A partire dall'analisi di un recente fatto di cronaca. L'equivoco tra perdono e perdonismo. Il perdono richiede una preparazione interiore e anche per la sua manifestazione vige la legge della gradualità. Il cristiano e le beatitudini.
del 16 maggio 2007
I quotidiani hanno dato molto rilievo a quel mai, urlato in chiesa per reazione al parroco che aveva chiesto perdono per l’uccisore – una donna extracomunitaria, finita sul marciapiede – della giovane Vanessa. Nello sforzo di comprenderlo e di decodificarlo si sono cimentati gli estensori di alcuni pezzi giornalistici.
A dire di Francesco Ognibene quel mai esprime «l’insostenibilità di un perdono del quale – il sacerdote amico ne è testimone – da credente conosce lo spessore, l’esigenza, il peso che bisogna saper portare. Il perdono non sta in tasca, si poggia sulle spalle al posto di una croce». Ci sono persone che, all’appuntamento improvviso e perturbante con la violenza omicida – ricordiamo il caso Erba – arrivano preparati e con semplicità sanno esprimere il perdono, maturato da molti anni con sensibilità cristiana, che fa stupire e non ha mancato di suscitare perplessità anche in qualche sacerdote. Chi, invece – continua Ognibene –, «viene preso alle spalle si sente smarrito e grida la sua umanissima ribellione. Ascoltiamo ancora quel mai di Rita, sentendone dentro l’eco di un non ancora» (Avvenire, 4 maggio, p. 2).
Pesante e polemico il giudizio espresso da Fabrizio Rondolini su La Stampa dello stesso giorno (pp. 1 e 33). Quel mai significherebbe «una tragica sconfitta culturale che si fonda emblematicamente sull’arroganza e sulla xenofobia, sul qualunquismo e sul vittimismo, e proprio in nome di questi “valori” condivisi esibisce la propria sete di giustizia». La cattiva educazione starebbe alla radice di tali deviazioni.
Umanissimo e accettabile, se accompagnato dalla clausola non ancora e quindi riformabile in direzione del perdono, oppure nettamente da condannare per i disvalori che lo contrassegnano? Cosa pensare di quel mai gridato dalla madre e sottolineato dalla compiaciuta approvazione dei presenti al rito funebre? Cosa si pensa oggi del perdono e cosa ne dobbiamo pensare noi credenti nel vangelo del Signore che comanda l’amore dei nemici e muore perdonando i suoi crocifissori? Iniziamo da questo ultimo quesito.
 
Perdono o perdonismo?
Molte riserve sono state sollevate nei confronti del perdono ieri e oggi. Esso è visto come una resa incondizionata dell’uomo all’aggressore e una capitolazione dei propri diritti di fronte al sopruso. Quando gli uomini ritengono di essere stati «mortalmente offesi», non perdonano affatto, specie se l’offesa è rivolta al clan familiare, al gruppo o alla propria dignità nazionale. Perdonare in alcune etnie significa «perdere la faccia» e abdicare a precise e inderogabili esigenze di giustizia.
Anche la dinamica evangelizzatrice non sempre è riuscita a intaccare queste persistenti incrostazioni in cui anelito alla giustizia, risentimento e odio coagulano.[1] «Colui che perdona è comunemente identificato con il codardo. Il giudizio popolare condiviso è che chi perdona «non ha sangue nelle vene»: in lui si sarebbero seccate le sorgenti della sua umanità... L’uomo che perdona è un incapace e un imbelle, anzi è un impotente. Non è tra gli uomini che contano, ma fra gli inutili». Cultura mafiosa che si ispira a Nietzsche, Freud e Gide e che tuttora alligna anche in ambienti formalmente estranei a questa temperie culturale.
Tale modo di pensare rivela una profonda incomprensione del perdono, confuso con un ingenuo e pericoloso “perdonismo”, con l’oblio dell’ingiustizia e del male. Ma il vero perdono non ha nulla a che fare con atteggiamenti del genere. Lo fa notare il papa nel suo bestseller Gesù di Nazaret (Rizzoli, 2007, p. 190): «La colpa è una realtà, una forza oggettiva: essa ha causato una distruzione che deve essere superata. Perciò perdonare deve essere più di un ignorare, di un semplice voler dimenticare. La colpa deve essere smaltita, sanata e così superata. Il perdono ha il suo prezzo – innanzitutto per colui che perdona: egli deve superare in sé il male subito, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere in questo processo di trasformazione, di purificazioni interiori anche l’altro, il colpevole, e ambedue, soffrendo fino in fondo il male e superandolo, diventare nuovi».
Il vero perdono non va dunque confuso col perdonismo facile, che ignora la colpa e rifugge dalla realizzazione della giustizia: non comporta abdicazioni e rese nei confronti del male morale, dell’oppressione e dell’ingiustizia, non ne subisce la paralisi né si lascia da esso sovrastare.
Riflessioni senz’altro valide quando il perdono è rivolto a una colpa vera e appurata anche per le vie della giustizia umana. Nel caso da cui abbiamo preso le mosse esiste però una rilevante incertezza sulla natura del gesto materialmente omicida, ma forse preterintenzionale e frutto di una reazione inconsulta a provocazioni verbali. Alcuni pensano che, se gli attori fossero stati italiani e non extracomunitari, il mai, in questo o in analoghi fatti, non sarebbe stato gridato.
 Ma qui vengono spontanee altre domande: è possibile seguire le indicazioni dell’evangelo e sono esse positive per l’ordine sociale esistente? Quali testimonianze registriamo nella nostra storia di un tale evangelico perdono e quali vie per raggiungerlo?
 
Possibilità o impossibilità del perdono evangelico?
Le beatitudini sono dei grandi orizzonti che oltrepassano la normativa etica, promesse di felicità, non solo escatologica, che non coincidono certo con il comune modo di pensare ma sembrano contraddirlo. Le esemplificazioni del cap. V dell’evangelista Matteo all’insegna del vi fu detto, ma io vi dico, sono pugni nello stomaco dell’uomo di ieri ma soprattutto di oggi immerso nell’alveo di una cultura consumistica e individualistica. Per chi vale questo discorso? Per poche anime belle o per nessuno?
Prendiamo, ad esempio, l’imperativo amate i vostri nemici, direttamente collegato con il tema del perdono, che Gesù antepone ai sacrifici e che supera ogni misura restrittiva (non sette volte, ma settanta volte sette). Ecco, in proposito, le riflessioni di un teologo del calibro di Romano Guardini. Tu dici che non puoi amare il nemico? Comincia, almeno, a non odiarlo e a non consentire che la parola del risentimento venga alle tue labbra: «Ciò che il discorso della montagna esige non è un “tutto o nulla affatto”, ma vi è in esso un iniziare e un avanzare; anche un cadere e un rialzarsi. Che cosa importa? Che noi non concepiamo il messaggio del discorso della montagna come un comandamento rigido, ma come un’esigenza viva e una forza operante al tempo stesso. Ciò che è in questione è un rapporto della persona credente con Dio, che deve poi dispiegarsi nei suoi effetti nel corso dell’esistenza; un incontro che deve avere un esordio e deve progredire».[2]  
La chiesa aiuta il credente in questo cammino che prima di noi è stato fatto dal Signore Gesù e che ora, nella forza e nella luce del suo Spirito, ci stimola a percorrere con buona volontà, iniziando, avanzando, cadendo e rialzandoci. Alla luce di queste indicazioni le riflessioni di Ognibene sul mai, corretto dal non ancora, appaiono abbastanza condivisibili.
 
Riflessi sociali del perdono.
Viviamo all’interno di una cultura di sopraffazione, di violenza e di morte. Molti avvertono l’esigenza non eludibile di una cultura alternativa, di pace, di dialogo, di superamento dell’ideologia del nemico, di nonviolenza attiva. Tra le sue componenti, il perdono occupa un posto centrale unitamente alla giustizia: non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono.
La logica del perdono evangelico si rivela feconda non solo nei rapporti interpersonali ma anche nella sfera politico-economica in vista della realizzazione di un nuovo ordine internazionale e di una nuova civiltà dell’amore solidale. Impegno arduo ma non utopistico: l’utopia evangelica, fondata sul convincimento che «il regno di Dio è vicino» è l’unico realismo percorribile dall’umanità se davvero vuole evitare che per essa «spunti il giorno, in cui altra pace non può sperimentare se non la pace di una terribile morte» (GS 82). Alle spalle del non-perdono non c’è, quindi, soltanto la cattiva educazione – come dice il corsivista della Stampa –, ma una logica perversa antitetica alla cultura dell’amore e della nonviolenza.
 
Testimonianze.
Le controtestimonianze non mancano: nel 1985 i cittadini di Marzabotto (Bologna) hanno rifiutato il perdono al maggiore delle SS Reder, responsabile di un’atroce strage. Rifiuto che, ad alcuni giornalisti di allora, è apparso del tutto corretto e civile, mentre per altri la prosecuzione del castigo non avrebbe più avuto senso né giuridico né morale ma solo il significato di vendetta irrazionale. Anni prima, gli abitanti di Monchio (Modena), ove i tedeschi fecero 136 vittime innocenti, appena a due anni dall’eccidio, eressero una stele con incisi i nomi degli uccisi e dei carnefici. Del pari seppero perdonare i familiari dei tredici certosini di Farneta (Versilia) barbaramente trucidati.
In tempi a noi più vicini, sulle orme del perdono concesso con grande apertura di spirito da Giovanni Paolo II al suo attentatore Alì Agca (e dallo stesso papa umilmente richiesto durante l’anno santo per i peccati contro l’amore commessi nel corso della storia dai cristiani), i nuclei familiari Moro, Bachelet, Talercio e altri, hanno espresso perdono autentico e dinamico agli autori di efferati omicidi nei confronti dei loro cari: gesti fecondi di grazia, salutarmente contagiosi anche nei confronti di alcuni terroristi degli «anni di piombo».
 
Quali percorsi pedagogici e spirituali suggerire?
Non dobbiamo chiedere al Signore di abbassare le vette indicate nelle beatitudini e nel discorso del monte ma di abilitarci alla salita. Non tutto e subito, non tutto o niente, ma la legge della gradualità, passo dopo passo, tappe che avvicinano al traguardo: e cioè liberare il campo da fraintendimenti del perdono nel dialogo paziente e comprensivo; indicare gli esempi di coloro che, pur colpiti negli affetti più cari, hanno saputo perdonare di cuore nello spirito del vangelo, nella forza del Cristo risorto e nella luce del suo Spirito; pregare insieme per giungere a perdonare i peccati degli altri perché il peccato degli altri è anche il mio peccato; non omologare il proprio comportamento a quello della massa, spesso xenofoba e facile alla confusione tra giustizia e vendetta; capire che il mondo diventerà più umano solo se, insieme alla giustizia, credenti e non credenti sapranno introdurre nel multiforme ambito dei rapporti interpersonali e sociali l’amore misericordioso che costituisce il messaggio messianico del vangelo e il testamento di Gesù prima della sua morte.
                                      
 
[1] Cf. Mattai G., “Perdono cristiano e suoi riflessi sociali”, in Asprenas, 1985, 9-20 e Schinella I., La faida di Dio, Il perdono mistero di Dio, ed. Paoline, 1992, 127 s.
[2] Guardini R., Il Signore, Morcelliana, Brescia 2005, 130.
Giuseppe Mattai
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