confessano che di amici ne hanno già e che vorrebbero che mamma e papà si comportassero da adulti. Ecco perché molti di loro cercano i nonni che trovano più credibili.
Lei teme molto le proposte tiepide che non possono bastare ai giovani.
Paradossalmente trovo una domanda di fede più vera fra i ragazzi del Beccaria che fra quelli allevati in oratorio e con cui ho passato nove anni. Abbiamo tanti spazi ma non accogliamo chi potrebbe rimetterci in discussione, ravvivando la nostra fede. Non parlo di fare assistenzialismo, ma di educare appunto: non possiamo ridurci a fare qualche giorno di convivenza o a fare la raccolta degli indumenti per la Caritas. Belle esperienze, per l’amor del cielo, ma cosa c’entrano con la domanda profonda di ogni giovane e di ogni uomo? Se non rispondono a questo le iniziative non servono a crescere e quindi non incrementano nemmeno la fede. Quando parlo di cultura nuova, dico che occorre giudicare ogni cosa alla luce del suo significato. Ad esempio oggi il tema della corporeità, dell’amore e del piacere sono banditi. Ma se il mondo insegna ai giovani la falsità in questi ambiti cruciali e noi ci accontentiamo di aggregare, o di risolvere la questione con un corso di educazione sessuale, li abbiamo persi, nel senso che saranno persi come tutti, pur stando in oratorio.
Nel suo libro scrive che ad ogni ragazzo nuovo che ospitate corrisponde una perdita di sé e poi sostiene che occorre “sporcarsi le mani”, al contrario di chi predica la necessità di mantenere una distanza. Come non temere di entrare nell’abisso dell’altro e di sacrificarsi?
Ospitare è una perdita, perché è come un figlio che nasce, gli darai uno spazio e il tuo tempo per sempre. Ma non bisogna avere paura perché non c’è nulla di più bello che diventare padri. Farsi carico della sofferenza e del dolore degli altri, significa poi scoprire le tue sofferenze e i tuoi dolori, presenti in te in modo diverso. E questo ti costringe a chiederti continuamente: “Chi sono io? Perché sono al mondo?” e quindi a ritrovare la tua vera identità, quella di uomo bisognoso di essere salvato. Quindi educando vengo educato, dando e sacrificando ricevo. Penso ad esempio a quando in cella i ragazzi mi sfidano chiedendomi cosa voglia dire la resurrezione: lì le risposte preconfezionate non reggono, sono costretto a ricercare Cristo e quindi a rimettermi a pregare, cioè in cammino, e a chiedere aiuto: ritorno vivo, mentre si aprono scenari inediti. Si capisce perché la felicità nasce dal dolore preso su di sé.
Lei lo chiama addirittura “piacere del vivere” perché è convinto che senza croce non ci sia soddisfazione. Può spiegarci?
Il dolore è un’occasione di crescita e non un ostacolo al piacere di vivere. Infatti l’opposto della felicità non è la sofferenza ma la noia che, come educatore e padre, mi preoccupa di più. I giovani che incontro sono fragili perché non hanno imparato questo e hanno il terrore di guardare ai propri limiti e fragilità, perché temono che generino esclusione. È solo quando un ragazzo accetta le sue debolezze, uscendo dal delirio di onnipotenza dell’io narcisista contemporaneo, che diventa un uomo e cambia. Attenzione, non basta solo ammettere di avere sbagliato, bisogna versare delle lacrime per cambiare. Chi non arriva fin qui spesso reitera il reato. Al contrario, succede come a un ragazzo che ha fatto sette rapine: dopo aver chiamato peccati i suoi atti, ha preso la licenza superiore e quest’anno ha ricevuto la cresima.
Spiega, infatti, che non esiste espiazione senza recupero della coscienza. Come conciliare misericordia e giustizia?
La giustizia è necessaria, prepara a ricevere la misericordia anche se da sola non basta. Al Beccaria vedo giudici che esercitano bene la loro funzione, anche perché l’Italia dal punto di vista della giustizia minorile è all’avanguardia (per questo sono contro il ddl che vuole abolire i tribunali per i minori). Ma se la giustizia umana pone le basi per il cambiamento, quando fuori dal carcere non ti aspetta nessuno è facile ricadere. Quindi il carcere è uno strumento fondamentale ma poi serve un’accoglienza educativa.
Cosa pensa della legalizzazione della cannabis e del libertinismo sessuale, ormai predicati come un diritto dallo Stato?
Conosco i danni della marijuana e proprio ora ospito un ragazzo schiavo della prostituzione omosessuale dilagante che ha cominciato per soldi e che non riesce a uscirne. Come la droga, è una vera propria compulsione. Di fronte a questo libertinismo, sostengo che le regole e i limiti sono necessari ad aiutare la libertà ad indirizzarsi. Soprattutto quando si tratta di giovani che non hanno una coscienza formata. Le regole qui in regime di custodia cautelare, ad esempio, sono necessariamente ferree (non ci sono cellulari, non si può uscire, si lavora…), anche se da sole non sarebbero sufficienti senza una proposta significativa. L’adesione formale lascia infatti il tempo che trova e, anzi, può produrre ribellione. Sono contro atteggiamenti come questi: “Se non fai così non ti permetto di” o “se fai il bravo ti concedo questo”, perché non reggono. A chi non è più bambino bisogna comunicare il senso di un “no” a cui corrisponde un “sì” più grande. Lo stesso vale per la sessualità: se ai giovani non si spiega l’amore come donazione, se non nasce una nuova cultura delle relazioni, non solo detta ma vissuta dagli adulti, i giovani rimarranno impauriti e pieni di sfiducia. Non si consegneranno mai a relazioni durature, ripiegando sul surrogato di un piacere momentaneo che non soddisfa il loro desiderio di totalità. D’altronde, perché impegnarsi se i grandi sono i primi a non donarsi e a negare cinicamente la possibilità del “per sempre”?
Cosa accade quando incontrano uno come lei, che vive donandosi. Non li spaventa la sua vita?
Mi ricordo un ragazzo che mi disse: «Tu hai una sola vita e l’hai regalata a noi». L’essere prete che rinuncia alla donna e ai figli carnali per questi ragazzi è un segno che parla da sé. Anche la suora che ci aiuta veste l’abito, sebbene ci chiesero se preferissimo che si vestisse da laica. Quando mi presento a loro, mi presento sempre come don Claudio. Ma capiscono anche che il mio non è un ruolo, che non sto con loro per esercitare un potere o per tirarli a me. Ripeto, io sto qui per camminare con loro. Per questo a volte mi chiamano solo “Burgio”: si crea così una fiducia che pone le basi alla domanda su Dio e all’incontro con Lui. “Perché lo fai? Cosa ti rende così?” e si comincia a discutere di tutto quello che interessa la loro vita, riconducendolo al suo significato. In questo modo, parlando di tutto, parlo loro di Dio. Un ragazzo che mi vide commosso davanti alla morte di Giovanni Paolo II mi diede un bacio in fronte e una carezza. Fu la prima volta che quel giovane, davanti al dolore e alla fragilità, non reagì infierendo.
Il primo ragazzo che ha incontrato era un bullo del Giambellino che affermava la sua identità facendo il duro. Come si esplicita oggi il disagio giovanile?
Fino all’anno scorso hanno abitato qui due marocchini. Con uno in particolare nacque un dialogo profondo, aveva dentro un’esigenza di verità, di purezza, di identità radicali. Quando arrivarono a Kayros ricordo che si coprivano il volto vergognandosi delle scene sconce in televisione a cui noi siamo ormai assuefatti come fossero normali. Dopo un po’ abbracciarono lo stile di vita consumista, uno dei due “si faceva” davvero di tutto. Ma la delusione fu così grande che quando passarono in regime di autonomia, nel giro di quattro mesi partirono per la Turchia in aereo e atterrati presero un autobus per la Siria. Uno di loro prima di farsi esplodere mi scrisse questo sms: “Ciao Don, stammi bene, grazie di tutto, che Dio ti illumini, ci vediamo in paradiso”. Era stato convinto dalla propaganda islamista, come si vede dai suoi accessi ad internet. Ma questa ha fatto leva su un grande bisogno di eterno, che frustrato dall’Occidente consumista glielo ha fatto odiare. Ma lo stesso vale per il bullismo imperante, che si cerca di risolvere come se fosse un problema di aggressività mentre nasce dalla ricerca di una identità forte. Quella che non si è ricevuta e che si prova a scovare nella moda e nel gruppo da cui si desidera essere accettati e riconosciuti. Ma torno ai miei due amici marocchini per dire che sono ferito, ho pianto e ho capito ancora una volta che un cristianesimo soft è quanto di peggio possiamo offrire. Se questi giovani scoprissero la radicalità del Vangelo, che invece noi additiamo come il problema, e che quindi temiamo di comunicare, l’Isis come lo sballo estremo non farebbero tanta presa. Domando: ma la fede cristiana che proponiamo, quale meta radicale offre? Che cosa chiede a chi intercetta? Perché, come dimostrano i ragazzi, ogni giovane aspetta qualcuno che gli chieda di dare la vita.
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