Si chiamano Dam e combattono la loro Intifada non con i mitra, ma con la musica rappata. Arabi, ma cittadini d'Israele, sono punti di riferimento per tanti giovani e lasciano intravedere forme di protesta alternative a quelle delle immagini dei kamikaze che tappezzano la Cisgiordania.
del 17 luglio 2007
Sono stati i primi a mostrare un volto inedito dell'Intifada: combattuta non con kalashnikov o pietre ma con parole, rime e basi. Ma questo non è l'unico merito dei Dam, il primo e più famoso gruppo hip hop palestinese. «Siamo la voce degli arabi con la carta d'identità israeliana, stranieri nel nostro stesso Paese», dice il leader della band, Tamer Nafar, citando il titolo di uno dei loro pezzi più famosi, A Stranger in My Own Land. «Un ministro israeliano ci ha definito 'Un cancro nel cuore d'Israele' e possiamo andare nei Territori occupati solo illegalmente. Abbiamo tanta rabbia dentro, e il rap è il nostro modo di esprimerlo». Cantano in arabo, ma anche in inglese e in ebraico. «Dobbiamo parlare soprattutto con gli israeliani, raccontare chi siamo e qual è la nostra condizione», dice Suhell, fratello di Tamer e altro membro del gruppo. Una condizione, quella degli arabi israeliani, che Suhell commenta mostrando le stelle sulla sua carta d'identità. «Servono a identificare gli arabi. Quando la polizia le vede nei controlli, abbiamo più probabilità di essere perquisiti. Eppure guardaci: non siamo distinguibili dai sefarditi, gli ebrei d'Oriente».
Nei club alternativi di Tel Aviv si esibiscono spesso affiancati da artisti israeliani. Ed è proprio ad un pubblico di ragazzi israeliani che si rivolgono, quando salgono sul palco e mescolano rap e sonorità tradizionali arabe. «Molti sono stati in Palestina solo da soldati di leva, ma è difficile capire dove sei e chi hai di fronte, quando hai un M16 tra le mani», dice Tamer.
Lod, dove vivono, è una città dormitorio a pochi chilometri da Tel Aviv, sulla strada per l'aeroporto Ben Gurion. Palazzoni decrepiti, campetti di calcio abbandonati e, affiancate, una sinagoga, una moschea e una chiesa. I Romani la chiamavano Lydda, era un crocevia di commerci ed ospita la tomba di san Giorgio. Oggi è il primo mercato di stupefacenti del Medio Oriente. È una città a maggioranza araba, ma nel corso degli anni Novanta è cresciu ta la comunità degli ebrei provenienti dall'ex-blocco sovietico. «La mafia russa fa ottimi affari con quella araba - dice Tamer -. E quaggiù puoi vedere scene degne del film Il Padrino, con gente freddata in strada o sontuosi matrimoni in mezzo alla miseria». In questo scenario, il riferimento obbligato per i tre membri dei Dam è stata la musica dei ghetti neri americani. In particolare Tupac Shakur, il rapper americano arrivato al successo cantando la violenza delle comunità afro-americane, il razzismo e la repressione e ucciso in uno scontro tra gang nel 1996. Ma i Dam spingono oltre l'immaginazione: c'è la descrizione della loro realtà, nei loro testi, ma anche una visione politica che si nutre di attualità. «Ci piaceva il modo di parlare, così veloce, a raffica - dice Mahmoud, il terzo -. Quando abbiamo cominciato, nel '98, cantavamo qualunque cosa, i nostri rapporti con le ragazze, i nostri amici. Poi, nel 2000, è scoppiata la seconda Intifada». Il pezzo October rappresenta la svolta: la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee e l'esplosione di violenza che è venuto dopo determinano un nuovo livello di consapevolezza. I media diventano saturi di immagini di autobus esplosi, raid aerei, cortei funebri con mitra alla mano. E gli arabi israeliani diventano sempre più il nemico interno. «Potenziali terroristi, per i politici e anche per tanta gente», dice Tamer, che lo canta, Who's the terrorist ('Chi è il terrorista?'). Il deterioramento nei rapporti tra arabi ed ebrei si materializza nel degrado di Lod. «Negli ultimi dieci anni c'è stato un'impennata nel consumo di droga, soprattutto eroina e sostanze chimiche - dice Tamer -, non voglio ricorrere a teorie complottiste e dire, come altri, che la polizia le fa entrare di proposito per fiaccare la nostra volontà. Dico solo che il consumo di droga è spesso legato alla miseria. E dall'inizio della seconda Intifada, anche qui a Lod la miseria è cresciuta».
 
Stop selling drugs ('Basta vendere droghe ') è il titolo del primo album, rivolto soprattutto alle gang criminali arabe che fanno affari d'oro tra le fasce più povere della popolazione israeliana. A Lod si conoscono tutti. «Serve droga? Tutti sanno a chi chiederla. Serve un'arma? Niente di più facile». Tamer indica una stazione di polizia data alla fiamme, alcune auto che circolano a passo d'uomo - spacciatori, dice. Ma un anno fa Lod ha ospitato l'Activist Festival, appuntamento fisso per i pacifisti israeliani, e rimangono ancora dei murales. «C'è una gran voglia di costruire qualcosa insieme e questa voglia passa anche dalla musica. Abbiamo inciso con parecchi rapper israeliani e ogni anno partecipiamo agli eventi organizzati dalle associazioni per i diritti umani», spiega. Hanno cantato in Europa e Nord America e in Italia si sono esibiti con i Sud Sound System. Ma sono le tournée in Cisgiordania le vere avventure, attraverso strade secondarie. Il divieto di entrare in Palestina per i cittadini israeliani è tassativo e può costare fino a cinque anni di carcere, ma è puntualmente violato dai pacifisti. Ma i Dam sono diventati dei punti di riferimento per tanti giovani palestinesi, lasciando intravedere forme di protesta alternative a quelle incarnate dalle immagini dei martiri che tappezzano le città della Cisgiordania. E possibilità di superare i muri, fisici e culturali, che avvelenano il conflitto, anche intestino. «Dovrebbero prendere esempio da noi - dicono - invece di spararsi addosso».
Gianluca Iazzolino
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