Per la cura e contro l'abbandono: una prospettiva scientificamente fondata

Ieri è stata la prima Giornata degli Stati Vegetativi. L'alto livello tecnologico che la medicina ha raggiunto ha consentito di salvare un elevato numero di pazienti che, solo pochi anni fa, sarebbero stati votati o alla morte o a gravi menomazioni. Questo scenario è radicalmente cambiato.

Per la cura e contro l'abbandono: una prospettiva scientificamente fondata

da Quaderni Cannibali

del 10 febbraio 2011

 

 

           Il 9 febbraio, ricorrenza della morte di Eluana Englaro, abbiamo celebrato la prima Giornata Nazionale dedicata agli Stati Vegetativi, con la finalità di sollecitare nella opinione pubblica un’attenzione particolare per i nostri concittadini “grandi disabili” che versano in tale condizione clinica.

 

          Superando ogni tipo di polemica, certi che, comunque la si voglia leggere, la vicenda di Eluana è una pagina dolorosa per tutti, cogliamo l’occasione per fare una riflessione proprio sugli “stati vegetativi”. Anche con la speranza di trovare un terreno comune, condiviso da ogni “uomo di buona volontà”, a favore del prendersi cura di queste persone, che in Italia si stima siano circa 2500.

          L’alto livello tecnologico che la medicina ha raggiunto ha consentito di salvare un elevato numero di pazienti che, solo pochi anni fa, sarebbero stati votati o alla morte o a gravi menomazioni.

          Nel 1952 si doveva ammettere che “i pazienti che subiscono lesioni cerebrali acute che li portano in coma raramente vivono più di qualche giorno o, eccezionalmente, due o tre settimane”.

          Questo scenario è radicalmente cambiato. Oggi, in Italia, sono circa 150mila le persone che vanno in coma a seguito di un trauma cranico; di questi circa il 15% muore, il 10% si salva riportando gravi lesioni neurologiche e lo 0,5% entra in Stato Vegetativo (SV). Il restante 74,5% può ritornare ad una vita normale o con disabilità non gravi. Se consideriamo le malattie cerebrovascolari acute, il cosiddetto “ictus”, sono circa 180mila i pazienti che vengono colpiti per anno: il 20% muore, il 10% riporta gravi deficit neurologici, l’1% entra in SV ed il restante 70% circa può riprendere la propria vita, anche con qualche disabilità.

          Questi i dati epidemiologici, ma per poterli correttamente comprendere è necessaria un rigoroso chiarimento dei termini. Che cosa intendiamo per “coma”? Il coma è uno stato di abolizione della coscienza e delle funzioni somatiche (corporee). Ciò significa che il paziente giace immobile, ad occhi chiusi, non risvegliabile, e non presenta risposte finalizzate (cioè congrue) evocate da stimoli esterni (dolorifici, acustici, visivi).

          Che cosa intendiamo quando parliamo di “coscienza”. Il concetto di coscienza può assumere significati diversi, a seconda del contesto nel quale viene utilizzato.

          Il termine deriva dal latino “cum-scire”, “sapere insieme”, volendo connotare uno stato unificante i tre centri che nell’antichità si riteneva fossero le strutture proprie dell’uomo: il centro intellettivo, il centro sensitivomotorio ed il centro emozionale. Il perfetto equilibrio fra i tre centri determina un particolare stato interiore, definito appunto “cumscire”, “coscienza”.

          Con l’evolversi degli studi e con il variare delle discipline che hanno affrontato il tema della coscienza umana, i significati attribuiti sono variati, differenziati e, spesso, sovrapposti o contrapposti. Così in ambito psicologico, la coscienza è stata qualificata come l’esperienza soggettiva di eventi o sensazioni, che si contrappone all’inconscio. In ambito psichiatrico è la capacità di separare l’Io dal mondo esterno; in ambito filosofico-etico è il discrimine fra il bene ed il male; in ambito religioso, il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce come “il sacrario segreto in cui l’uomo si trova solo con Dio”. In ambito medico si sono formulate, e continuamente si formulano, definizioni di coscienza sempre nuove e diverse.

Al fine del nostro contributo, possiamo assumere le pi√π recenti:

- è informazione integrata fra stati interni ed esterni;

- è funzione caratterizzata da consapevolezza di sé e dell’ambiente;

- è funzione che (al di là di un quadro patologico) perdiamo quando dormiamo e riacquistiamo quando ci risvegliamo.

          Queste hanno il pregio della sintesi e della semplicità sufficientemente rigorose, evidenziando le due componenti essenziali della coscienza: la vigilanza e la consapevolezza.

          Assumendo quest’angolo visuale, il coma è caratterizzato dalla mancanza di entrambe, mentre lo stato vegetativo è connotato dalla conservazione della vigilanza (il paziente ha gli occhi aperti e presenta una certa conservazione del ritmo sonno-veglia) e dalla “non evidenza” della consapevolezza di sé e dell’ambiente (non essendo in grado di comunicare con l’esterno).

          Esiste, poi, un quadro clinico intermedio fra il coma e lo SV sopra descritto (che oggi definiamo “persistente”), in cui il paziente è in grado di esprimere una qualche limitata consapevolezza di sé e dell’ambiente, presenta una certa verbalizzazione (con risposte verbali o posturali, tipo si/no) a stimoli esterni. Abbiamo definito questo quadro clinico “Stato di Minima Coscienza” (SMC), che può anche rappresentare uno stato temporaneo di evoluzione positiva dallo SV alla restituito ad integrum, più o meno completa.

          Fino a 15 anni fa circa, la comunità scientifica descriveva in modo più perentorio lo SV, dichiarando la “perdita totale” (ed irreversibile) della consapevolezza.

          Si usava anche una terminologia diversa, parlando di “morte corticale”, “coma vigile”, “sindrome apallica”: il denominatore comune era la convinzione della distruzione funzionale, completa ed irreversibile, della corteccia cerebrale, considerata la struttura anatomica portante la funzione della consapevolezza. Lo sviluppo tecnologico, nell’ambito sia della neurofisiologia sia della neuroradiologia (oggi denominata “neuroimaging), ha consentito un approccio assolutamente diverso ed innovativo al tema dei “disturbi di coscienza prolungati”.

          Possiamo parlare di “Multimodal Brain Imaging” , intendendo un approccio integrato fra tecniche di “visione” e tecniche di “funzione” nello studio del funzionamento del cervello, in particolare della corteccia cerebrale.

          Sono quattro le tecniche più frequentemente utilizzate: PET (tomografia a positroni), fRMN (risonanza magnetica funzionale), EEG/TMS (elettroencefalogramma con stimolazione magnetica transcranica) e DTI (tomografia a gradiente di spostamento di molecole d’acqua).

          Senza entrare in dettagli troppo specialistici, possiamo dire che con la PET siamo in grado di valutare il metabolismo cerebrale calcolando, l’utilizzo di glucosio radioattivo; con la fRMN l’attivazione funzionale di aree cerebrali in base al consumo di ossigeno; con EEG/TMS l’attività elettrica corticale e del tronco cerebrale (struttura essenziale per lo stato di vigilanza); con la DTI lo stato di lesione ed eventuale rigenerazione delle fibre nervose (assoni e dendriti) nella sostanza bianca.

          Fermo restando che gli studi sono in continua rapida evoluzione ed è molto di più quanto ci resta da capire rispetto a quanto abbiamo già acquisito, qualche punto fisso, certamente innovativo rispetto alle nostre tradizionali conoscenze sul funzionamento del cervello, l’abbiamo certamente raggiunto.

          Il primo “dogma” a cadere è stato quello che lo SV è caratterizzato dalla “morte corticale” o – peggio – dalla “morte cerebrale”, come qualcuno si è ostinato a dichiarare, con un’evidente superficialità anti-scientifica. Sottoponendo persone in SV a protocolli di stimolazione passiva (acustica, visiva e dolorifica) abbiamo documentato che le cosiddette “aree cerebrali primarie” sensoriali (corticali e sottocorticali), bersaglio degli stimoli, sono attive ed attivate.

          Per contro, le “aree secondarie” e le “aree associative” appaiono “spente”, cioè non attivate. Per conseguire la consapevolezza piena di un certo stimolo è necessario che le aree primarie e le aree secondarie “si parlino” fra loro, comunichino le rispettive specificità sensoriali, dato che le “aree primarie” integrano la funzione del “sentire” (sensazione), mentre le “aree secondarie” la funzione del “percepire” (percezione).

          Possiamo fare un esempio: gettiamo un sasso in uno stagno (stimolo); questo provoca un grosso tonfo nel punto di caduta (area primaria - sensazione), da cui partono onde che diffondono alla periferia (aree secondarie), ottenendo la classica immagine concentrica (percezione).

          Che cosa avviene in un paziente in SV? Allo stato attuale delle nostre conoscenze, possiamo dire che “sente ma non percepisce”. Tornando alla metafora, è come se gettassimo il sasso nella neve: tonfo e buco iniziale (area primaria – sensazione) senza alcun onda di diffusione (aree secondarie - percezione). Ecco il significato di “sente ma non percepisce”.

          Diversamente, un paziente in SMC “sente e percepisce”. Ma che cosa intendiamo per “percezione”? Intendiamo una compito di integrazione sensorimotoria per cui – sottoposti ad uno stimolo, ad esempio dolorifico – innanzitutto lo sentiamo (sensazione) e, quindi, produciamo una risposta (percezione).

          In questo modello, è come se un soggetto in SV fosse un “bersaglio passivo” di una stimolazione dolorosa, che non sarebbe in grado di elaborare sottoforma di risposta percepibile all’esterno. Certamente il versante comunicativo della percezione è bloccato, ma nulla possiamo dire (ripeto, allo stato attuale dell’arte) di quanto avviene “ad intra”, cioè circa la “percezione interna” del paziente stesso.

          Tutto ciò ci ha portato ad accantonare definitivamente il concetto di “assenza” di coscienza, propendendo verso il più prudente concetto di “non evidenza” di coscienza. Alcuni Autori hanno coniato la definizione di “coscienza sommersa” o di “coscienza frantumata”, il cui substrato anatomofunzionale è rappresentato da una deconnessione fra corteccia primaria e aree associative, multimodali e limbiche.

          Purtroppo, ad oggi, non siamo in grado tradurre in evidenze strumentali scientifiche le numerose segnalazioni che ci giungono da quanti vivono a stretto contatto quotidiano con questi pazienti. Libri e giornali riportano centinaia di testimonianze di parenti e “caregivers” che riferiscono di avere avuto numerose “prove” di partecipazione attiva del loro paziente in SV ad eventi sensoriali più diversi (da una voce ad una musica, da un pianto ad un sorriso, da un dolore ad un rumore, ecc). Senza dubbio, un certo numero di queste segnalazioni possono essere il comprensibile frutto di emozione, suggestione, grande coinvolgimento affettivo che induce inconsapevolmente il parente a “vedere quello che non c’è”, ma sarebbe scientificamente colpevole sottovalutare tout court messaggi di questo tipo.

          E’ lo statuto stesso della ricerca scientifica che ci impone di approfondire ancora e sempre di più: senza concedere nulla all’illusione o all’emozione, nessuna ipotesi di studio può essere scartata aprioristicamente.

          La domanda sostanziale, la grande sfida neuroscientifica , si può così formulare: esiste una correlato neurale documentabile strumentalmente della coscienza, intesa come comunicazione interna? E, al contrario, quanto piccola deve essere un’area corticale per essere considerata certamente “non pensante”?

          Sul piano strettamente pratico, questa mancanza di sicurezza assoluta circa la “non percezione” fonda il dovere clinico e deontologico della somministrazione della terapia antalgica: in un paziente in SMC il trattamento contro il dolore è imperativo, così come lo deve essere in un paziente in SV in ottemperanza ad un giusto principio di precauzione (“In dubio, pars tutior eligenda est”). Un altro “dogma” a cadere ha riguardato la stessa evoluzione clinica dello SV. Nel 1994 la MultiSociety Task Force on PVS aveva decretato che uno SV che perdurava da più di tre mesi da un danno cerebrale anossico e da più di un anno da un danno cerebrale traumatico doveva essere considerato (e dichiarato) “permanente”.

          La ricerca scientifica ed il progresso tecnologico ci consentono, oggi, di attenuare sensibilmente quell’affermazione: sono numerosi i casi documentati di “uscita” dallo SV verso uno stato di minima coscienza, così come molto numerosi sono i casi di errore di diagnosi fra SV e SMN. Sulla base di queste considerazioni, la comunità scientifica ha accantonato la dizione “permanente” (oggi utilizzata più in termini ideologici ed utilitaristici che scientifici), assumendo un atteggiamento più prudente (si noti che dietro il concetto di “permanente” c’è il concetto di “irreversibile”) con il termine “persistente” o “prolungato”, che lascia la porta aperta all’ulteriore ricerca sia diagnostica che – speriamo – terapeutica.

          In effetti, proprio i protocolli di “multimodal brain imaging” ci hanno svelato che il margine d’errore di diagnosi differenziale fra SVP e SMC è variabile fra il 18% ed il 43%, anche presso centri specializzati. Due sono le necessarie conseguenze cliniche. Innanzitutto acquisire un atteggiamento di massima attenzione e rigore nella valutazione diagnostica al letto del paziente, che richiede una ricognizione ed un aggiornamento plurigiornaliero e continuo. A tale scopo è stato composto un protocollo diagnostico chiamato “Coma Recovery Scale-R” (nella cui composizione devono essere coinvolti parenti e caregivers), ad oggi, purtroppo, ancora poco utilizzato. In secondo luogo, assumere sempre un atteggiamento di cura “attivo” nei confronti di queste persone, rifuggendo derive di rassegnazione o, peggio, di abbandono, fino ad invocare azioni eutanasiche.

          Fermo restando il dovere di cura verso ogni paziente ed in ogni circostanza, escludendo ogni forma di accanimento terapeutico, come non trovare un ulteriore stimolo, scientificamente fondato, nella razionale speranza di un miglioramento clinico, fosse anche minimo o modesto?

          Peraltro, considerato il rapido evolversi delle nostre conoscenze in tema di funzionamento cerebrale e di possibile rigenerazione neuronale (cellule staminali neuronali locoregionali) rendono impossibile porre un limite temporale oltre il quale si può dichiarare impossibile qualsiasi forma di recupero. Studiando uno degli ultimi casi di “risveglio” dopo uno SVP durato 19 anni (Terry Wallis), le indagini RMN/DTI hanno documentato che le fibre assonali danneggiate erano “ricresciute”, ricomponendo e riattivando networks neuronali bloccati da molti anni.

          Un interessante studio svolto presso l’Università di Cambridge nel 2009 ha documentato che, sottoponendo soggetti in SV e SMC a test di condizionamento “negativo” (secondo lo schema di Pavlov), è documentabile una certa capacità di “apprendimento”, che non si ottiene nei volontari sani anestetizzati con Propofol. Sono due reports di grande valore scientifico, da non assumere come certezze definitive, ma che devono veicolare – in termini non solo scientifici – la cultura di un diverso approccio agli “stati vegetativi”: da un atteggiamento passivo che pone queste persone nel novero dei “pazienti terminali”, a un approccio responsabile, fatto di cura e di terapia, verso persone con massima disabilità.

          E’ in questa prospettiva che, volendo celebrare la prima Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi e volendo rifuggire da ogni polemica o strumentalizzazione, l’Associazione Scienza & Vita fa propria l’esortazione che il Papa Giovanni Paolo II rivolse al mondo della cultura e della scienza: “I non credenti riflettano, i credenti riflettano e preghino; credenti e non credenti, insieme, animati da buona volontà, operino perché si realizzi nel mondo una grande alleanza tra fede e ragione”.

A favore di ogni uomo, soprattutto se “disabile”.

 

http://www.scienzaevita.org

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