Per affrontare il Covid ci vorrebbe Mago Merlino

Cioè ci vorrebbero educatori capaci di sollecitare le nostra creatività e libertà. Il libro controcorrente di un giovane insegnante

Per affrontare il Covid ci vorrebbe Mago Merlino


 

di Rodolfo Casadei, tratto da tempi.it

 

Cioè ci vorrebbero educatori capaci di sollecitare le nostra creatività e libertà. Il libro controcorrente di un giovane insegnante

 

Come era prevedibile, a un anno dall’inizio dell’emergenza stanno uscendo a raffica libri sulla vita al tempo del Covid: memorie e memoriali di medici e infermieri, saggi a più voci sui futuri possibili della società post-pandemia, riflessioni filosofiche e psicanalitiche impregnate di critica sociale. Fra tanti titoli, merita una lettura prioritaria Zibaldino di un prof in quarantena315 pagine scritte da un giovane docente delle medie inferiori e superiori costretto come tanti alla Didattica a distanza (Dad). Come spiega la presentazione curiosamente incastonata nella copertina, si tratta di «una rilettura dell’emergenza che cerca un senso in quel quotidiano frustrato e devastato dalla noia. Una rilettura fatta di pensieri, appunti e riflessioni tenuti assieme dalla bellezza salvifica della letteratura». 

 

L’anima tormentata dell’autore

Non solo. A cucire insieme pensieri ed emozioni non sono soltanto i compulsivi riferimenti letterari che chiamano in causa un centinaio di autori (coi posti d’onore riservati a Leopardi ovviamente, Pavese, Camus, Virginia Woolf, Dante, Kundera, Moravia, Kafka, Tolstoj, Rilke, Roth, ecc), ma rievocate trame di film (Il settimo sigillo di Bergman, Gran Torino di Clint Eastwood, La spada nella roccia di Disney) e apologhi tratti dal mondo dello sport. E a conferire carne e infondere sangue a un’operazione che altrimenti rischierebbe il citazionismo pretenzioso e lo sfoggio di erudizione sono i continui riferimenti all’esperienza di insegnante, ai rapporti con gli studenti e coi colleghi e le sofferte, intense riflessioni sull’educazione scolastica. Lì viene fuori l’anima tormentata ed entusiasta dell’autore: Matteo Saccone si espone con una sincerità disarmante e disarmata; si compiace dei successi e delle gioie con un’ingenuità fanciullesca e allo stesso tempo grida di dolore per le ferite e le cocenti delusioni. Lascerà una delle scuole dove insegna in un turbinìo di rancori, che troveranno compensazione nella gratitudine di altri studenti e di altri genitori. Questa dimensione personale del diario infonde autorevolezza alle parti più teoriche.

 

Maestro Merlino

Per capire cos’è l’educazione, dice Saccone, bisogna riguardarsi La spada nella rocciadi Walt Disney: «Il maestro conosce già il destino dell’allievo, cioè sa che ogni ragazzo è destinato a cose grandi nella vita: trasformare la propria esistenza in qualcosa di unico, di eterno, di propriamente “suo”. Un maestro che non sappia questo di ogni suo ragazzo è un cattivo maestro. Merlino lo sa, e sapendo qual è lo scopo di Semola, calibra ogni azione per quella meta». Di conseguenza lo studio non è «un freddo nozionismo da mandare a memoria, ma un’esperienza affettiva di conoscenza e arricchimento. Merlino non spiega a Semola come sono fatti i pesci, glieli fa “provare”, non gli spiega come sono fatti gli scoiattoli, glieli fa “vedere”, innescando in lui l’immedesimazione totale con l’oggetto del sapere. L’apprendimento è un avvenimento di conoscenza emozionale che trascina tutto di sé, ragione e affezione». «Inoltre La spada nella roccia delinea magistralmente il paragone tra i due eterni prototipi di educazione: quella incentrata sul solo rigore e la sola disciplina, propria di sir Ettore, il padre adottivo di Semola (che pure gli vuol bene), e quella animata dalla passione e dalla tensione al destino di Semola, che è propria di Merlino. La prima non genera, è sterile, come si vede nel figlio naturale di sir Ettore, Caio, incapace di vivere se non nascosto nell’ombra del padre». 

 

Trasmettere un desiderio

Come François-Xavier Bellamy, Saccone definisce l’educazione la trasmissione di un’eredità: «Imparare significa ricevere in eredità quello che ci rende sensibili; significa guadagnare, grazie ai nostri occhi aperti, la facoltà di disvelare la singolarità di ogni cosa. Significa, quindi, non rimanere impassibili. Rifiutando, specialmente noi insegnanti, di trasmettere la cultura che abbiamo ricevuto, priviamo i giovani che ci seguono non solo di una distinzione sociale, ma anzitutto di questa attenzione meravigliata per il mondo nel quale vivono. Sono diseredati della loro stessa capacità di meravigliarsi». Ma non è solo la cultura che va trasmessa ed ereditata: si tratta di comunicare il desiderio. E qui viene in soccorso il Clint Eastwood di Gran Torino: «C’è padre solo dove c’è la trasmissione di un’eredità, solo dove c’è testimonianza che la vita può essere desiderata sino alla sua fine, solo dove c’è la possibilità di una testimonianza incarnata di cosa significhi vivere eticamente il proprio desiderio come un dovere. (…) l’eredità non è soltanto una questione di beni, ma di desiderio. Ecco, come si eredita un desiderio è il tema centrale di Gran Torino. Si vede come in questo caso la funzione paterna assuma le vesti di una donazione, della trasmissione del desiderio e non quella della pura repressione minacciosa».

 

Dad, problemi e paradossi

Chiaro che a un insegnante del genere la Dad non va proprio giù: «La vita per circolare ha bisogno di spazi reali, di situazioni, di imprevisti. Non è un ingranaggio da riparare, ma un’esistenza in relazione, pratica quotidiana. In altre parole, “a distanza” la didattica non esiste. Una vera didattica può declinarsi solo “a vicinanza”, in presenza, a contatto». «Davanti a uno schermo virtuale si puù certamente fare comunicazione, ma purtroppo non comunità. Peccheremmo di ingenuità se limitassimo il plusvalore della scuola in presenza alla familiarità in mezzo ai corridoi, davanti alle macchinette, al cambio dell’ora, durante la ricreazione, nei bagni, all’uscita. A mancare non è il contatto umano come contorno delle lezioni: ma lo stanare la persona dal suo eterno lockdown, l’infuocare il suo torpore quotidiano». Per onestà intellettuale Saccone annota anche gli aspetti positivi della Dad: «Paradossalmente l’insegnamento a distanza ha permesso una maggiore personalizzazione dell’insegnamento, perché bisogna assicurarsi di come ogni studente segua le lezioni e di come reagisce. (…) Pur sprovvisti di adeguate competenze Dad-attiche, abbiamo visto insegnanti sessantenni che non sapevano inviare un sms che adesso maneggiano GoogleClass e lo insegnano ai colleghi più giovani, che correggono compiti online, che rispondono a ogni alunno, che propongono lavori in più, offrono tutto il loro tempo per il recupero delle insufficienze, si battono personalmente perché tutti abbiano una connessione e perché tutti usufruiscano di un tablet».

 

Ondate di conformismo

Le riflessioni sulle conseguenze sociali, psicologiche e culturali del Covid, oltre che sulla sua gestione politica, sono intrise di pessimismo e preoccupazioni difficili da non condividere. «Temo ondate di conformismo. Anni e anni di romanzi sulla vita quotidiana al tempo del Coronavirus, canzoni su quanto siamo stati forti nonostante il virus, mostre d’arte concettuale imperniate sul valore simbolico del Coronavirus, film d’amore la cui morale sarà la resilienza al Coronavirus, spettacoli teatrali sperimentali o riallestimenti di classici in mascherine e guanti, poesie il cui unico pregio sarà di aver scovato una rima in Coronavirus. Sono preoccupato per il futuro della cultura, perché il Coronavirus – più delle guerre, più dell’immigrazione, più delle ingiustizie sociali o dell’impegno per i diritti – diventerà la grande scusa definitiva per l’assenza di originalità, contro la quale non c’è vaccino».

 

Esaltazione dell’iperconnessione

Vertiginosa la riflessione sulla solitudine, un condensato di Leopardi e Pavese che ha l’equivalente visivo nei quadri di Edward Hopper: «Colpisce l’incapacità contemporanea di essere soli. L’esaltazione da iperconnessione costante del nostro tempo ci fa sperimentare davanti agli schermi un isolamento che non ha abolito la solitudine, l’ha anzi incistata nei social media, l’ha compressa nei messaggi e nei big data. Persone già devastate dalla solitudine oggi si scoprono sole perché hanno sì le parole, i segni, le icone, ma hanno perso la carne delle parole, la sensazione, la condivisione, la tenerezza, il dovere verso l’altro, la preoccupazione dell’altro. La carne delle parole la offriamo in pasto al Coronavirus, ma eravamo già orfani di questa dimensione umana che è passione condivisa. All’improvviso ci rendiamo conto che siamo soli e che non abbiamo contatti con il nostro foro interiore. Siamo schiavi degli schermi che non hanno affatto abolito la solitudine, l’hanno solo assorbita. Da qui la genesi dell’angoscia e della collera di questi giorni. (…) La solitudine che verrà è svuotata di qualsiasi sostanza immaginaria o immaginativa, svuotata di qualsiasi potenza. Andrà a confondersi con un istinto di conservazione, con il sentimento di preservare una propria incolumità, una propria integrità».

 

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