Padre Pino Puglisi. Padri, padroni e padrini

Sarà beato il parroco di Palermo martirizzato dai mafiosi. Padre Pino Puglisi è martire perché in lui è compiuta l'immagine della Paternità di Dio, quel Cristo che lo Spirito scolpisce nella pietra informe e indocile di ciascuno di noi.

Padre Pino Puglisi. Padri, padroni e padrini

da Testimoni della Fede

del 29 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

 

         Non è la morte, ma la causa della morte a fare il martire. Padre Pugli­si è stato ucciso il 15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno, proprio per­ché i fratelli Graviano, capi mafiosi del quartiere Brancaccio, già complici dei Corleonesi negli attentati a Falcone e Bor­sellino, non tolleravano che Padre Pino facesse il prete: sottraeva consenso ai pa­drini della terra e lo indirizzava al Padre celeste. Palermo è una città in cui le pa­role purtroppo hanno spesso il massimo della loro estensione possibile: si pensi a parole come 'famiglia', 'onore', 'padre'.

          Ogni parola importante, come ci ha in­segnato Dante, si estende dall’Inferno al Paradiso in un crescendo che va dall’or­rore del ribaltamento della parola stessa, al suo pieno compimento. Basti pensare alla parola 'padre', che nella Commedia troviamo nel dannato più dannato di tut­ti, per questo più in fondo di tutti: Ugoli­no, un padre che muore con i suoi figli, o meglio un padre che dà la morte ai suoi figli. Egli, causa della loro reclusione nel­la torre da parte del vescovo Ruggeri (al­tro padre che ha sovvertito il suo ruolo ed è condannato con Ugolino in un ban­chetto cannibalistico), invocato dai suoi figli che chiedono pane, tace: non ha pa­ne, né parole. I figli, sopraffatti dal dolo­re del padre, arriveranno a chiedergli di cibarsi dei loro corpi, dal momento che è lui ad avere donato la carne di cui sono fatti, quella carne gli ap­partiene. I figli vorrebbe­ro dare la vita al padre, invertendo l’ordine na­turale delle cose. Trage­dia della paternità è quella di Ugolino: un pa­dre che sovverte la sua paternità e finisce con il divorare – lasciando in­tatta l’ambiguità dell’ef­fettivo banchetto filiale – le carni dei suoi figli. È un padre che invece di dare la vita la toglie, è un pa­dre che invece di rende­re liberi, imprigiona; è un padre che invece di par­lare, tace; è un padre che invece di imbandire la tavola con il pane, banchetta con le carni dei figli. Non è un padre, ma un padrone carnefice, come i padrini.          All’altro polo – rispetto a quello infernale – della parola 'padre', trovia­mo il Padre del cielo, passando per tutte le sfumature di paternità che Dante met­te in campo e che ne sono la manifesta­zione da Virgilio a Bernardo. Il Padre che Dante incontra faccia a faccia nell’ultimo del Paradiso è un Padre che dà la vita, che imbandisce il banchetto eterno dove il pane non finisce mai e non va guada­gnato dai figli, né deve essere da loro ri­chiesto, perché è donato, prima ancora di qualsiasi merito o richiesta, gratuita­mente e infinitamente. Questo Padre ren­de liberi e dà la vita: Dio è Creatore per­ché Padre. La vicenda di Padre Pino Puglisi, come la Commedia dantesca, contiene tutte le ac­cezioni della parola padre. Dal padre che è padrino e padrone, perché controlla e ha diritto di vita o di morte sul suo terri­torio, al padre che è pastore dello stesso quartiere dove il padrino detta legge. Ma padre Pino Puglisi, bonariamente chia­mato dai suoi amici 3P, è la vera formula della paternità. Questo tripudio di 'P' lo conferma. Un padre che dà la vita, ren­dendo liberi e dando pane.          Non è un ca­so che avesse deciso di chiamare 'Padre Nostro' il centro di accoglienza per i ra­gazzi del quartiere, che al pomeriggio in­vitava a giocare, studiare, pregare (pane e parola) con l’ausilio dei liceali della mia scuola, dove insegnava religione. Era il modo di sottrarre i giovani di Brancaccio alla strada, ai soldi facili, ai lavoretti spor­chi che garantivano manovalanza sempre nuova ai capi mafiosi e l’inizio di una car­riera tra le fila dei picciotti, in un quartiere dove, alla morte di Falcone, alcuni ragaz­zi avevano esultato per strada come do­po una vittoria calcistica.          Quei giovani potevano intravedere un’altra possibilità e soprattutto sperimentavano quell’amicizia che solo la vera paternità sa offrire. Quella del padrino è basata sul controllo, è quella dell’animale addestrato, al contrario quella del Padre invece è un’amicizia basata sulla libertà. Quei ragazzi si sentivano amati e sperimentavano le parole del Vangelo: «Vi ho chiamati amici perché vi ho fatto conoscere le cose del Padre mio».          Padre Pino è icona della paternità di Dio, come lo è stato Cristo, per questo è martire e per questo morì con il sorriso sulle labbra, come Cristo, perdonando e affidandosi al Padre: non è un’immaginetta devota o un santino dai colori fluorescenti. Sorrise davvero, come Cristo. E lo sappiamo proprio da chi gli ha sparato. Infatti Salvatore Grigoli, uno dei giovani killer, dopo aver confessato l’omicidio, raccontò: «Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello tra le mani. Fu una questione di pochi secondi: io ebbi il tempo di notare che lo Spatuzza si avvicinò, gli mise la mano per prendergli il borsello. E gli disse piano: 'Padre, questa è una rapina'. Lui si girò, lo guardò, sorrise – una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte – e disse: 'Me l’aspettavo'. Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca».          Il killer lo chiama «il padre». Il killer mandato dai padrini esegue l’atto che il padrino ha decretato: togliere la vita. La vittima in un paradossale capovolgimento, nella sua inermità è padre, sorride, perché ha già la vita, aspettava solo il momento in cui l’avrebbe data, anzi l’aveva già donata, come Cristo nel Getsemani: non è un caso che Padre Pino avesse parlato in quelle ore di quella scena in cui Cristo suda sangue. Aveva affrontato già la paura della morte, nel suo orto degli ulivi interiore. E sul suo volto il sorriso del Padre si dipinge come un sorriso che non gli appartiene, il sorriso di chi la vita la dona. Non sono i padrini che gliela tolgono, ma è lui che la dona, perché è il Padre che la dona a lui, rendendolo padre persino dei suoi assassini, che non potranno neanche dormire la notte, al pensiero di quel sorriso. Non al pensiero dei loro delitti, ma al pensiero del vero sorriso del Padre, che ama a prescindere da chi siamo e cosa facciamo.          Padre Pino Puglisi è martire perché in lui è compiuta l’immagine della Paternità di Dio, quel Cristo che lo Spirito scolpisce nella pietra informe e indocile di ciascuno di noi. E il padrino, relegato in prigione, simile ad Ugolino, si sgretola e torna ad essere quello che è sempre stato: una ridicola maschera blasfema della paternità. Per questo padre Pino è morto in odio alla fede ed è martire: provò a sostituire la maschera vuota del padrino con il vero volto del Padre. E quel volto fu lui.

Alessandro D'Avenia

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