Vivono nascosti e questo è molto duro, soprattutto per i figli che non possono sistemarsi o studiare regolarmente...
«Riceviamo minacce di morte, non possiamo restare in un posto a lungo», dice Ashiq Masih, che ricorda le difficoltà di una vita in fuga. «Viviamo nascosti e questo è molto duro, soprattutto per i figli che non possono sistemarsi o studiare regolarmente». «Non è una vita normale vivere costantemente nella paura».
A parlare è Ashiq Masih, marito di Asia Bibi e padre dei loro cinque figli. Da cinque anni una vita da fuggiaschi. Condivisa, ma non per questo più tollerabile. Dell’angoscia di una esistenza da obiettivi di ritorsione e dell’impossibilità di potere avere con la congiunta detenuta i rapporti che le regole carcerarie consentirebbero ma che nel loro caso esporrebbero se stessi e Asia Bibi a ulteriori rischi, Ashiq e la figlia Esham hanno parlato in un’intervista diffusa ieri dalla rete britannica Bbc.
Asia Bibi trascorre oggi in una cella del carcere femminile di Multan il giorno 2.054 di detenzione mentre attende dalla Corte suprema la conferma della condanna a morte per blasfemia o della innocenza che non ha mai mancato di rivendicare. Un’attesa resa ancora più insopportabile dalla dura condizione dei suoi familiari, costretti a una vita in clandestinità per una condanna a morte che – comunque andranno le cose sul piano legale o umanitario – per gli integralisti resterà valida e eseguibili in qualunque momento e ovunque.
Indubbiamente, la copertura mediatica della sua vicenda che è diventata globale dalla prima condanna alla pena capitale nel novembre 2010 (confermata in appello il 16 ottobre 2014) è servita a impedire un giudizio di condanna più sbrigativo e ha forse garantito una maggiore protezione da ritorsioni che hanno invece colpito altri accusati per gli stessi reati. Hanno però anche negato finora che venisse fatta piena giustizia, sotto una pressione integralista che non esclude giudici e parti politiche ma ancor più ha inciso sulla vita di avvocati, testimoni, attivisti e, appunto, dei suoi congiunti.
Resterebbe una grazia per decreto presidenziale. Una ipotesi lontana, se non impossibile, se la stessa Asma Jehangir, paladina per i diritti umani in Pakistan, ha ammesso la sua quasi impossibilità per le conseguenze che potrebbe avere. Ancor una volta emerge l’arbitrio nell’applicazione gli articoli del Codice Penale abitualmente definiti come “legge antiblasfemia”. Provvedimenti che ha ammesso alla Bbc il marito di Asia, «hanno distrutto la nostra vita».
Tuttavia, lui e i figli non hanno mai smesso di credere nell’innocenza di Asia e di impegnarsi per renderne possibile la liberazione. In molte occasioni hanno rischiato per potere incontrare i mass media che tengono desta l’attenzione sulla sorte della donna segnata da una legge parziale nell’origine e discriminatoria nella sostanza. Il sostegno della comunità internazionale e una revisione della legge è quanto chiesto ancora una volta da Ashiq. Questo in vista di una definitiva sentenza e delle incognite che si apriranno allora.
Per ora, la speranza della famiglia e l’angoscia della prigioniera restano quotidianità per una famiglia povera ma laboriosa, condannata da una visione radicale che tanti condannano ma che alla fine pochi si sentono di contrastare apertamente. «L’abbiamo incontrata l’ultima volta a dicembre – ricorda la figlia 14enne Esham – Quando abbiamo chiesto al secondino di aprire la porta della cella per salutarla prima di andarcene, ha rifiutato. Così nostra madre Asia ci ha abbracciato e baciato attraverso le sbarre. In lacrime».
Stefano Vecchia
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