Rare le circostanze in cui ha usato la parola “Papa” ‚Äì una volta soltanto nell'omelia della messa di inizio pontificato. Al dito continua ad alternare l'anello piscatorio a quello episcopale, mentre al petto porta la croce di ferro risalente ai tempi della consacrazione a vescovo. I primi gesti del nuovo Pontefice sembrano...
Fin dalla sua prima apparizione sulla Loggia delle Benedizioni, il 13 marzo scorso, Francesco ha preferito definire se stesso come “vescovo di Roma”. Rare le circostanze in cui ha usato la parola “Papa” – una volta soltanto nell’omelia della messa di inizio pontificato. Cita Ignazio d’Antiochia, il santo “Illuminatore” per il quale la chiesa di Roma presiede nella carità tutte le altre chiese. Vuole al suo fianco, per presentarsi al popolo di Roma che gremisce piazza San Pietro, il vicario di quella diocesi, il cardinale Agostino Vallini. Parla del suo “venerato predecessore”, Benedetto XVI, chiamandolo “vescovo emerito”, benché a Joseph Ratzinger – per sua stessa decisione e volontà, fece sapere il portavoce della Sala stampa vaticana, padre Lombardi – spetti il titolo di Papa emerito. Al dito continua ad alternare l’anello piscatorio a quello episcopale, mentre al petto porta la croce di ferro risalente ai tempi della consacrazione a vescovo. Nello stesso tempo però, scrive il vaticanista Sandro Magister, “nel suo agire quotidiano Francesco esercita pienamente e vigorosamente i poteri che competono a un Papa, non sottomesso a nessun’altra autorità se non a Dio. E sa che le decisioni che prende non restano circoscritte alla diocesi di Roma, ma hanno effetti sulla chiesa di tutto il mondo”.
I primi gesti del nuovo Pontefice sembrano preconizzare una gestione più orizzontale del governo della chiesa, come richiesto peraltro nelle settimane precedenti il Conclave da ampi settori del Collegio cardinalizio riconducibili al teologo e prefetto emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Walter Kasper. Privilegiare la definizione di vescovo di Roma, poi, facilita il “dialogo nella carità e nella verità” volto a favorire “l’unità delle chiese cristiane”, come diceva la scorsa settimana il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I parlando davanti al Pontefice. Alla luce di ciò, sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica – rivista che prima di andare in stampa necessita dell’imprimatur vaticano – l’ex rettore dell’Università Gregoriana, il gesuita Gianfranco Ghirlanda, ipotizza un’evoluzione dell’esercizio del primato papale in virtù di quanto contenuto nel “Documento di Ravenna” discusso e approvato all’unanimità dai membri della commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la chiesa cattolica romana e la chiesa ortodossa durante la decima sessione plenaria della commissione a Ravenna, nell’ottobre del 2007. Interdipendenza tra primato e conciliarità Primato e conciliarità, si legge nel documento, sono reciprocamente interdipendenti. “Per tale motivo il primato ai diversi livelli della vita della chiesa, locale, regionale e universale, deve essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato”. Lasciava in sospeso, la commissione mista, la questione del ruolo del vescovo di Roma, del Papa, in riferimento alla comunione di tutte le chiese. “Quale è la funzione specifica del vescovo della ‘prima sede’?”, si chiedevano gli estensori del documento conclusivo. Al quesito aveva già provato a rispondere, nel 1995, Giovanni Paolo II con l’enciclica sull’ecumenismo “Ut unum sint”. Karol Wojtyla avvertiva “una responsabilità particolare nel trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova”.
Ghirlanda (che è un apprezzato canonista) scrive che “l’ufficio del Romano Pontefice deve essere sempre considerato all’interno della chiesa e del collegio episcopale, e quindi sempre in una stretta relazione con la chiesa e i vescovi”. Il primato del Papa non può essere messo in discussione, aggiunge l’ex rettore della Gregoriana, perché “è di istituzione divina” ed è “lo strumento attraverso il quale Cristo mantiene uno e indiviso il collegio dei vescovi e garantisce l’unità di tutto il popolo di Dio”. Ma di istituzione divina, prosegue Ghirlanda, è anche il collegio episcopale.
Proprio il Documento di Ravenna, che “dà una dinamicità al modo di concepire il ministero pontificio”, potrebbe segnare l’evoluzione del primato petrino, proiettato “verso un futuro che ogni fedele vorrebbe vedere realizzato”. Quello della piena comunione con le chiese separate.
Matteo Matzuzzi
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