Assassinato il vicario apostolico dell'Anatolia. «La mia impressione è che ancor oggi in Turchia si nutrano atteggiamenti di paura che trovano sostegno nella storia passata, quando la religione...». Riportiamo un suo intervento sulla realtà turca, tra islam e dialogo...
del 03 giugno 2010
 
 
Quest’oggi monsignor Luigi Padovese, milanese, è stato assassinato nella città turca di Iskenderun. I sospetti si concentrano sul suo autista. Biblista, esperto di San Paolo, è stato consultore per la Congregazione delle cause dei santi e preside della Pontificia università Antonianum di Roma.
 
 
 
In un intervento pubblicato su «Mondo e Missione» nel maggio 2007, si definiva «amico e innamorato della Turchia» e metteva in guardia dalla strumentalizzazione dell’islam a fini politici e nazionalistici.
 
Monsignor Padovese, inoltre, nello stesso articolo, mentre giudicava «impossibile» il dialogo teologico con l’islam, auspicava «uno sforzo comune per un maggior rispetto, frutto di una chiarificazione di pensiero e di approfondita conoscenza reciproca» tra cristiani e musulmani.
 
Dopo l’uccisione del missionario italiano don Andrea Santoro e del giornalista armeno Hrant Dink, Padovese denunciava «le notizie allarmistiche che compaiono su alcuni giornali nazionali» secondo le quali «sembrerebbe che la Turchia sia invasa da legioni di missionari, mentre in realtà si tratta di un manipolo di poche persone, prevalentemente protestanti». Al contempo il vicario oggi assassinato segnalava che «le antiche Chiese presenti in Turchia per tradizione hanno rinunciato o addirittura sono contrarie a un’attività missionaria vera e propria».
 
Di origini milanesi, mons. Luigi Padovese, francescano cappuccino, è stato per lunghi anni un frequentatore appassionato della Turchia come ricercatore e docente di patrologia, nonché consultore per la Congregazione delle cause dei santi e preside della Pontificia università Antonianum di Roma. In tale veste è stato animatore di oltre venti simposi di studio su san Paolo (a Tarso) e su san Giovanni (a Efeso). Ha scritto articoli su riviste specializzate e su quotidiani. È autore di numerosi studi e di importanti volumi, tra i quali Turchia. I luoghi delle origini cristiane (1987), Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli (1988), I sacerdoti dei primi secoli (1992), Introduzione alla teologia patristica (1992), Cercatori di Dio. Sulle tracce dell’ascetismo pagano, ebraico e cristiano dei primi secoli (2002). Dal novembre 2004 è vescovo e ricopre l’incarico di vicario apostolico per l’Anatolia, dove ha sostituito mons. Ruggero Franceschini, passato alla guida della diocesi di Smirne.
 
 
Riportiamo un suo intervento
 
Obiettivo pluralismo
di mons. Luigi Padovese
 
Il dibattito sulla laicità dello Stato si intreccia con la richiesta di maggior democrazia e confronto. In ambito religioso e non solo...
 
Su invito del Gruppo amici di Antiochia e del vescovo locale, Antonio Mattiazzo, mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, ha tenuto un incontro lo scorso 12 febbraio a Padova, nel corso del quale ha parlato, da «amico, innamorato della Turchia», della situazione del Paese, della libertà religiosa, dei cambiamenti sociali in atto. Il tutto a pochi mesi dalla storica visita di Benedetto XVI.
 
I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea hanno provveduto a sostenere le piccole riforme verso una maggiore democraticità e una effettiva libertà religiosa. L’adesione all’Unione Europea troverà il suo compimento quando nel Paese si diffonderà la convinzione che si può essere buoni cittadini turchi anche se si è cristiani, aleviti o appartenenti ad altra confessione che non sia quella sunnita. Se, in altre parole, il nazionalismo turco che ha dato unità a questo Paese sarà in grado di convivere con il pluralismo di espressione. Insomma, quando in Turchia la laicità dello Stato, voluta da Atatürk, non rimarrà una pura affermazione di principio, ma si saprà integrare democraticità con pluralismo, dal momento che è proprio il pluralismo a definire la democrazia.
 
La mia impressione è che ancor oggi in Turchia si nutrano atteggiamenti di paura che trovano sostegno nella storia passata, quando la religione è stata «usata» per rafforzare l’identità etnica e politica o per ragioni d’ordine economico.
Sono dell’avviso che dietro l’assassinio di don Andrea Santoro, dietro attentati, percosse, intimidazioni verificatisi in questi ultimi mesi contro sacerdoti e religiosi cattolici, ci siano sostenitori del binomio «buon turco uguale musulmano sunnita». Visto in questi termini, l’auspicato ingresso in Europa da parte di molti turchi si scontra contro la volontà di gruppi nazionalistici e fanatici che vedono in esso una diminuzione o una perdita del loro potere o - comunque - un pericolo per l’identità turca. È doveroso ribadire, però, che si tratta di cerchie ristrette, per lo più di giovani, oltre che di potenti lobby che, a mio avviso, stanno perdendo di consenso nell’opinione pubblica, remando controcorrente. A conferma, riporto tre esempi.
Il primo è legato al monitoraggio della stampa locale. Una rassegna quotidiana di una parte considerevole di quotidiani turchi conferma l’esistenza di questi centri «poco-occulti» di potere che fanno valere lo «spauracchio» inconsistente del proselitismo, dei missionari che cercano di «comperare» nuovi fedeli, visti come un fenomeno di destabilizzazione politico e religiosa di questo Paese. Stando alle notizie allarmistiche che compaiono su alcuni giornali nazionali, sembrerebbe che la Turchia sia invasa da legioni di missionari, mentre in realtà si tratta di un manipolo di poche persone, prevalentemente protestanti, dal momento che le antiche Chiese presenti in Turchia per tradizione hanno rinunciato o addirittura sono contrarie a un’attività missionaria vera e propria.
Mi lascia perplesso l’infondatezza o addirittura la falsità delle informazioni che si leggono sui giornali. Evidentemente, crearsi dei nemici rimane un modo per compattare islamici e nazionalisti, ma è anche spia di una certa debolezza. Non va dimenticato che, a proposito di don Andrea Santoro, l’accusa del tutto infondata comparsa su alcuni giornali era che desse denaro per convertire al cristianesimo. Al riguardo, nei mesi scorsi ho dovuto assumere a tempo pieno un avvocato per ribattere a un insieme di menzogne che avvelenavano il clima nei nostri confronti. Ho condiviso pienamente il rilievo della moglie di Hrant Dink, il giornalista ucciso, al primo ministro Erdogan: se si fosse lavorato più seriamente sull’assassinio di don Andrea sarebbe emersa una trama di complicità che - come ho sempre detto, lamentandomi - è rimasta del tutto ignorata. Ma anche in Turchia sono di casa omertà e paura. Chi si espone, rischia.
Un secondo fatto da registrare positivamente: l’insuccesso della manifestazione contro la visita del Papa. All’incontro tenutosi giorni prima a Istanbul, gli organizzatori pensavano di raccogliere un milione di dimostranti. Di fatto sono state poche decine di migliaia (sembra circa 30 mila). Il viaggio di Benedetto XVI s’è poi svolto con successo. Gli allarmismi delle settimane precedenti, non privi di fondamento, hanno lasciato il posto a un’accoglienza che, a mio avviso, è stato un segnale positivo. Il Santo Padre, con un atteggiamento dimesso, cordiale e conciliante ma al tempo stesso franco, ha eluso ogni possibile strumentalizzazione, e anzi ha fatto svanire le critiche antiturche e anti-islamiche che gli erano state attribuite. Da quel momento la stampa ha cambiato tono nei suoi confronti e si mostrerebbe addirittura impopolare se continuasse sullo stesso registro.
 
Infine, un terzo fatto: l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, originario di Trabzon, amante della Turchia ma tenace oppositore del nazionalismo turco, bieco e violento. Il suo funerale a Istanbul, al quale hanno partecipato oltre 100 mila persone, è stato un trionfo, un segnale della volontà popolare di farla finita con un nazionalismo che limita la libertà di opinione e, evidentemente, anche la libertà religiosa. Era bello vedere durante il funerale numerosi cartelli sui quali era scritto «Io sono armeno», «Tutti siamo armeni».
L’opinione pubblica si sta lentamente convincendo che è necessario dare una svolta. Le prime avvisaglie si sono avute nella deposizione del capo della polizia e del prefetto di Trabzon per le loro dichiarazioni minimizzanti il delitto, ma anche nelle dichiarazioni del primo ministro Tayyp Erdogan e di altri ministri, i quali si sono detti favorevoli a modificare l’articolo 301 del codice penale turco, che persegue penalmente chi lede l’onore della nazione turca. Ancora oggi, infatti, è passibile di condanna al carcere chi in Turchia parla di genocidio armeno. I tentativi di portare alla luce quanto è avvenuto nei primi decenni del Novecento, se da un lato trovano l’ostilità dei nazionalisti turchi, dall’altro non riescono a contrastare quanti, sempre più numerosi, non accettano più i diktat di una censura e di un potere giudiziario, in parte sostenuto da militari e da intellettuali kemalisti. Si pensi allo scrittore Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, sotto processo, assieme all’ormai defunto Hrant Dink e ad altri tre giornalisti, per diffamazione della nazione turca. Veramente sembra - come ha scritto Mariagrazia Zambon - che «la società turca cominci a confrontarsi con la propria storia, con i tabù e le reticenze dell’ideologia ufficiale. Qui c’è in gioco non tanto il passato, ma il futuro della Turchia». A questo punto ci si può domandare: che cosa può fare un vescovo in Turchia? Personalmente ho individuato alcuni significativi ambiti di azione. A parte l’impegno di tutelare i diritti delle comunità cattoliche, credo che un dialogo con il mondo culturale turco sia un fruttuoso campo di lavoro. A questo proposito già da diversi anni, in qualità di preside della Pontificia università Antonianum di Roma, ho organizzato dei simposi su san Giovanni e san Paolo, rispettivamente a Efeso e a Tarso, con la presenza di professori turchi. Da un paio d’anni questi incontri si sono svolti in collaborazione con l’università Mustafa Kemal di Antiochia. Il mondo accademico turco sente il bisogno di scambi culturali. Non è fuori luogo osservare che in ambito universitario le persone che ho trovato più aperte sono quelle che hanno studiato all’estero.
Un altro ambito di lavoro riguarda i rapporti con il mondo ortodosso. Particolarmente al sud, dove mi trovo, i rapporti tra le diverse Chiese vanno oltre la cordialità formale. Tanto per citare un esempio, ricordo che i cattolici d’Antiochia da qualche anno celebrano la Pasqua assieme agli ortodossi. In una realtà complessa dove cristiani ortodossi, cattolici latini, armeni, melchiti, maroniti, caldei e siro-ortodossi si sposano tra di loro, non ha senso mantenere steccati di separazione. A chi m’ha detto che la Chiesa latina deve evitare di fare proselitismo tra i non cattolici, ho detto e ripetuto che la nostra vuole essere un’opera di supplenza e di aiuto, non di conquista.
C’è inoltre un altro ambito di lavoro che ho individuato nei primi mesi della mia permanenza in Turchia: riguarda quelle famiglie passate all’islam nel secolo scorso non per convinzione, ma per sfuggire a vessazioni e a discriminazioni. La memoria dell’originaria appartenenza cristiana ha fatto sì che alcuni, i cui nonni erano cristiani, siano divenuti catecumeni e siano stati battezzati. Tenendo presente che all’est e al nord della Turchia i discendenti di antiche famiglie cristiane sono centinaia di migliaia, ritengo che il cambiamento sociale e politico in atto, per quanto lento, possa produrre in molti un ritorno alla fede dei padri.
Un discorso a parte merita il rapporto con l’islam. Credo che un dialogo a livello teologico sia impossibile, mentre è possibile lo sforzo comune per un maggior rispetto, frutto di una chiarificazione di pensiero e di approfondita conoscenza reciproca. In questo senso il 25 aprile del 2002 è stata sottoscritta in Vaticano una dichiarazione di comuni intenti tra il presidente dell’Ufficio per gli affari religiosi di Turchia e il presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
In rapporto al superamento di pregiudizi e alla chiarificazione di pensiero, e muovendomi sui passi di don Andrea Santoro, con il contributo della regione Lazio, stiamo dando vita a Iskenderun a un centro per la promozione del dialogo interculturale e interreligioso. In maggio dovremmo tenere un primo incontro islamo-cristiano su «La parola di Dio nel cristianesimo e nell’islam».
Certo, i passi da fare in questo ambito sono molti, perché è grande la distanza che separa le due religioni. Si potrebbe chiarire come la dottrina della filiazione divina non compromette l’unicità di Dio e il monoteismo. Da parte nostra è però necessario conoscere alcuni aspetti del pensiero islamico per evitare facili irenismi. Occorre anzitutto sapere che l’islam si considera la rivelazione ultima, più completa e più razionale. Ne consegue che quanti non la seguono sono su un piano di netta inferiorità; diventare cristiano, per un musulmano, significa regredire a uno stato inferiore. Stando così le cose, richiedere la reciprocità in rapporto alla libertà religiosa è un’utopia. La potrà richiedere un islamico in un Paese cristiano, ma non l’inverso. Concretamente la libertà di coscienza non esiste nell’islam e l’esercizio delle altre religioni non è libero, bensì tollerato.
Per ebrei e cristiani Dio ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza». Per l’islam ciò appare un’assurdità, perché contrasta con la trascendenza assoluta di Dio. In effetti, questo versetto del Genesi non compare nel Corano, che pure riporta l’episodio biblico della creazione. La ragione è che Dio non può uscire dal suo isolamento. Il confine tra Dio e l’uomo rimane invalicabile con la conseguenza che il primo «è troppo trascendente per poter amare ed essere amato». Soltanto i mistici sufi - presumibilmente per influenze cristiane - «hanno messo l’accento sull’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio».
 
Un’altra conseguenza riguarda il concetto di dignità dell’uomo, che per cristiani ed ebrei si fonda a partire da questa dottrina biblica di essere a immagine e somiglianza di Dio. Tanto per esemplificare, osserviamo come la lotta per il riconoscimento della dignità e libertà umana abbia trovato in ambito cristiano motivazioni e impulsi profondi a partire dalla «parentela» intrecciata da Dio con l’uomo (maschio e femmina!) e restaurata in Cristo. Le teologie che intendono liberare l’uomo dalle diverse schiavitù dei nostri giorni non trovano forse il loro fondamento ultimo nel testo del Genesi (1,26): «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza?» (cfr R. Arnaldez, Gesù nel pensiero musulmano, Paoline, Cinisello Balsamo, Mi, 1990). Non così per l’islam, che trae tutta la sua normativa dal Corano. Proprio considerando questa vicinanza tra Dio e l’uomo, mediata poi da Cristo, si capisce come l’etica cristiana primitiva si configura più come risposta nella fede a questo Dio inteso come partner che non come adeguamento a una norma. La cosa risulta tanto più chiara se si osserva che tra i 99 titoli riservati a Dio nell’islam manca quello di Padre e, dunque, manca un principio ispiratore della morale personalista cristiana. 
 
mons. Luigi Padovese
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