Pregare la Madre conduce al Figlio

«Sono uno che dice il Rosario contando le Avemarie con la punta delle dita. È più bello perché è più semplice. Così si riesce a dirlo anche tenendo in mano il manubrio della bicicletta o correndo a piedi. Non lo recito, ma lo dico. Anche questo è un modo molto semplice di esprimersi. Recitare il Rosario è espressione tecnicamente corretta e importante. Ma 'dire' il Rosario ha un che di assoluto»

Pregare la Madre conduce al Figlio

da Teologo Borèl

del 09 agosto 2011

 «Sono uno che dice il Rosario contando le Avemarie con la punta delle dita. È più bello perché è più semplice. Così si riesce a dirlo anche tenendo in mano il manubrio della bicicletta o correndo a piedi. Non lo recito, ma lo dico. Anche questo è un modo molto semplice di esprimersi. Recitare il Rosario è espressione tecnicamente corretta e importante. Ma 'dire' il Rosario ha un che di assoluto». Così padre Giuseppe Barzaghi, domenicano, ha raccontato il suo rapporto con la più diffusa preghiera mariana nell’ambito del convegno, apertosi lunedì, Il Rosario. Teologia, storia, spiritualità promosso a Bologna dalla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna e dalla Provincia domenicana dell’Italia settentrionale.

Nessuna meraviglia che storici e teologi si cimentino con questa «pia pratica». «Il Rosario – spiega infatti un altro domenicano, padre Riccardo Barile – nasce in un ambiente raffinato. I suoi grandi fautori sono stati i certosini in epoca medievale. Solo in un secondo tempo arriverà anche un supporto di tipo popolare». Il vescovo di Assisi-Nocera UmbraGualdo Tadino Domenico Sorrentino ha messo a confronto due Lettere apostoliche di Giovanni Paolo II: la Rosarium Virginis Mariae e la Novo millennio ineunte. «In quest’ultima – ha ricordato – Giovanni Paolo II dà alla Chiesa una prospettiva della contemplazione del volto di Cristo come centro della preghiera. Nella stessa Ave Maria, il cui 'baricentro' è il nome di Gesù, il rivolgersi alla Vergine Santa – ha ricordato Sorrentino – termina non a lei, ma al mistero dell’incarnazione che si attua in lei».

Don Guido Benzi, nuovo direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, ha proposto una relazione sulla forma ripetitiva e litanica dell’orazione cristiana soffermandosi in particolare sulla posizione speciale che occupa il Magnificat in quanto inno di lode e ringraziamento posto sulle labbra della Vergine Maria. Per quanto riguarda il profilo storico Mario Ro- sa, della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha richiamato i trionfi del Rosario nella letteratura religiosa della Controriforma. «La vittoria delle forze cristiane contro quelle ottomane nella battaglia di Lepanto – ha raccontato il relatore – provocò, una eccezionale fioritura di celebrazioni letterarie. Un caso singolare fu quello del 'poema eroico' Il Rosario

di Capoleone Ghelfucci, edito postumo nel 1600, che ebbe un notevole successo editoriale e che si pone quasi a conclusione di una intera parabola politico-religiosa, emblematica di una fase fortemente combattiva della Controriforma tra il pericolo turco nel Mediterraneo e le guerre di religione in Francia». «Il Rosario – ha osservato don Erio Castellucci, preside della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna – integra nella preghiera l’aspetto 'maschile', espresso non solo dalla contemplazione dei misteri cristologici ma anche dal Padre Nostro e dal Gloria, con l’aspetto 'femminile', espresso dalla ripetizione delle Ave Maria che ne costituiscono il tessuto. La prevalenza dell’aspetto 'femminile' costituisce un opportuno contrappeso ad un’esperienza cristiana spesso in Occidente sbilanciata sul 'maschile', perché tesa al fare più che all’accogliere, al parlare più che all’ascoltare, all’organizzare più che al meditare, all’esercizio della volontà più che alla coltivazione del sentimento filiale».

In quest’ottica, ha concluso don Castellucci, «la pratica del Rosario, se bene integrata nell’esperienza complessiva della sequela Christi, contribuisce a mantenere vivo il senso di appartenenza filiale alla Chiesa, attraverso Colei che della maternità della Chiesa è l’icona perfetta».

Stefano Andrini

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